§ CRISI E SOCIETA' PARALLELA

Stato liberale e stato assistenziale




R. T.



La conflittualità sociale e politica nell'Occidente si è acutizzata a partire dal 1968. Questa conflittualità, più o meno sopita o domata nei vari Paesi, si è mantenuta elevata in Italia nel corso degli Anni Settanta e ha avuto tre contesti principali in cui si è manifestata: la scuola, la grande città, la fabbrica. I tre contesti separati in cui si è manifestata si sono connessi, hanno interagito, generando una grande esplosione che, rapidamente, si è trasformata in conflittualità politica. Se dapprima la controparte degli Studenti sono stati i professori e le strutture scolastiche, di cui si chiedeva la trasformazione, e se la conflittualità urbana ha avuto come primi interlocutori le amministrazioni locali e se la conflittualità in fabbrica ha avuto come controparte le tecnostrutture e il "padronato", rapidamente questi primi interlocutori o baluardi sono stati travolti e la contestazione si è elevata al massimo livello: il livello, appunto, politico. "Il cielo della politica", come è stato detto. Caratteristica di questa conflittualità è, insomma, l'immediato coinvolgimento dello Stato: lo Stato viene considerato, dalle parti in conflitto, responsabile di ciò che non va e viene chiamato in causa per dirimere e per comporre. Il risultato e che lo Stato viene sempre più coinvolto nella dinamica sociale e che il conflitto si innalza immediatamente al livello politico.

Dallo Stato liberale allo Stato assistenziale

Se si comparano le dinamiche descritte con il ruolo dello Stato nelle società liberali, gli scostamenti appaiono profondi. Infatti, lo Stato liberale trionfa sullo Stato delle monarchie assolute e sullo Stato mercantilista, sullo Stato che dispoticamente protegge, nel nome del "laissez faire", ossia conferendo il massimo di libertà di iniziativa agli individui e alle imprese e, di converso, riducendo al minimo l'azione statuale. Il ruolo dello Stato è quello di garante che la libertà di ciascuno non riduca la libertà di tutti gli altri.
Da questo comportamento dello Stato è derivato uno straordinario dinamismo economico e sociale, ma si sono determinati anche colossali processi cumulativi: chi più ha e più è capace, tende ad avere sempre di più, in un circolo che si avvita crescendo, per cui si producono profonde divaricazioni sociali che finiscono con il generare conflitti fra le parti sociali. Il motore di questo dinamismo è l'economia che si fonda sull'"homo faber", liberato dai vincoli della famiglia allargata e dalla comunità di vicinato, e liberato anche dagli usi e costumi tradizionali che imponevano il solidarismo.
Ma l'economia, resa così dinamica, rivela andamenti ciclici: a fasi espansive succedono fasi depressive che generano disoccupazione di tipo congiunturale. Marx e i marxisti scrutano le fasi calanti del cielo economico come segni della crisi catastrofica nella quale sarebbe dovuto finire il mondo del capitalismo. E' noto come la più forte di queste crisi sia stata quella del 1929, crisi dalla quale si è usciti grazie a un più profondo e incisivo intervento dello Stato in economia, vale a dire attraverso l'abbandono di uno dei caratteri dello Stato liberale. E' noto, altresì, come il "new deal" rooseveltiano si sia basato su una politica di intervento dello Stato in agricoltura e su una politica di opere pubbliche, anche di grandi progetti integrati come quello della Tennessee Valley, e come la Germania hitleriana e l'Italia del ventennio siano venute fuori dalla crisi cori politiche di colossali opere pubbliche e con la politica del riarmo.
La spiegazione teorica di questo trapasso, di questa trasformazione dello Stato liberale e del successo di queste politiche la fornisce J. Maynard Keynes. Nei momenti di domanda calante, gli imprenditori tendono a mantenere i capitali nella forma monetaria, non investono più, facendo così ulteriormente calare la domanda e creando nuova disoccupazione: in questo modo si avvita la crisi. Per cui, quando la domanda privata cala, occorre che lo Stato dilati la domanda pubblica, mantenendo elevata la domanda globale. Viene così definito il ruolo dello Stato come operatore che interviene in economia per scongiurare il prodursi della fase calante del cielo. In altre parole: è il ruolo anticiclico dello Stato.
Inoltre, a porre sotto gli occhi di molti l'importanza dell'intervento dello Stato in economia, stavano le due guerre mondiali.

