Nell'Italia delle due economie




Dario Giustizieri



Negli ultimi anni si sono formate nel nostro Paese due economie. La prima è l'economia ufficiale, la cui rigidità è andata crescendo soprattutto in seguito alle pressioni che sono state esercitate sia dai sindacati che da forze imprenditoriali per ottenere una sempre più consistente e stabile politica assistenziale. La seconda è l'economia più o meno sommersa, dove la libera iniziativa si è associata al ripristino del meccanismo di mercato, sia pure in un contesto anomalo (di dissociazione e di autonomia dallo Stato). E' bene correggere subito una convinzione altrettanto diffusa quanto errata: la convinzione che sia stato costruito negli ultimi lustri uno Stato assistenziale inteso come concretizzazione politica dell'economia del benessere. Le categorie che sono oggi assistite in verità non sono le categorie più povere, ma quelle sindacalmente e politicamente più forti.
L'incremento rilevante che si è avuto nell'occupazione pubblica non si è verificato perché si è deciso di far crescere l'offerta di servizi pubblici, di soddisfare nuovi e vecchi bisogni sociali. Eppure per quei consumi pubblici, che interessano ormai categorie sociali sempre più diffuse, si è avuto uno sviluppo qualitativo che può considerarsi sintomo di progresso sociale. Con la riforma sanitaria l'assistenza è stata assicurata a tutti i cittadini. Ma non si è avuto un miglioramento dei servizi sanitari, e, per altri servizi, non si è avuta nemmeno un'espansione quantitativa. Sono infatti aumentate le code: anche per certe diagnosi specialistiche, che debbono essere attuate tempestivamente, si deve attendere settimane e mesi. L'Università è stata aperta a tutti (o quasi): ma nello stesso tempo essa è stata dequalificata, così da diventare una macchina per creare disoccupati.
La politica assistenziale che è stata praticata è l'effetto di quella tendenza delle categorie politicamente e sindacalmente più forti ad appropriarsi il reddito prodotto da altri, di cui già parlava Vilfredo Pareto. E' così che le propensioni dei sindacati a mantenere lo status quo occupazionale, e della dirigenza di molte imprese in crisi a difendere il loro passato, hanno potuto portare all'irrigidimento dell'economia ufficiale. Per fortuna l'altra economia, che nel frattempo si è formata, è riuscita ad evitare che la sclerosi del sistema ne impedisse l'adeguamento alle mutevoli condizioni dell'economia internazionale e le pregiudicasse le possibilità di crescita. Se le esportazioni sono aumentate a tassi soddisfacenti, malgrado la perdita di competitività dell'economia ufficiale, il merito va in gran parte all'economia sommersa. Se le politiche di stretta creditizia non hanno provocato quei processi di recessione che l'avrebbero resa socialmente e politicamente insopportabile, lo dobbiamo all'economia - più o meno sommersa - dei numerosi imprenditori che hanno investito nelle loro aziende i profitti precedentemente accantonati (magari all'estero) e che hanno cercato di ampliare l'autofinanziamento per proteggere la crescita dell'impresa dai rischi che comporta la politica dello "stop and go", che le autorità monetarie avevano adottato. Il crescente assorbimento di risparmio privato da parte dello Stato - i cui deficit di bilancio attingono livelli sempre più impressionanti non ha compromesso la crescita dell'economia perché il secondo dei due sistemi, in cui essa si è spaccata, ha offerto nuovi sbocchi alle capacità imprenditoriali, nuove possibilità di impiego al risparmio disposto a finanziare l'accumulazione.
La caduta della produttività del lavoro nel settore ufficiale, poi, è stata compensata, in parte almeno, dalla particolare intensità del settore sommerso.
Non era - e non è - però difficile rendersi conto che le possibilità dell'economia non ufficiale a rimediare alle insufficienze e alle rigidità dell'economia ufficiale erano - e sono - destinate ad esaurirsi in tempi non lunghi. Parallelamente, si va riducendo la capacità dell'economia ufficiale di rispondere alle manovre monetarie e finanziarie dello Stato. Si possono negare alle imprese pubbliche i finanziamenti per effettuare nuovi investimenti; si possono costringere gli ospedali a non aggiornare le strutture diagnostiche e terapeutiche; ma non si possono ridurre ulteriormente i mezzi finanziari, quando questi sono necessari alle imprese pubbliche per pagare i salari e agli ospedali per curare gli ammalati con le strumentazioni a disposizione.
