§ IL CORSIVO

Fotogrammi del passato




Donato Moro



Leggere in una Cronaca d'autore noto o ignoto, la quale ci riporti indietro nei secoli, può essere sempre una cosa gradevole, anche se le sequenze siano state ridotte all'osso. Il montaggio è stato già operato dall'autore con la propria visione del mondo, le proprie credenze, i propri intenti: celebrativi, autobiografici, di difesa o di accusa, di semplice registrazione dei fatti più notevoli (a suo avviso) o di interpretazione storica, metastorica o allegorica degli avvenimenti. Più impegnativo - non so se più gradevole, ma certo più suggestivo - può essere il ritrovare un mucchio di spezzoni o di singole fotografie di pellicole diverse, che non si riuscirà mai a ricostruire dal principio alla fine: uomini e donne di diverso rango e ceto sociale, pescatori e soldati, abati ed eccellentissimi prelati, artigiani e mercanti, schiavi affrancati e mammane, magnifici cittadini e comandanti di guarnigione, fissati in un momento solenne della loro vita o nel corso di una cerimonia religiosa, dinanzi ad un fonte battesimale o all'altare per un matrimonio o giacenti nella quiete della morte per l'estrema benedizione, nella navata centrale della chiesa. Persone e personaggi di cui s'ignorava che fossero mai esistiti e che per un momento riaffiorano dal nero fiume del passato; e persone e personaggi già noti, o per una carica ricoperta o per uno scritto lasciato, e che qui, d'un tratto, riappaiono in una foto di gruppo, in un gesto o in un ruolo che lo storico, nell'economia e tirannia delle sue carte, non poté fissare: padrino al fonte, testimone o sposo, pianto dai suoi parenti o estimatore il giorno che chiusegli occhi.
Colui che riscopre queste minute immagini del passato, se ha cuore e fantasia, ed anche acribia, cerca da brevi indizi - da un aggettivo, da frequenze di riapparizione, da certi appellativi, dagli stessi nomi - di risalire alle persone, alla loro condizione sociale, alla loro attività civile, al loro carattere e perfino all'impegno con cui assolsero i propri compiti. Ecco un abate, fra i tanti, che appare assiduamente in chiesa a compiere il proprio ufficio di battezzatore. Quell'altro, invece, che ricorre assai di rado, dovette dedicarsi assai poco ai propri doveri ministeriali. E quell'altro che ricorre solo per un paio di anni e non più? Era già anziano o la morte lo colse in età giovanile? O andò altrove?
Ecco un nome di donna che ritorna di frequente, sempre lo stesso, accanto a quello di padrini diversi, nella cerimonia del battesimo ... Deve essere stata l'ostetrica, la mammana come ancora si dice da noi.
Ed ecco un uomo che riappare ogni tanto, sempre lui, a far da padrino di battesimo; non ha qualifiche di sorta; dovette essere qualcuno che frequentava la chiesa, forse un sagrestano o un famiglio di abate, che si prestava ad assumere quel ruolo per sposi di umile condizione, i quali non erano riusciti a procurarsi un padrino di riguardo. Dunque, quando riappare questo Tizio, i genitori (lei battezzandi devono essere fra i più disgraziati della città.
C'è, invece, un notaio, anche lui presente spesso al fonte battesimale come padrino. Qui siamo al caso opposto: un padrino notaio dà prestigio, e pertanto i genitori che ricevono tale onore devono essere di buon ceto o, almeno, di discrete condizioni sociali, rispettabili artigiani o proprietari.
E perché a questo bambino viene dato il nome inusitato di Scipione e a quella bambina si dà il nome, al fonte, di Cassandra? E già, il primo è figlio di schiavi affrancati, l'altra è una schiava, ora "creata" di un ragguardevole casato.
Così, a poco a poco, da aforistiche registrazioni si risale a delineare un tessuto sociale e si immaginano volti e voci per le vie, saluti e sofferenze, gioie e fatiche, case miserabili e palazzi ricchi di averi e di servitù, un centro salentino che risorge in fotogrammi di quattro secoli fa. Il lettore avrà capito che qui si fa riferimento a quelle minute registrazioni, per un certo verso burocratiche, che già in uso presso alcune comunità ecclesiali, la Chiesa di Roma rese obbligatorie per tutte le diocesi e le parrocchie con le norme del Concilio tridentino (1545-63): sono i "libri" dei battezzati, dei matrimoni e dei defunti, ora presenti in tutti gli uffici parrocchiali, ma in passato divenuti consuetudinari non contemporaneamente dovunque né, specie agli inizi, sistematicamente aggiornati e curati.
Ad Otranto, ad es. (le carte cui si allude sono appunto quelle otrantine), sede dell'Arcivescovo Pietro Antonio De Capua, che l'Ughelli ci attesta presente con zelo e dottrina ai lavori del Concilio di Trento, non siamo in grado di dire se i summenzionati "libri" furono impiantati subito dopo il 1563 o alcuni anni più tardi. Attualmente, nell'Archivio Capitolare di quella Chiesa Metropolitana, si può consultare un grosso volume cartonato, sul cui dorso, in alto, si legge, assai male e non completamente, Liber baptizatorurn ab anno 1570 usque ad ... Non si può dire con certezza a quale anno terminale lo scriba possa essersi riferito, perché la seconda parte di questo volume, oltremodo lacunoso e frammentario, è costituita da due serie di fascicoli, ognuna delle quali ha registrazioni riportate, non più cronologicamente, ma per ordine alfabetico, a guisa di rubriche, a seconda dell'iniziale del nome del battezzato (A, B, C, ecc.); poiché la seconda serie, in relazione alle lettere dell'alfabeto degli ultimi battezzati registrati, per la lettera S chiude al marzo 1660, per la V al novembre 1662, per la P al gennaio 1663, dovrebbe ritenersi che sul dorso si sarebbe dovuto leggere 1663. Infatti un successivo volume di quell'Archivio Capitolare parte da tale anno.
