Negli ultimi anni
si sono formate nel nostro Paese due economie. La prima è l'economia
ufficiale, la cui rigidità è andata crescendo soprattutto
in seguito alle pressioni che sono state esercitate sia dai sindacati
che da forze imprenditoriali per ottenere una sempre più consistente
e stabile politica assistenziale. La seconda è l'economia più
o meno sommersa, dove la libera iniziativa si è associata al
ripristino del meccanismo di mercato, sia pure in un contesto anomalo
(di dissociazione e di autonomia dallo Stato). E' bene correggere subito
una convinzione altrettanto diffusa quanto errata: la convinzione che
sia stato costruito negli ultimi lustri uno Stato assistenziale inteso
come concretizzazione politica dell'economia del benessere. Le categorie
che sono oggi assistite in verità non sono le categorie più
povere, ma quelle sindacalmente e politicamente più forti.
L'incremento rilevante che si è avuto nell'occupazione pubblica
non si è verificato perché si è deciso di far crescere
l'offerta di servizi pubblici, di soddisfare nuovi e vecchi bisogni
sociali. Eppure per quei consumi pubblici, che interessano ormai categorie
sociali sempre più diffuse, si è avuto uno sviluppo qualitativo
che può considerarsi sintomo di progresso sociale. Con la riforma
sanitaria l'assistenza è stata assicurata a tutti i cittadini.
Ma non si è avuto un miglioramento dei servizi sanitari, e, per
altri servizi, non si è avuta nemmeno un'espansione quantitativa.
Sono infatti aumentate le code: anche per certe diagnosi specialistiche,
che debbono essere attuate tempestivamente, si deve attendere settimane
e mesi. L'Università è stata aperta a tutti (o quasi):
ma nello stesso tempo essa è stata dequalificata, così
da diventare una macchina per creare disoccupati.
La politica assistenziale che è stata praticata è l'effetto
di quella tendenza delle categorie politicamente e sindacalmente più
forti ad appropriarsi il reddito prodotto da altri, di cui già
parlava Vilfredo Pareto. E' così che le propensioni dei sindacati
a mantenere lo status quo occupazionale, e della dirigenza di molte
imprese in crisi a difendere il loro passato, hanno potuto portare all'irrigidimento
dell'economia ufficiale. Per fortuna l'altra economia, che nel frattempo
si è formata, è riuscita ad evitare che la sclerosi del
sistema ne impedisse l'adeguamento alle mutevoli condizioni dell'economia
internazionale e le pregiudicasse le possibilità di crescita.
Se le esportazioni sono aumentate a tassi soddisfacenti, malgrado la
perdita di competitività dell'economia ufficiale, il merito va
in gran parte all'economia sommersa. Se le politiche di stretta creditizia
non hanno provocato quei processi di recessione che l'avrebbero resa
socialmente e politicamente insopportabile, lo dobbiamo all'economia
- più o meno sommersa - dei numerosi imprenditori che hanno investito
nelle loro aziende i profitti precedentemente accantonati (magari all'estero)
e che hanno cercato di ampliare l'autofinanziamento per proteggere la
crescita dell'impresa dai rischi che comporta la politica dello "stop
and go", che le autorità monetarie avevano adottato. Il
crescente assorbimento di risparmio privato da parte dello Stato - i
cui deficit di bilancio attingono livelli sempre più impressionanti
non ha compromesso la crescita dell'economia perché il secondo
dei due sistemi, in cui essa si è spaccata, ha offerto nuovi
sbocchi alle capacità imprenditoriali, nuove possibilità
di impiego al risparmio disposto a finanziare l'accumulazione.
La caduta della produttività del lavoro nel settore ufficiale,
poi, è stata compensata, in parte almeno, dalla particolare intensità
del settore sommerso.
