Sull'emigrante un antico silenzio




Antonio Ghirelli



La nostra giornata è piena di curiose coincidenze. Rientro appena da Napoli, dove ho partecipato a un dibattito sull'emigrazione intellettuale, quando mi telefona un giovane collega che vuole intervistarmi per conto di un grande settimanale. Sa eh anni fa scrissi, con Achille Millo, uno spettacolo su Raffaele Viviani e mi chiede qualche notizia a proposito di un Film che Carlo Lizzani ha in animo di girare proprio partendo da un atto unico dello scrittore-attore partenopeo: "Napoli: eh parte e chi resta". Non basta. Rientro a casa dopo l'intervista con la collega, e trovo un bellissimo libro di Mondadori: "Partono i bastimenti", ovvero: "l'epoca del l'emigrazione italiana nel mondo, storie ed immagini".
In realtà, questo dell'emigrazione è un fantasma che mi porto dietro da sempre e non soltanto perché appartengo anch'io alla sterminata categoria dei meridionali che sono andati a cercare fortuna a nord del Garigliano, come fece del resto mio padre, che si spinse fino a Parigi. La condizione di chi parte mi è parsa sempre più angosciosa e triste di chi resta nel suo ambiente naturale, e mi sono sempre chiesto, come fa Leonardo Sciascia nel volume che ho appena citato, perché, "di un dramma tanto immane, specialmente straripante nelle regioni meridionali, in piena stagione realistica, e specialmente nel Meridione, la letteratura italiana abbia dato così scarse e scarne rappresentazioni". Come insegna la psicanalisi, un processo tanto vasto di rimozione è sempre una spia di cattiva coscienza, individuale e collettiva, il segno di un grande rimorso nazionale. Se pensiamo che tra il 1900 e il 1914, trascurando l'emigrazione dei vent'anni precedenti, ben nove milioni di italiani cercarono, e spesso trovarono, lavoro e serenità in Paesi stranieri; se riflettiamo al peso che le nostre collettività hanno esercitato sullo sviluppo economico delle due Americhe, dell'Australia e di molti Paesi europei, il silenzio di Verga, di Pirandello e di tanti altri nostri scrittori, su questa biblica migrazione di contadini e di operai, ci appare quasi scandaloso. Ad assolverci non basta qualche bella canzone, qualche romanzo o racconto di second'ordine, qualche film fiacco e conformista come "Il passaporto rosso" dell'era fascista. Il regime, e questa è una testimonianza di verità che bisogna rendergli senza esitazione, avvertì la serietà del problema assai più acutamente che non l'Italia liberale prima della prima guerra mondiale o della nostra Italia democratica dopo la seconda. Lo visse, naturalmente, nell'ottica della sua ideologia nazionalistica, retorica, aggressiva; ma per lo meno non si permise di ignorarlo e dedicò risorse finanziarie, diplomatiche, culturali al fine di restituire alle comunità degli emigrati la dignità delle proprie origini. Noi non abbiamo fatto neppure questo, lesinando i mezzi alle rappresentanze consolari e agli istituti di cultura, negando il diritto di voto per corrispondenza ai cittadini espatriati, lasciando ad alcuni (e pochissimi) partiti, in genere il Pci e il Msi, il compito di far propaganda tra i lavoratori all'estero. Operando, anzi mancando di operare in tal modo, abbiamo contribuito quanto meno a quello "smemorarsi del Paese, della famiglia" in cui tanti emigrati cadono e di cui tanto parla ancora Sciascia in "Partono i bastimenti". Un libro che contiene un'originalissima "storia minore" del l'emigrazione, raccontata da Paolo Cresci e Luciano Guidobaldi "attraverso fotografie non destinate alla propaganda ma ai parenti, attraverso lettere e cartoline, biglietti d'imbarco, diari, contratti di lavoro e altri documenti, che fanno rivivere dal vero quella che non fu solo tragedia o solo commedia, ma un complesso ed autentico fatto esistenziale".
Banditi la retorica della destra e il populismo della sinistra, si lascia la parola ai protagonisti: sunt lacrimae rerum.