Arrivati a questo punto, la manovra monetaria deve investire anche il secondo settore dell'economia: quello vitale. E allora le alternative sono due. La prima: si insiste nella politica monetaria deflattiva e la si intensifica per ovviare all'incapacità del governo di contenere l'espansione del potere d'acquisto provocata dall'espansione della spesa pubblica, in verità ormai fuori controllo; e allora si strozzerà il settore vitale e le prospettive di medio periodo potranno essere irrimediabilmente compromesse. La seconda: si rinuncia alla politica monetaria deflattiva o la si vanifica intensificando la politica assistenziale; e allora il processo inflattivo assumerà un'accelerazione tale da minacciare anche il nostro sistema politico e sociale.
In più di un'occasione gli economisti hanno ammonito che gli strumenti della politica monetaria sono destinati a perdere di efficacia mentre vanno accentuandosi gli effetti tossici sul sistema. Ed infatti politiche - come quelle monetarie e fiscali -, che presuppongono una certa flessibilità del sistema, sono inefficaci quando il sistema ha perso pressoché totalmente la sua flessibilità. Quello che si sta verificando, e che potrà verificarsi nei mesi prossimi in conseguenza delle scelte di politica monetaria e valutaria fatte tra la seconda metà di marzo e i primi giorni di aprile, potrebbe fornire una conferma, non certo auspicabile, di queste affermazioni.


In occasione delle altre strette monetarie le reazioni dei banchieri erano sintonizzate alla decisione della Banca d'Italia. Oggi molti banchieri si domandano se non ma conveniente (sotto sotto inevitabile) violare i plafond sopportandone il costo, piuttosto che mettere in crisi numerose imprese sostanzialmente sane. li giorno in cui l'economia reale, anche quella più o meno sommersa che ha potuto nel passato rimediare alle inefficienze e alle rigidità dell'altra, entra in crisi, può essere destinato ad entrare in crisi anche il sistema bancario, i cui profitti di questi ultimi anni potrebbero rivelarsi, come è stato scritto, "il frutto di una generale allucinazione". Secondo Siro Lombardini, "dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che alle politiche strutturali non vi è alternativa". Questa convinzione rischia però di essere tardiva e comunque di avere scarsa operatività, per gli ostacoli sempre più grandi che il quadro politico va creando all'impostazione e all'attuazione delle politiche volte ad affrontare e a risolvere i nodi strutturali.
E parliamo dell'inflazione. L'inflazione pone al governo e al Paese un duplice problema: quello economico, di individuare misure idonee a frenarla; quello politico, di trovare i consensi necessari all'adozione di queste misure.
E' universalmente riconosciuto che all'inflazione, e al suo accrescersi a spirale, contribuisce in modo determinante il meccanismo della scala mobile, con i suoi effetti che gli economisti hanno definito "perversi". Nel lungo periodo, infatti, essa finisce col danneggiare gli interessi dei lavoratori; solo nel breve periodo, in qualche modo, garantisce il potere d'acquisto del salario: non c'è dunque da stupirsi che la classe lavoratrice la consideri come una conquista. Ora, in una società basata sul consenso, nessun governo può pensare di imporre sacrifici, neppure se legittimati da una maggioranza parlamentare, alle classi meno abbienti, se non dà loro la sensazione di perseguire finalità di giustizia sociale. Ci si permetta di ricordare un precedente, che sembra assai calzante e anche per questo molto suggestivo. Come oggi abbiamo la voragine dell'inflazione, così dopo la prima guerra mondiale c'era la voragine del prezzo politico del pane: venduto a un prezzo inferiore al costo, lo Stato provvedeva a finanziare la differenza. Giolitti, che non temeva l'impopolarità, si decise ad eliminare quella voragine finanziaria abolendo il prezzo politico del pane. Ma Giolitti, conservatore intelligente, era sempre stato sensibile alla sete di giustizia espressa nelle rivendicazioni operaie. Così nello stesso Consiglio dei Ministri che abolì il prezzo politico del pane, fu decretata la nominatività obbligatoria dei titoli azionari, premessa dell'efficace applicazione dell'imposta progressiva sui redditi. Da un lato una misura impopolare di risanamento; dall'altro, una misura di giustizia tributaria e sociale. Non si può cercare di ragionare negli stessi termini, ha scritto Sergio Fenoaltea, "ed elevare il livello dei nostri dibattiti"?