Non era - e non è - però difficile rendersi conto che
le possibilità dell'economia non ufficiale a rimediare alle insufficienze
e alle rigidità dell'economia ufficiale erano - e sono - destinate
ad esaurirsi in tempi non lunghi. Parallelamente, si va riducendo la
capacità dell'economia ufficiale di rispondere alle manovre monetarie
e finanziarie dello Stato. Si possono negare alle imprese pubbliche
i finanziamenti per effettuare nuovi investimenti; si possono costringere
gli ospedali a non aggiornare le strutture diagnostiche e terapeutiche;
ma non si possono ridurre ulteriormente i mezzi finanziari, quando questi
sono necessari alle imprese pubbliche per pagare i salari e agli ospedali
per curare gli ammalati con le strumentazioni a disposizione.
Arrivati a questo punto, la manovra monetaria deve investire anche il
secondo settore dell'economia: quello vitale. E allora le alternative
sono due. La prima: si insiste nella politica monetaria deflattiva e
la si intensifica per ovviare all'incapacità del governo di contenere
l'espansione del potere d'acquisto provocata dall'espansione della spesa
pubblica, in verità ormai fuori controllo; e allora si strozzerà
il settore vitale e le prospettive di medio periodo potranno essere
irrimediabilmente compromesse. La seconda: si rinuncia alla politica
monetaria deflattiva o la si vanifica intensificando la politica assistenziale;
e allora il processo inflattivo assumerà un'accelerazione tale
da minacciare anche il nostro sistema politico e sociale.
In più di un'occasione gli economisti hanno ammonito che gli
strumenti della politica monetaria sono destinati a perdere di efficacia
mentre vanno accentuandosi gli effetti tossici sul sistema. Ed infatti
politiche - come quelle monetarie e fiscali -, che presuppongono una
certa flessibilità del sistema, sono inefficaci quando il sistema
ha perso pressoché totalmente la sua flessibilità. Quello
che si sta verificando, e che potrà verificarsi nei mesi prossimi
in conseguenza delle scelte di politica monetaria e valutaria fatte
tra la seconda metà di marzo e i primi giorni di aprile, potrebbe
fornire una conferma, non certo auspicabile, di queste affermazioni.

In occasione delle altre strette monetarie le reazioni dei banchieri
erano sintonizzate alla decisione della Banca d'Italia. Oggi molti banchieri
si domandano se non ma conveniente (sotto sotto inevitabile) violare
i plafond sopportandone il costo, piuttosto che mettere in crisi numerose
imprese sostanzialmente sane. li giorno in cui l'economia reale, anche
quella più o meno sommersa che ha potuto nel passato rimediare
alle inefficienze e alle rigidità dell'altra, entra in crisi,
può essere destinato ad entrare in crisi anche il sistema bancario,
i cui profitti di questi ultimi anni potrebbero rivelarsi, come è
stato scritto, "il frutto di una generale allucinazione".
Secondo Siro Lombardini, "dovrebbe ormai essere chiaro a tutti
che alle politiche strutturali non vi è alternativa". Questa
convinzione rischia però di essere tardiva e comunque di avere
scarsa operatività, per gli ostacoli sempre più grandi
che il quadro politico va creando all'impostazione e all'attuazione
delle politiche volte ad affrontare e a risolvere i nodi strutturali.
E parliamo dell'inflazione. L'inflazione pone al governo e al Paese
un duplice problema: quello economico, di individuare misure idonee
a frenarla; quello politico, di trovare i consensi necessari all'adozione
di queste misure.
E' universalmente riconosciuto che all'inflazione, e al suo accrescersi
a spirale, contribuisce in modo determinante il meccanismo della scala
mobile, con i suoi effetti che gli economisti hanno definito "perversi".