La politica anticiclica

Infatti, se la prima guerra mondiale aveva già mostrato l'importanza del ruolo dello Stato nell'economia bellica, questo ruolo si dispiega più ampiamente e più compiutamente nel secondo conflitto mondiale. Una domanda fondamentale sorge da queste realtà tragiche: come mai durante una guerra, che distrugge ricchezza, vi è il pieno impiego dei fattori produttivi e le tecnologie, nel grande sforzo, fanno un balzo in avanti? Ci si chiede, conseguentemente, perché una simile mobilitazione delle energie sotto il controllo dello Stato non debba in qualche modo essere mantenuta per riparare i guasti che la guerra ha prodotto nella società.
La politica anticiclica dello Stato di tipo keynesiano si dilata qui nella politica per la ricostruzione post-bellica. Ma una seconda dilatazione si produce dopo la ricostruzione, ed è la dilatazione del ruolo dello Stato come operatore di sviluppo. Infatti, le analisi circa lo sviluppo economico secondo i meccanismi di mercato mettono in evidenza come questo tenda a creare due tipi di squilibrio. Il primo tipo è lo "squilibrio territoriale": le aree che, per ragioni diverse, per prime operano il decollo economico, innescano dei processi cumulativi di sviluppo, per via delle economie esterne e di agglomerazione che vi si formano; perciò verso queste aree si dirigono risorse umane e risorse economiche, mentre, per converso, le aree nelle quali non si sono accesi poli di sviluppo restano inchiodate nell'arretratezza e perdono risorse in favore delle aree sviluppate.
Il secondo tipo di squilibrio è quello delineato dal Galbraith: è lo squilibrio tra beni individuali e beni collettivi. li meccanismo di mercato ha potenti stimoli per creare "opulenza" di beni individuali, ma non ha stimoli per creare beni collettivi, per cui la società che si viene a creare è una società ricca di beni privati e povera di beni collettivi, con la conseguenza che, essendo molti dei beni collettivi condizione per lo sviluppo del sistema economico, (si pensi alla funzione economica delle infrastrutture fisiche e sociali), si tende a produrre una strozzatura che blocca lo sviluppo economico stesso. Conseguentemente a questa analisi, a questi riscontri si vengono a delineare dei nuovi campi per l'intervento dello Stato: lo Stato deve assicurare uno sviluppo territorialmente equilibrato e deve assicurare un equilibrio tra la dinamica dei beni privati e la dinamica dei beni collettivi, in modo che la carenza di questi ultimi non costituisca una strozzatura allo sviluppo economico del sistema complessivo.
Per far questo, lo Stato può cercare di operare facendo leva sui meccanismi di mercato, creando le condizioni di convenienza perché l'iniziativa privata abbia interesse ad agire in modo da equilibrare il sistema. E' lungo questa linea che si è mossa tutta la politica degli incentivi, dalla fiscalizzazione ai prestiti a tassi agevolati, fino al conferimento di capitali a fondo perduto per le imprese che si dislocano in aree arretrate o non favorite (è il classico caso del Mezzogiorno d'Italia, del Borinage belga, dello Schleswig-Holstein della Repubblica Federale Tedesca, del Midi francese, di alcune fasce settentrionali del Regno Unito e via di seguito). Lo Stato poi, anche da questa consapevolezza è indotto a provvedere al finanziamento delle infrastrutture, sempre più complesse, che lo sviluppo della società richiede (progetti speciali, progetti integrati, superprogetti, ecc.).
Ma questa linea, che tende a forzare i meccanismi di mercato inserendosi tuttavia negli stessi, viene travalicata, proprio come nel caso italiano, quando si osserva che la semplice azione attraverso gli incentivi non è sufficiente a far decollare le aree sottosviluppate (o come si dice: in via di sviluppo): lo Stato, allora, per assicurare uno sviluppo stabile ed equilibrato, si fa esso stesso imprenditore. Insomma, se il mercato, anche se sollecitato, si mostra incapace di creare le imprese di base e di creare il tessuto industriale nelle sue aree arretrate, questo tessuto industriale lo deve creare lo Stato. Il sistema economico diventa in questo modo "di tipo misto", fatto di imprese private e di imprese pubbliche.
Se lo Stato deve operare in forma anticiclica e deve operare per equilibrare il sistema, come non riconoscere più pienamente la sua funzione quale regolatore supremo della dinamica economica, nel senso di assicurare elevati e stabili saggi di sviluppo al sistema e quindi il pieno ed efficiente impiego dei fattori produttivi, in modo particolare della forza-lavoro?