Fino alla prima guerra mondiale, e a partire pressappoco dal 1880, furono quasi esclusivamente i "cafoni", cioè i contadini del Sud e del Veneto, della Toscana e del Piemonte, a varcare gli oceani in condizioni che le fotografie ingiallite dell'epoca bastano a documentare in maniera lacerante. Vecchie carrette solcavano il mare per intere settimane, esponendo i miseri viaggiatori a tutte le intemperie, lasciandoli senza cabine, senza servizi, con un rancio innominabile che gli infelici arricchivano col poco cacio e salame portato da casa. Per decenni, ad esempio, il traffico degli emigranti fu "l'unico commercio" di Napoli e l'atto unico di Viviani attesta di quale immonda speculazione quel commercio fosse intessuto.
Al momento del distacco, mentre i parenti singhiozzavano e sventolavano fazzoletti dal molo, un barcone offriva agli emigranti "l'ultima pizza, l'ultimo babà", due simboli gastronomici della patria perduta che avrebbero poi suggerito ai più intraprendenti l'occasione per tentare di arricchirsi in terra straniera, se è vero che pizzerie, ristoranti e pasticcerie furono, insieme con le botteghe di barbiere o di sarto e con le aziende vinicole, i caseifici, le piantagioni di frutta, il campo d'azione più favorevole all'iniziativa degli italiani che riuscivano a sottrarsi ai lavori pesanti in miniera, in fabbrica, nei cantieri edili o ferroviari.
"Siamo fissi come sardelle", ha lasciato scritto uno di quei viaggiatori, "il vivere è pessimo, che minaccia in breve tempo la morte". All'arrivo, salvo i pochi fortunati che sono attesi da parenti o amici, il povero "cafone" analfabeta piomba in un mondo straniero, ostile, incomprensibile, preda talora di organizzatori senza scrupoli o addirittura di "boss" mafiosi, sbigottito da condizioni climatiche talora proibitive: "Rivati a new york", racconta Samuele Turri giunto in America nel 1912, "una indimenticabile mattina, unfreddo insopportabile, temperatura 40 sotto zero, nellentrata inporto, il mare gelato 2 piedi, il piroscafo costretto afermarsi finche non rivano i rompe gelo". E' il destino che attende l'emigrante, negli Stati Uniti o in Canada, in Sud America o in Australia, almeno inizialmente, è quello di una fatica inumana, spossante, senza tregua: "Abbiamo lavorato e si lavorerà ancora e ci siamo mezzi arrangiati", scriverà Maria Lucchesi alla sorella, "ma l'anima, chi la potesse vedere, io a volte penso che chisa se sarà sparita dal nostro corpo".
I più forti, i più sani, i più tenaci, quelli che si "arrangiano" a metà o per intero, sopravviveranno al trauma crudele, miglioreranno la loro condizione, si costruiranno una famiglia e una fortuna, s'integreranno nel Paese straniero fino a diventarne cittadini. "Solo che mi disturba essere lontana dalla famiglia", confessa Pierina Luti, ben sistemata in Argentina, "ché se vi avessi qua, all'Italia non ci penserei nemmeno". Ma questo, appunto, almeno ai miei occhi, questo "smemorarsi" del Paese, se non della famiglia, è l'aspetto più sconfortante di un fenomeno che strappa gli uomini alle loro radici, condannandoli a una "astrazione alienata", come sostiene Carlo Sgorlon in una bellissima pagina, forse la più bella e tesa di tutto il volume curato da Cresci e Guidobaldi. "La vita degli emigranti non è che un'astrazione alienata", scrive appunto il friulano Sgorlon, a nome delle migliaia di suoi conterranei espatriati in Germania, negli Stati Uniti, in Brasile, in Canada, in Australia: "La terra che li ospita è per loro irreale, perché non gli appartiene, e spesso non riescono mai ad affiatarsi con essa. Ma il Paese della loro nostalgia è ugualmente irreale, perché lontano, in evoluzione, al punto che essi, tornandovi, non lo riconoscono più".
E' un dramma, sostiene ancora Sgorlon, che aspetta ancora il suo Solzenicyn, un'epopea che nessun Omero ha ancora cantato. Si, è vero, oggi la terza generazione degli italo-americani, almeno negli Stati Uniti, comincia ad avvertire l'orgoglio della propria origine, e si vanta, cerca con impegno le proprie "radici". I Coppola, gli Scorzese, i De Niro, come ieri i La Guardia e i Di Donato, tornano a ricordarsi di avere sangue nostro nelle vene. Ma noi, che facciamo per aiutarli a non vergognarsi di essere discendenti dei "dagoes", dei "ginneys", dei "wops", dei "greaseballs", insomma degli emigranti che i loro connazionali di oggi discriminarono così a lungo e così spietatamente?

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