Nel lungo periodo, infatti, essa finisce col danneggiare gli interessi
dei lavoratori; solo nel breve periodo, in qualche modo, garantisce
il potere d'acquisto del salario: non c'è dunque da stupirsi
che la classe lavoratrice la consideri come una conquista. Ora, in una
società basata sul consenso, nessun governo può pensare
di imporre sacrifici, neppure se legittimati da una maggioranza parlamentare,
alle classi meno abbienti, se non dà loro la sensazione di perseguire
finalità di giustizia sociale. Ci si permetta di ricordare un
precedente, che sembra assai calzante e anche per questo molto suggestivo.
Come oggi abbiamo la voragine dell'inflazione, così dopo la prima
guerra mondiale c'era la voragine del prezzo politico del pane: venduto
a un prezzo inferiore al costo, lo Stato provvedeva a finanziare la
differenza. Giolitti, che non temeva l'impopolarità, si decise
ad eliminare quella voragine finanziaria abolendo il prezzo politico
del pane. Ma Giolitti, conservatore intelligente, era sempre stato sensibile
alla sete di giustizia espressa nelle rivendicazioni operaie. Così
nello stesso Consiglio dei Ministri che abolì il prezzo politico
del pane, fu decretata la nominatività obbligatoria dei titoli
azionari, premessa dell'efficace applicazione dell'imposta progressiva
sui redditi. Da un lato una misura impopolare di risanamento; dall'altro,
una misura di giustizia tributaria e sociale. Non si può cercare
di ragionare negli stessi termini, ha scritto Sergio Fenoaltea, "ed
elevare il livello dei nostri dibattiti"?
Il commentatore ha un esempio di livello internazionale. Nella Repubblica
Federale Tedesca, dice, la socialdemocrazia propose anni addietro e
realizzò una grande conquista operaia: la cogestione delle imprese
(da non confondere, ovviamente, coli l'autogestione jugoslava, che è
tutt'altra cosa) attraverso la presenza, nei Consigli di Amministrazione
delle Aziende, di rappresentanti delle maestranze operaie da queste
eletti. Per quanto può giudicarsi, la cogestione non ha ostacolato
lo sviluppo dell'economia tedesco-federale, oggi una delle più
forti e prospere del mondo: si può anzi pensare che vi abbia
contribuito, riducendo la conflittualità. Il problema, in questo
campo, potrebbe essere il seguente: che la presenza nei Consigli di
Amministrazione delle Aziende venga considerata (e utilizzata) più
come una "infiltrazione antipadronale" (secondo un linguaggio
da retrovia culturale e politica tanto caro ancora a parecchi esponenti
del mondo politico e sindacale) che come apporto di idee e di energie,
fresche e creative.
E passiamo a uno dei massimi punti dolenti. Dai dati del bilancio del
settore pubblico, più che da tutti i numerosi episodi della cronaca
politica, si possono cogliere i sintomi della profonda crisi che riguarda
il nostro Paese. Se ci limitiamo a un'analisi a livello molto generale
dei dati del settore pubblico (bilancio consolidato dell'amministrazione
pubblica e delle aziende autonome), possiamo dire che i fenomeni più
rilevanti sono:
1) il forte aumento delle spese pubbliche che, mentre costituivano nel
1970 il 35,7 per cento del Prodotto Interno Lordo, hanno raggiunto nel
1979 il 46,7 per cento;
2) l'aumento è causato anche da quelle che sono definite le "spese
di trasferimento", che hanno costituito nell'anno preso in considerazione
il 61,7 per cento delle spese complessive;
3) il crescente divario tra spese ed entrate e il conseguente crescente
ricorso ai finanziamenti in deficit di parte della spesa pubblica (il
disavanzo che era nel '70 pari al 3,6 per cento del Prodotto Interno
Lordo è passato al 10,2 per cento).
Riteniamo che per poter dare una spiegazione dei fenomeni in questione
è indispensabile esaminare il contesto istituzionale in cui si
formano le decisioni di bilancio. Cioè: occorre far ricorso a
un'analisi di tipo politico. L'interpretazione che intendiamo proporre
dei fenomeni osservati è la seguente:
a) la logica del sistema democratico porta al finanziamento in disavanzo
delle spese;
b) la possibilità del ricorso al disavanzo tende a far aumentare
le spese;
c) le spese preferite dalla logica interna del sistema democratico sono
quelle di trasferimento.