Il commentatore ha un esempio di livello internazionale. Nella Repubblica Federale Tedesca, dice, la socialdemocrazia propose anni addietro e realizzò una grande conquista operaia: la cogestione delle imprese (da non confondere, ovviamente, coli l'autogestione jugoslava, che è tutt'altra cosa) attraverso la presenza, nei Consigli di Amministrazione delle Aziende, di rappresentanti delle maestranze operaie da queste eletti. Per quanto può giudicarsi, la cogestione non ha ostacolato lo sviluppo dell'economia tedesco-federale, oggi una delle più forti e prospere del mondo: si può anzi pensare che vi abbia contribuito, riducendo la conflittualità. Il problema, in questo campo, potrebbe essere il seguente: che la presenza nei Consigli di Amministrazione delle Aziende venga considerata (e utilizzata) più come una "infiltrazione antipadronale" (secondo un linguaggio da retrovia culturale e politica tanto caro ancora a parecchi esponenti del mondo politico e sindacale) che come apporto di idee e di energie, fresche e creative.
E passiamo a uno dei massimi punti dolenti. Dai dati del bilancio del settore pubblico, più che da tutti i numerosi episodi della cronaca politica, si possono cogliere i sintomi della profonda crisi che riguarda il nostro Paese. Se ci limitiamo a un'analisi a livello molto generale dei dati del settore pubblico (bilancio consolidato dell'amministrazione pubblica e delle aziende autonome), possiamo dire che i fenomeni più rilevanti sono:
1) il forte aumento delle spese pubbliche che, mentre costituivano nel 1970 il 35,7 per cento del Prodotto Interno Lordo, hanno raggiunto nel 1979 il 46,7 per cento;
2) l'aumento è causato anche da quelle che sono definite le "spese di trasferimento", che hanno costituito nell'anno preso in considerazione il 61,7 per cento delle spese complessive;
3) il crescente divario tra spese ed entrate e il conseguente crescente ricorso ai finanziamenti in deficit di parte della spesa pubblica (il disavanzo che era nel '70 pari al 3,6 per cento del Prodotto Interno Lordo è passato al 10,2 per cento).
Riteniamo che per poter dare una spiegazione dei fenomeni in questione è indispensabile esaminare il contesto istituzionale in cui si formano le decisioni di bilancio. Cioè: occorre far ricorso a un'analisi di tipo politico. L'interpretazione che intendiamo proporre dei fenomeni osservati è la seguente:
a) la logica del sistema democratico porta al finanziamento in disavanzo delle spese;
b) la possibilità del ricorso al disavanzo tende a far aumentare le spese;
c) le spese preferite dalla logica interna del sistema democratico sono quelle di trasferimento.
Con Schumpeter, definiamo "metodo democratico quel l'accorgimento istituzionale per arrivare a decisioni politiche, nel quale alcune persone acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per il voto popolare". Cioè, sostanzialmente, gli uomini politici sono degli agenti economici che cercano di massimizzare voti e la democrazia, come dice lo stesso Schumpeter, "è libera concorrenza per libero voto".
La conseguenza di questa impostazione è che, come scrivono Buchanan e Wagner, "la caratteristica essenziale delle scelte democratiche di bilancio può essere illustrata considerando i vantaggi e gli svantaggi degli uomini politici nell'appoggiare bilanci di varie dimensioni e tenendo conto delle imposte e delle spese che questi implicano. Proprio le previsioni di guadagni politici e di perdite politiche derivanti da vari programmi di tassazione e di spesa creano i risultati di bilancio che emergono all'interno di un sistema democratico di concorrenza politica".
Data questa impostazione, appare evidente che il metodo meno costoso, politicamente, per finanziare le spese è quello di finanziarle in deficit in quanto, come percezione immediata da parte degli elettori, tale metodo fa sì che sembrano esservi "soltanto persone che traggono direttamente vantaggi e che non ci siano persone svantaggiate". Naturalmente, questo metodo può implicare costi; tuttavia essi non sono chiaramente visibili e quando si manifestano possono essere attribuiti ad altri.