Quando, in sostanza, l'interventismo dello Stato in economia si sia così determinato, il limite del suo operare è difficile determinarlo. Fra l'altro, se lo Stato è diventato imprenditore, come non farlo diventare anche salvatore di imprese, in modo da scongiurare disoccupazione?
Emblematici, a questo riguardo, sono nel nostro Paese i salvataggi della Motta e dell'Alemagna, che sono costati somme enormi allo Stato e che, ora, a costi elevatissimi, producono panettoni; emblematica è tutta la catena dei salvataggi di imprese decotte, che hanno portato alla costituzione di quel grande ospedale di imprese (sul quale non si fa che continuare a discutere, anche in termini di scontro politico) che è la Gepi.
Ma lo Stato imprenditore rivela altre profonde distorsioni. La figura dell'imprenditore di fatto si dissolve e si converte in quella del "managers". Ora, se l'emergere del "manager" SUI capitano d'industria del primo capitalismo può essere salutato come un avanzamento, uno sviluppo, in quanto il manager sostituisce al "fiuto" imprenditoriale la scienza delle "business schools", è dubbio che il manager non scada nel burocratismo. ossia nella incapacità di scegliere nella pratica di "coprirsi le spalle", quando non deve rendere conto del proprio operare se non all'entità astratta dello Stato che è fatto di una trama di potere composita, per cui l'imprenditorialità (lei manager pubblico più sicuramente si può esercitare sul versante politico che non nel campo delle scelte tecnico-produttive.
Ma anche i lavoratori e le diverse organizzazioni sindacali si trovano ad operare con maggiore facilità, se la controparte è un'impresa dello Stato anziché un'azienda di un imprenditore privato. Sullo Stato, infatti, si può premere per farlo cedere in molti modi, attraverso l'intricata, complessa trama delle forze e delle relazioni politiche. La riprova di tutto questo è fornita dalla resistenza che i lavoratori e le organizzazioni sindacali oppongono alla cessione a privati, pur con tutte le garanzie in fatto di occupazione delle maestranze impiegate, di imprese che erano, o erano diventate, statali. La resistenza può essere mascherata nei suoi motivi reali con l'argomentazione che la cessione ai privati riduce il grado di elementi di "socialismo" nel sistema produttivo.
Lo Stato imprenditore è l'ultimo approdo dello Stato nel campo dell'economia; ma, parallelamente, l'estensione dei compiti dello Stato si è enormemente dilatata nel settore assistenziale.
Allargando le funzioni in questo settore complesso, costituito dalla difesa dell'individuo contro le insorgenze negative, quali la malattia, la disoccupazione, la vecchiaia, e per la promozione del suo sviluppo intellettuale, lo Stato si è mosso su tre linee di pensiero: lo svolgimento del pensiero liberale, il socialismo, il cristianesimo sociale.
Sostanzialmente, il liberalismo vede il formarsi dello Stato assistenziale come condizione per avere una manodopera sana e culturalmente all'altezza del progressivo complessificarsi del sistema economi co-produttivo. Il socialismo e il cristianesimo sociale tendono a vedere le provvidenze dello Stato verso il cittadino come un diritto inalienabile di quest'ultimo.
In sostanza, tutti e tre i filoni ideologico-culturali dell'Occidente non frappongono ostacoli, anzi spingono per l'ampliarsi dei campi di attività sociali dello Stato. Con una differenza: l'idea liberale poggia su un equilibrio entrate-uscite, anche per la realizzazione di beni civili e di servizi sociali, con un - almeno teorico -- pareggio del bilancio dello Stato; mentre l'idea socialista e quella cristiano-sociale accollano allo Stato l'intero onere di spesa con forzature delle uscite, e dunque con la creazione anche di fortissimi deficit, in nome del puro diritto dell'uomo. Si potrebbe dire, anche se il concetto è impreciso, che la prima idea guarda al cittadino, la seconda e la terza guardano all'uomo. Il conflitto ideologico può essere sintetizzato in questi due "poli", che comunque non si escludono vicendevolmente.
La storia dello Stato occidentale nell'ultimo mezzo secolo è dunque storia di estensione dei poteri d'intervento dello Stato nell'economia e nella società; è storia del passaggio dallo Stato liberale allo Stato che provvede, allo Stato assistenziale.