Con Schumpeter, definiamo "metodo democratico quel l'accorgimento
istituzionale per arrivare a decisioni politiche, nel quale alcune persone
acquistano il potere di decidere mediante una lotta competitiva per
il voto popolare". Cioè, sostanzialmente, gli uomini politici
sono degli agenti economici che cercano di massimizzare voti e la democrazia,
come dice lo stesso Schumpeter, "è libera concorrenza per
libero voto".
La conseguenza di questa impostazione è che, come scrivono Buchanan
e Wagner, "la caratteristica essenziale delle scelte democratiche
di bilancio può essere illustrata considerando i vantaggi e gli
svantaggi degli uomini politici nell'appoggiare bilanci di varie dimensioni
e tenendo conto delle imposte e delle spese che questi implicano. Proprio
le previsioni di guadagni politici e di perdite politiche derivanti
da vari programmi di tassazione e di spesa creano i risultati di bilancio
che emergono all'interno di un sistema democratico di concorrenza politica".
Data questa impostazione, appare evidente che il metodo meno costoso,
politicamente, per finanziare le spese è quello di finanziarle
in deficit in quanto, come percezione immediata da parte degli elettori,
tale metodo fa sì che sembrano esservi "soltanto persone
che traggono direttamente vantaggi e che non ci siano persone svantaggiate".
Naturalmente, questo metodo può implicare costi; tuttavia essi
non sono chiaramente visibili e quando si manifestano possono essere
attribuiti ad altri.
Negli Anni '70, per le più svariate ragioni, il processo di sviluppo
tende a perdere slancio, se non proprio ad arrestarsi. Si entra in quella
che si è cominciato a chiamare "la società a somma
zero", dove quello che guadagna uno lo deve perdere l'altro. In
una situazione di questo tipo, il sistema economico tende a perdere
ogni flessibilità e capacità di adattamento. Dal punto
di vista economico, ognuno vuol mantenere le posizioni che ha ottenuto.
In una società che cessa di essere economicamente dinamica, la
domanda di sicurezza diventa la principale richiesta politica. La sicurezza
economica generale non può che essere fornita a livello politico.
Infatti, come scrive Thurow, "nessun individuo può garantirsi
da solo la sicurezza economica. La sicurezza economica è possibile
solo se altri individui o gruppi di individui concordano di dividere
con voi, in determinate circostanze, il loro reddito. Per la sua stessa
natura, la sicurezza economica è un'azione collettiva, che richiede
decisioni collettive a una coazione collettiva".
Naturalmente, di fronte a queste pressanti richieste politiche, la tendenza
naturale della classe dirigente, premuta dalla concorrenza politica,
è quella di evitare le scelte che sono sempre costose in termini
politici e di prendere la strada più facile di finanziare le
maggiori spese richieste in disavanzo. Si deve concedere quello che
viene richiesto perché, in un processo politico concorrenziale,
se non concede uno concede l'altro.
Una volta scelto il disavanzo, il modo migliore dal punto di vista politico
per venire incontro a queste domande della società è quello
di ricorrere a sussidi e trasferimenti. Il vantaggio politico dei trasferimenti
rispetto ai beni pubblici tradizionali è che i trasferimenti
sono in un certo senso personalizzati (il beneficio di un sussidio è
chiaramente percepibile e misurabile) mentre i benefici dei beni pubblici
sono di tutti e si ha la tendenza a considerarli quasi un fatto naturale
(e quindi a non attribuirne il merito pubblico). Questa caratteristica
di personalizzazione è d'altro canto preferita non solo da chi
riceve, ma anche dai politici che offrono in quanto permette loro di
scegliere i clienti da favorire (i trasferimenti possono essere selettivi).