Negli Anni '70, per le più svariate ragioni, il processo di sviluppo tende a perdere slancio, se non proprio ad arrestarsi. Si entra in quella che si è cominciato a chiamare "la società a somma zero", dove quello che guadagna uno lo deve perdere l'altro. In una situazione di questo tipo, il sistema economico tende a perdere ogni flessibilità e capacità di adattamento. Dal punto di vista economico, ognuno vuol mantenere le posizioni che ha ottenuto. In una società che cessa di essere economicamente dinamica, la domanda di sicurezza diventa la principale richiesta politica. La sicurezza economica generale non può che essere fornita a livello politico. Infatti, come scrive Thurow, "nessun individuo può garantirsi da solo la sicurezza economica. La sicurezza economica è possibile solo se altri individui o gruppi di individui concordano di dividere con voi, in determinate circostanze, il loro reddito. Per la sua stessa natura, la sicurezza economica è un'azione collettiva, che richiede decisioni collettive a una coazione collettiva".
Naturalmente, di fronte a queste pressanti richieste politiche, la tendenza naturale della classe dirigente, premuta dalla concorrenza politica, è quella di evitare le scelte che sono sempre costose in termini politici e di prendere la strada più facile di finanziare le maggiori spese richieste in disavanzo. Si deve concedere quello che viene richiesto perché, in un processo politico concorrenziale, se non concede uno concede l'altro.
Una volta scelto il disavanzo, il modo migliore dal punto di vista politico per venire incontro a queste domande della società è quello di ricorrere a sussidi e trasferimenti. Il vantaggio politico dei trasferimenti rispetto ai beni pubblici tradizionali è che i trasferimenti sono in un certo senso personalizzati (il beneficio di un sussidio è chiaramente percepibile e misurabile) mentre i benefici dei beni pubblici sono di tutti e si ha la tendenza a considerarli quasi un fatto naturale (e quindi a non attribuirne il merito pubblico). Questa caratteristica di personalizzazione è d'altro canto preferita non solo da chi riceve, ma anche dai politici che offrono in quanto permette loro di scegliere i clienti da favorire (i trasferimenti possono essere selettivi). Va inoltre sottolineato che la personalizzazione dei trasferimenti rende più facile l'organizzazione collettiva dei piccoli gruppi di richiedenti. Di conseguenza, le richieste sezionali saranno quelle più forti e più sentite a livello politico. Questo meccanismo di espansione della spesa pubblica e del disavanzo è ben lungi dal servire gli interessi del capitalismo, come alcuni studiosi di ispirazione marxista sembrano sostenere; al contrario: contribuisce a distruggerlo. Come diceva Scitovsky, "il capitalismo funziona quando è flessibile, ma si autodistrugge quando non Io è". Infatti, "l'inflessibilità separa i mercati l'uno dall'altro e immobilizza, all'interno di ognuno, ogni disturbo o disequilibrio che ciascuno di essi può avere. In altre parole, l'inflessibilità causa, o piuttosto preserva, la frammentazione dell'economia, che diventa manifesta nella dispersione di gradi e tipi di squilibrio di mercato fra settori e regioni". Ora, gran parte degli interventi di spesa operano nel senso di favorire l'inflessibilità del sistema. Infatti, la tendenza è verso gli interessi che mirano a mantenere l'immobilità e lo status quo e tutto quanto viene fatto senza che vi siano costi apparenti.
Un'ulteriore conseguenza di questa perdita di flessibilità del sistema è quella di rendere inefficaci le tradizionali politiche di stabilizzazione. Infatti, osserva ancora Scitovsky, "quando due mercati o due parti dell'economia soffrono - uno di eccesso l'altro di una insufficienza di domanda - la flessibilità permetterebbe a questi due opposti equilibri di bilanciarsi e di eliminarsi l'uno con l'altro; l'inflessibilità li preserva entrambi intatti". Ora "le restrizioni e le espansioni Fiscali e monetarie sono politiche macroeconomiche per eccellenza. Non possono essere focalizzate solo sii un punto malato del corpo economico. La loro influenza è diffusa, e così agisce sui differenti settori e industrie dell'economia più o meno egualmente e con la stessa intensità. Ecco la ragione per cui queste politiche sono più efficaci e politicamente più accettabili in una economia dove le diverse parti e settori soffrono tutti del medesimo male e più o meno nello stesso grado. La flessibilità è naturalmente ciò che crea questo genere di uniformità, perché porta ad alte elasticità di sostituzione, trasformazione, adattamento, ed in tal modo assicura che le diverse parti di un'economia sottoriscaldata o surriscaldata non abbiano temperature troppo dissimili".