La crisi dello Stato assistenziale

Lo Stato assistenziale ha certamente contribuito ad eliminare le punte più acute della miseria e a rendere più sicura, o quantomeno, meno incerta la condizione materiale dei cittadini. Ma è certamente lecito chiedersi a quale prezzo tutto ciò sia avvenuto. Sul piano economico, l'interventismo statale, fino alla forma dello Stato che diventa imprenditore per il salvataggio delle imprese e dello Stato che provvede ai cittadini, ha rappresentato un drenaggio enorme di risorse economiche e la costituzione di colossali impalcature burocratiche, spinte, anche dal loro crescere e dalle facili interferenze del clientelismo politico, sempre più verso la rigidità - appunto - burocratica, con tutte le conseguenti inefficienze operative.
L'immenso drenaggio di risorse è diventato un costo incredibilmente oneroso per il sistema produttivo; costo al quale il sistema avrebbe dovuto far fronte con supplementi appropriati di produttività da non destinarsi a remunerare più ampiamente i fattori produttivi, ma a pagare i servizi resi dallo Stato assistenziale.
Ma l'elemento della produttività, per lo meno nella misura che era diventata necessaria, diventava difficile da realizzare in una situazione di diffusa tutela e garanzia, nel senso che la sfida della vita, a cui far fronte con energia e con intelligenza, veniva e viene come diaframmata dal garantismo dello Stato e del sistema in generale: per cui la sfida non si propone più al cittadino (all'intelligenza, all'iniziativa del singolo), né al lavoratore il quale, dunque, tende a collocarsi in una "culla protettiva".

Il ruolo della programmazione economica

Per alcuni versi, lo Stato assistenziale tende a riproporre il protezionismo, di cui veniva a godere l'individuo nella società tradizionale da parte della famiglia allargata e da parte della comunità di vicinato; protezionismo, tuttavia, che l'individuo pagava in termini di riduzione di spinta all'azione innovativa. Si deve dunque trarre da queste osservazioni che il burocratismo e il protezionismo dello Stato assistenziale non solo hanno ridotto la dinamica economica perché bruciano risorge, ma hanno anche ridotto gli stimoli e le motivazioni all'agire individuale. Probabilmente, una delle radici del fenomeno sempre più diffuso del secondo lavoro e della nascita della piccola e della piccolissima imprenditorialità è proprio da ricercarsi in questa esigenza, conculcata dal meccanismo generale della società e dello Stato, che l'individuo sente di esprimersi più liberamente sulla scena economica, al di fuori del garantismo che, se rende sicuro il cammino, tuttavia agisce (anche culturalmente) come un freno, come un blocco al l'intraprendenza individuale.
Pensare di tornare allo Stato liberale tout court, smantellando lo Stato assistenziale, è certamente una pura utopia. Non utopico, ma necessario, è tendere a liberare lo Stato assistenziale dalle sue degradazioni, nel senso del garantismo sociale esasperato, nel senso del burocratismo dei suoi apparati operativi; e, sul piano economico, non è utopistico restringere l'azione dello Stato a fornire quei beni collettivi di cui parlava Galbraith e che sono le infrastrutture fisiche e sociali necessarie per lo sviluppo dell'economia, restituendo invece al mercato la produzione dei panettoni "et similia".
La crisi economica e sociale è anche crisi dello Stato assistenziale, per il quale si impone un drastico ridimensionamento che restituisca respiro e forza alla società civile, soffocata dall'abbraccio troppo stretto dello Stato. La programmazione economica, tentata in molti Paesi dell'Occidente a partire dagli anni Sessanta, può essere anche vista come tentativo di far coesistere razionalmente l'economia di mercato con l'interventismo economico dello Stato. Tra le numerose ragioni del fallimento di questi tentativi vanno indicate, da un lato, l'opposizione dei difensori dell'economia di mercato a tutti i costi, e, dall'altro, l'opposizione delle forze che vedevano nella programmazione, in fondo, una limitazione alla dilatazione dell'interventismo dello Stato. Un'altra ragione alla quale si deve far cenno è anche l'insufficienza degli strumenti culturali, secondo cui il problema della programmazione è stato di volta in volta affrontato.
Tuttavia, consapevoli di ciò, riteniamo che la degenerazione dello Stato assistenziale, che oggi viviamo, impone una ripresa sotto cieli nuovi di quelle politiche sostanzialmente abbandonate nell'ultimo decennio: economie miste, con tagli - anche dolorosi - di quanto è cronicamente e irrimediabilmente malato; con incentivi a imprese sane; con lo sviluppo moderno dell'agricoltura nelle aree meridionali (compresa la zootecnia e le industrie a valle del settore primario); con l'equilibrio delle due Italie; con lo sviluppo ordinato dei traffici e dei commerci verso l'Europa comunitaria e verso le aree del Mediterraneo (soprattutto verso quelle del petrolio, che sono in grado di condizionarci in qualsiasi momento); con la capacità di reggere all'urto della concorrenza dei nuovi Paesi entrati o che si accingono ad entrare nella Comunità Economica Europea. Il campo del lavoro è davvero infinito, ma il modo migliore per affrontarlo è incominciare non da qualche parte, ma dalla definizione del tipo di economia che si vuole sviluppare e con le conseguenti iniziative da adottare. Altrimenti, si continuerà a compiere una inumana fatica di Sisifo.


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