Va inoltre sottolineato che la personalizzazione dei trasferimenti rende
più facile l'organizzazione collettiva dei piccoli gruppi di
richiedenti. Di conseguenza, le richieste sezionali saranno quelle più
forti e più sentite a livello politico. Questo meccanismo di
espansione della spesa pubblica e del disavanzo è ben lungi dal
servire gli interessi del capitalismo, come alcuni studiosi di ispirazione
marxista sembrano sostenere; al contrario: contribuisce a distruggerlo.
Come diceva Scitovsky, "il capitalismo funziona quando è
flessibile, ma si autodistrugge quando non Io è". Infatti,
"l'inflessibilità separa i mercati l'uno dall'altro e immobilizza,
all'interno di ognuno, ogni disturbo o disequilibrio che ciascuno di
essi può avere. In altre parole, l'inflessibilità causa,
o piuttosto preserva, la frammentazione dell'economia, che diventa manifesta
nella dispersione di gradi e tipi di squilibrio di mercato fra settori
e regioni". Ora, gran parte degli interventi di spesa operano nel
senso di favorire l'inflessibilità del sistema. Infatti, la tendenza
è verso gli interessi che mirano a mantenere l'immobilità
e lo status quo e tutto quanto viene fatto senza che vi siano costi
apparenti.
Un'ulteriore conseguenza di questa perdita di flessibilità del
sistema è quella di rendere inefficaci le tradizionali politiche
di stabilizzazione. Infatti, osserva ancora Scitovsky, "quando
due mercati o due parti dell'economia soffrono - uno di eccesso l'altro
di una insufficienza di domanda - la flessibilità permetterebbe
a questi due opposti equilibri di bilanciarsi e di eliminarsi l'uno
con l'altro; l'inflessibilità li preserva entrambi intatti".
Ora "le restrizioni e le espansioni Fiscali e monetarie sono politiche
macroeconomiche per eccellenza. Non possono essere focalizzate solo
sii un punto malato del corpo economico. La loro influenza è
diffusa, e così agisce sui differenti settori e industrie dell'economia
più o meno egualmente e con la stessa intensità. Ecco
la ragione per cui queste politiche sono più efficaci e politicamente
più accettabili in una economia dove le diverse parti e settori
soffrono tutti del medesimo male e più o meno nello stesso grado.
La flessibilità è naturalmente ciò che crea questo
genere di uniformità, perché porta ad alte elasticità
di sostituzione, trasformazione, adattamento, ed in tal modo assicura
che le diverse parti di un'economia sottoriscaldata o surriscaldata
non abbiano temperature troppo dissimili".
La conseguenza del fatto che gli strumenti generali della politica fiscale
e monetaria diventano inusabili è che prenderà sempre
più forza la tendenza ad interventi sempre più specifici
e quindi, se la nostra analisi è corretta, sempre più
corporativi e sezionali e che accentueranno sempre più l'inflessibilità
del sistema economico e nello stesso tempo la crisi del sistema democratico.
Può sembrare strano aver condotto un discorso sulle finanze pubbliche
senza soffermarsi sui temi tradizionali degli effetti macroeconomici
del bilancio e senza riferimento alle dispute fra monetaristi e keynesiani
nelle foro diverse correnti, articolazioni e combinazioni, senza accennare
nemmeno di sfuggita ai vari "spiazzamenti" e così via.
La ragione è questa: riteniamo che, quale che sia la posizione
teorica che si voglia adottare, il punto importante è quello
di riconoscere che il meccanismo istituzionale italiano è tale
per cui le decisioni di bilancio sono viziate da una tara di fondo,
e cioè dal fatto che vi sono dei costi che tendono ad essere
sistematicamente sottovalutati. Per ovviare a ciò, non è
possibile far conto, in una società democratica, semplicemente
sulla buona volontà degli uomini politici. La logica della concorrenza
politica democratica tende a far sopravvivere gli uomini politici che,
date le regole del gioco, ottengono più voti. Il problema per
salvaguardare la democrazia diventa dunque quello di modificare le regole
del gioco, in modo che la concorrenza democratica porti a risultati
più desiderabili.