La conseguenza del fatto che gli strumenti generali della politica fiscale e monetaria diventano inusabili è che prenderà sempre più forza la tendenza ad interventi sempre più specifici e quindi, se la nostra analisi è corretta, sempre più corporativi e sezionali e che accentueranno sempre più l'inflessibilità del sistema economico e nello stesso tempo la crisi del sistema democratico.
Può sembrare strano aver condotto un discorso sulle finanze pubbliche senza soffermarsi sui temi tradizionali degli effetti macroeconomici del bilancio e senza riferimento alle dispute fra monetaristi e keynesiani nelle foro diverse correnti, articolazioni e combinazioni, senza accennare nemmeno di sfuggita ai vari "spiazzamenti" e così via. La ragione è questa: riteniamo che, quale che sia la posizione teorica che si voglia adottare, il punto importante è quello di riconoscere che il meccanismo istituzionale italiano è tale per cui le decisioni di bilancio sono viziate da una tara di fondo, e cioè dal fatto che vi sono dei costi che tendono ad essere sistematicamente sottovalutati. Per ovviare a ciò, non è possibile far conto, in una società democratica, semplicemente sulla buona volontà degli uomini politici. La logica della concorrenza politica democratica tende a far sopravvivere gli uomini politici che, date le regole del gioco, ottengono più voti. Il problema per salvaguardare la democrazia diventa dunque quello di modificare le regole del gioco, in modo che la concorrenza democratica porti a risultati più desiderabili.
Passiamo ai riflessi sul risparmio e sul sistema bancario. I bilanci degli Istituti bancari, pur presentando saldi attivi, hanno dovuto registrare negli ultimi anni un progressivo processo di disintermediazione, che ha assunto nel 1980 proporzioni di una consistenza tale da allarmare gli addetti ai lavori. Al di là dei valori numerari e degli aspetti contingenti, non si può negare che l'anno scorso ha ampiamente penalizzato la raccolta del risparmio da parte del sistema bancario, provocando contemporaneamente rilevanti spostamenti di moneta versi altri settori. Negli ultimi anni - dicevamo - il sistema creditizio non è stato in grado di recuperare neppure la svalutazione interna denunciando per contro un saldo negativo in termini reali: circa un 8 per cento in meno del 1980 rispetto al 1979.
Pur ritenendo che il sistema non abbia abusato per ragioni di "vetrina" a gonfiare la raccolta nei propri bilanci, è indubbio che la massa sia ancora nel nostro Paese uno, se non l'unico, dei parametri fondamentali per valutare un Istituto bancario. Gli altri criteri di valutazione significativi sono quelli del rapporto con gli impieghi e della loro qualità, la patrimonializzazione, le garanzie offerte ai depositanti. Anche nelle Banche più attive, in questo contesto, c'è stata una flessione della raccolta nell'80 e un decremento dei depositi nei primi mesi dell'81.
Quali le cause di questo fenomeno di disintermediazione? Come sempre, le ragioni sono economiche e monetarie.


Innanzitutto, una netta tendenza da parte dei risparmiatori al consumo e alla ricerca di beni rifugio, che (realmente o fittiziamente) difendano il frutto del suo lavoro da un'inflazione che finisce per vanificare il suo potere d'acquisto. Abbiamo assistito, negli ultimi anni in particolare, a una progressiva disaffezione al risparmio: e la tendenza si è rivolta spesso a beni che nella loro varietà, e spesso nella loro stranezza, hanno finito per difendere solo nominalmente il risparmio dall'inflazione. Si è assistito all'acquisto di tutto, in questo tentativo; ma la speranza è stata spesso frustrata dalla speculazione e dalla spregiudicatezza di improvvisati "esperti", che si sono velocemente arricchiti alle spalle di un risparmiatore in buona fede, spesso male informato.
Ma ci sono altre ragioni, anche gravi, che hanno inciso sul fenomeno della disintermediazione: il primo, ha scritto il professor Pierpaolo Tassi, "è l'insostenibile concorrenza che il Tesoro con i suoi nuovi mezzi, Bot e Cct, esercita nei confronti della componente bancaria. La rendita di tali titoli, esenti da ogni imposizione fiscale, è decisamente superiore a quella che il sistema bancario può offrire. Il finanziamento della spesa pubblica ha costretto lo Stato a intervenire direttamente sul mercato del risparmio, offrendo anche al piccolo risparmiatore titoli che hanno una rendita elevata". A prima vista, il sistema sembrerebbe produrre effetti positivi, e per il risparmiatore, di fatto, nel breve li produce; ma ci sono anche riserve a livello generale, che propongono interrogativi inquietanti.