Passiamo ai riflessi sul risparmio e sul sistema bancario. I bilanci
degli Istituti bancari, pur presentando saldi attivi, hanno dovuto registrare
negli ultimi anni un progressivo processo di disintermediazione, che
ha assunto nel 1980 proporzioni di una consistenza tale da allarmare
gli addetti ai lavori. Al di là dei valori numerari e degli aspetti
contingenti, non si può negare che l'anno scorso ha ampiamente
penalizzato la raccolta del risparmio da parte del sistema bancario,
provocando contemporaneamente rilevanti spostamenti di moneta versi
altri settori. Negli ultimi anni - dicevamo - il sistema creditizio
non è stato in grado di recuperare neppure la svalutazione interna
denunciando per contro un saldo negativo in termini reali: circa un
8 per cento in meno del 1980 rispetto al 1979.
Pur ritenendo che il sistema non abbia abusato per ragioni di "vetrina"
a gonfiare la raccolta nei propri bilanci, è indubbio che la
massa sia ancora nel nostro Paese uno, se non l'unico, dei parametri
fondamentali per valutare un Istituto bancario. Gli altri criteri di
valutazione significativi sono quelli del rapporto con gli impieghi
e della loro qualità, la patrimonializzazione, le garanzie offerte
ai depositanti. Anche nelle Banche più attive, in questo contesto,
c'è stata una flessione della raccolta nell'80 e un decremento
dei depositi nei primi mesi dell'81.
Quali le cause di questo fenomeno di disintermediazione? Come sempre,
le ragioni sono economiche e monetarie.

Innanzitutto, una netta tendenza da parte dei risparmiatori al consumo
e alla ricerca di beni rifugio, che (realmente o fittiziamente) difendano
il frutto del suo lavoro da un'inflazione che finisce per vanificare
il suo potere d'acquisto. Abbiamo assistito, negli ultimi anni in particolare,
a una progressiva disaffezione al risparmio: e la tendenza si è
rivolta spesso a beni che nella loro varietà, e spesso nella
loro stranezza, hanno finito per difendere solo nominalmente il risparmio
dall'inflazione. Si è assistito all'acquisto di tutto, in questo
tentativo; ma la speranza è stata spesso frustrata dalla speculazione
e dalla spregiudicatezza di improvvisati "esperti", che si
sono velocemente arricchiti alle spalle di un risparmiatore in buona
fede, spesso male informato.
Ma ci sono altre ragioni, anche gravi, che hanno inciso sul fenomeno
della disintermediazione: il primo, ha scritto il professor Pierpaolo
Tassi, "è l'insostenibile concorrenza che il Tesoro con
i suoi nuovi mezzi, Bot e Cct, esercita nei confronti della componente
bancaria. La rendita di tali titoli, esenti da ogni imposizione fiscale,
è decisamente superiore a quella che il sistema bancario può
offrire. Il finanziamento della spesa pubblica ha costretto lo Stato
a intervenire direttamente sul mercato del risparmio, offrendo anche
al piccolo risparmiatore titoli che hanno una rendita elevata".
A prima vista, il sistema sembrerebbe produrre effetti positivi, e per
il risparmiatore, di fatto, nel breve li produce; ma ci sono anche riserve
a livello generale, che propongono interrogativi inquietanti.
Innanzitutto, lo Stato può trovarsi in difficoltà all'atto
della retribuzione del capitale ed essere costretto ad emettere e collocare
nuovi titoli anche per la parte interessi. D'altro canto, sostiene Tassi,
"se il beneficio immediato è di sottrarre liquidità
al mercato, nel medio la liquidità è invece in aumento,
anche per l'alta velocità di questa "quasi moneta",
con l'ovvia conclusione che, anziché raffreddare, l'inflazione
può agire in senso contrario".