Innanzitutto, lo Stato può trovarsi in difficoltà all'atto della retribuzione del capitale ed essere costretto ad emettere e collocare nuovi titoli anche per la parte interessi. D'altro canto, sostiene Tassi, "se il beneficio immediato è di sottrarre liquidità al mercato, nel medio la liquidità è invece in aumento, anche per l'alta velocità di questa "quasi moneta", con l'ovvia conclusione che, anziché raffreddare, l'inflazione può agire in senso contrario".
Se poi, come da qualcuno si sussurra, la Banca d'Italia smettesse di intervenire alle aste (determinando di fatto i prezzi di aggiudicazione e le quantità) lasciando invece al libero mercato il prezzo e di conseguenza la rendita, si può prevedere che il Tesoro, nella necessità di approvvigionarsi di denaro, potrebbe accedere a tassi di rendimento ancora più alti, con conseguenze gravi per l'intera economia.
Altra causa di disintermediazione, le offerte allettanti che tante vecchie e recenti società finanziarie offrono sul mercato. In questi ultimi anni abbiamo assistito ad una vera e propria esplosione del fenomeno, sia per numero che per importanza. Le valutazioni che facciamo sono ovviamente di ordine generale e non vogliono coinvolgere tutte le finanziarie. Dobbiamo però sottolineare le scarse garanzie che spesso esse offrono: innanzitutto, per la mancanza di qualsiasi possibilità di controllo da parte dell'Organo di Vigilanza; in secondo luogo, per lo scarso capitale delle società del settore; infine, per le possibilità di onorare gli impegni che assumono, oggi, in un auspicato domani che veda calato il tasso d'inflazione. Per la complessità e per le dimensioni che il fenomeno va assumendo, alla luce delle disposizioni costituzionali e legislative, riteniamo necessario e urgente un intervento del legislatore in difesa dei risparmiatori.
Numerose sono le altre cause della disintermediazione: dall'indicizzazione del risparmio postale alla possibilità diretta di intervento delle SpA sul mercato del risparmio con emissione di obbligazioni, all'autofinanziamento delle cooperative, e via dicendo. Ma su una vorremmo fermare la nostra attenzione, sia per la vastità che per l'importanza che riveste: l'esplosione della Borsa.
Il risparmiatore ha ritenuto di intervenire direttamente sul mercato dei titoli azionari, determinando così un processo che ha pochi precedenti nel nostro Paese e ponendo in evidenza i limiti strutturali e operativi della Borsa italiana. Basti pensare che ogni anno 60-70 mila miliardi di interessi da risparmio cercano una collocazione. Abbiamo scientemente accennato ai soli interessi, perché riteniamo impossibile prendere in considerazione il capitale. Ebbene, anche solo l'enorme quantità degli interessi non può certamente trovare uno sbocco nel sistema produttivo accedendo alla Borsa, poiché questa oggi non è in grado di accogliere il piccolo e il medio risparmiatore, sia per l'esiguità dei titoli quotati sia - o ancora di più - per i valori invendibili. E' un problema che gli addetti ai lavori e il legislatore si sono posto e che dovrà in qualche modo essere risolto positivamente. L'apporto diretto del risparmio alla Borsa è uno dei presupposti fondamentali della produttività nel nostro Paese. E' necessario però che il piccolo e il medio risparmiatore abbiano, prima di tutto, la possibilità di accedervi e poi che essi siano tutelati dai fenomeni distorsivi e speculativi già conosciuti in passato. Questo, a nostro avviso, sarà possibile solo se il numero dei titoli quotati sarà proporzionale alle richieste di investimento, e se il risparmiatore potrà esercitare di fatto una scelta autonoma.
Tornando, per concludere, alla disintermediazione occorre dire che non può essere un male, se essa riguarda dimensioni ragionevoli e se lo Stato, per finanziare i suoi deficit, non si indebita fino ai capelli. Quel che invece non si può approvare è che l'intermediazione bancaria venga disincentivata con eccessive "indicizzazioni" o con mezzi che non producono, a livello economico, effetti positivi e non danno sufficienti garanzie al risparmiatore.


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