Se poi, come da qualcuno si sussurra, la Banca d'Italia smettesse di
intervenire alle aste (determinando di fatto i prezzi di aggiudicazione
e le quantità) lasciando invece al libero mercato il prezzo e
di conseguenza la rendita, si può prevedere che il Tesoro, nella
necessità di approvvigionarsi di denaro, potrebbe accedere a
tassi di rendimento ancora più alti, con conseguenze gravi per
l'intera economia.
Altra causa di disintermediazione, le offerte allettanti che tante vecchie
e recenti società finanziarie offrono sul mercato. In questi
ultimi anni abbiamo assistito ad una vera e propria esplosione del fenomeno,
sia per numero che per importanza. Le valutazioni che facciamo sono
ovviamente di ordine generale e non vogliono coinvolgere tutte le finanziarie.
Dobbiamo però sottolineare le scarse garanzie che spesso esse
offrono: innanzitutto, per la mancanza di qualsiasi possibilità
di controllo da parte dell'Organo di Vigilanza; in secondo luogo, per
lo scarso capitale delle società del settore; infine, per le
possibilità di onorare gli impegni che assumono, oggi, in un
auspicato domani che veda calato il tasso d'inflazione. Per la complessità
e per le dimensioni che il fenomeno va assumendo, alla luce delle disposizioni
costituzionali e legislative, riteniamo necessario e urgente un intervento
del legislatore in difesa dei risparmiatori.
Numerose sono le altre cause della disintermediazione: dall'indicizzazione
del risparmio postale alla possibilità diretta di intervento
delle SpA sul mercato del risparmio con emissione di obbligazioni, all'autofinanziamento
delle cooperative, e via dicendo. Ma su una vorremmo fermare la nostra
attenzione, sia per la vastità che per l'importanza che riveste:
l'esplosione della Borsa.
Il risparmiatore ha ritenuto di intervenire direttamente sul mercato
dei titoli azionari, determinando così un processo che ha pochi
precedenti nel nostro Paese e ponendo in evidenza i limiti strutturali
e operativi della Borsa italiana. Basti pensare che ogni anno 60-70
mila miliardi di interessi da risparmio cercano una collocazione. Abbiamo
scientemente accennato ai soli interessi, perché riteniamo impossibile
prendere in considerazione il capitale. Ebbene, anche solo l'enorme
quantità degli interessi non può certamente trovare uno
sbocco nel sistema produttivo accedendo alla Borsa, poiché questa
oggi non è in grado di accogliere il piccolo e il medio risparmiatore,
sia per l'esiguità dei titoli quotati sia - o ancora di più
- per i valori invendibili. E' un problema che gli addetti ai lavori
e il legislatore si sono posto e che dovrà in qualche modo essere
risolto positivamente. L'apporto diretto del risparmio alla Borsa è
uno dei presupposti fondamentali della produttività nel nostro
Paese. E' necessario però che il piccolo e il medio risparmiatore
abbiano, prima di tutto, la possibilità di accedervi e poi che
essi siano tutelati dai fenomeni distorsivi e speculativi già
conosciuti in passato. Questo, a nostro avviso, sarà possibile
solo se il numero dei titoli quotati sarà proporzionale alle
richieste di investimento, e se il risparmiatore potrà esercitare
di fatto una scelta autonoma.
Tornando, per concludere, alla disintermediazione occorre dire che non
può essere un male, se essa riguarda dimensioni ragionevoli e
se lo Stato, per finanziare i suoi deficit, non si indebita fino ai
capelli. Quel che invece non si può approvare è che l'intermediazione
bancaria venga disincentivata con eccessive "indicizzazioni"
o con mezzi che non producono, a livello economico, effetti positivi
e non danno sufficienti garanzie al risparmiatore.
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