Il disordine e la frammentarietà delle registrazioni, quali emergono da questo primo volume 1570-1663, se in parte sono attribuibili all'"incuria dei Parroci", malanno di cui si lamenta un curiale supervisore in una nota apposta al f 49v, hanno però la loro causa preminente nel fatto che, probabilmente, nei primi decenni di questa nuova incombenza ricaduta su parroci ed abati, le annotazioni venivano redatte su quinternioni o quaternioni o fascicoli con vario numero di carte. Tali fascicoli solo assai più tardi furono raccolti in volume' è riprova il fatto che presso la Curia Arcivescovile di Otranto esiste una seconda raccolta di carte indicate come "Libro di Battezzati e Libro di Matrimoni della Parrocchia di Otranto"; che tali carte, in fascicoli separati, riportano battesimi e matrimoni di un arco di tempo che va dal 1588 al 1633 e che tali fascicoli colmerebbero alcune delle lacune che si riscontrano nel Liber baptizatorurn 1570-1633. Altra riprova è poi che questo Liber, nella parte terminale, accoglie anche una rubrica dal titolo Notatio defunctorum, che va dal 1652 al 1664. E questo, per quanto attiene alle registrazioni dei primi quasi cento anni; certo le più interessanti.
Ma qui non si mira a dare una compiuta descrizione di tali documenti manoscritti, anche se il farne conoscere l'esistenza e il fornire qualche criterio di massima per la loro lettura possa senz'altro giovare a colui che sa il valore di certi particolari. a prima vista insignificanti, ai fini di ricostruzioni storiche estremamente attuali. Compiere su quelle carte (come del resto già avviene su altre più note e sfruttate) operazioni mentali e inchieste del tipo da me innanzi indicato o similari, oltre tutto, significa poter rilevare fenomeni demografici e sociali, nonché individuare determinate presenze e determinati ruoli e funzioni che connotano la società otrantina tra gli ultimi decenni del '500 e la prima metà del '600; fenomeni, presenze, ruoli e funzioni che agevolmente (ma anche prudentemente, s'intende, e previ gli opportuni sondaggi di verifica) possono ritenersi estensibili ad altre terre salentine ed anche ci più vaste aree territoriali del nostro Meridione.
Notare, ad es., la rilevanza numerica di sacerdoti e religiosi nel contesto cittadino; annotare il crescere o il diminuire negli anni di matrimoni, battesimi e morti; individuare battesimi e matrimoni di maggiorenti della città o di ufficiali e capitani del presidio spagnolo, per arguirne consistenza e prestigio (cosa che, per giunta, si desume anche dal riapparire di questi più frequentemente come testimoni o padrini al fonte battesimale o in cerimonie nuziali); registrare la frequenza di nascite da padre ignoto (fenomeno per il quale non c'è da dubitare che, oltre a mercanti forestieri, abbiano anche avuto delle responsabilità i soldati spagnoli che, per dirla col Manzoni, "insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese"); rilevare tutto ciò e tanti altri dati e suggerimenti da quelle brevi note (non si dice, peraltro, cosa inedita), significa, in effetti, non solo superare la vecchia concezione storiografica fondata sulle vicende politico-diplomatiche e belliche dei popoli e degli stati, ma anche far rivivere quella società che agisce e patisce sempre in ogni evento e momento storico.
Chi legga quelle carte, ad es., non può non restare stupito di fronte alla consistenza del fenomeno della schiavitù di uomini o donne di origine balcanica, turca o africana, che entravano nelle case di patrizi o cittadini abbienti o ancora, ma più raramente di uomini di chiesa otrantini, per essere prima o poi battezzati. C'è da credere che generalmente la condizione di costoro divenisse presto quella di domestici e familiari dei casati presso cui entravano, sicché la loro sorte non doveva essere troppo penosa o avvilente ed anzi poteva in qualche caso giovarsi del prestigio del casato. Certo a qualche giovane schiava, pur battezzata, poteva capitare il caso di dare alla luce un figlio il cui padre risultava ignoto. Ma né a me né al lettore è lecito pensar male dei padroni! Va ancora detto che secchezza e ripetitività delle formule rituali di registrazioni, in quelle carte, anche se di rado, cedono il passo ad annotazioni più ampie, nelle quali l'abate che scrisse volle tramandare un avvenimento di particolare rilevanza, o per aver esso suscitato scandalo, o per la sua eccezionalità o, ancora, per trarne un insegnamento. Ciò si riscontra, in particolare nelle rubriche che riguardano i defunti. In questi casi la cronaca è ampia, mutandosi in vera e propria narrazione, allusiva e vivace. Un lembo del passato, che sembrava perduto per sempre, ritorna alla coscienza e all'immaginazione del lettore. Sempre nel Liber citato, al f. 86r, sotto la lettera N, si annota una vicenda che nel 1663 dovette creare grave turbamento nell'ambiente più ragguardevole di Otranto: Un certo Nicolò Moresco, che doveva fungere da padrino in un duello, venne ucciso per mano dello sfidante, Giuseppe Mongià. Vengono annotati, in un latino non sempre perspicuo, tutti i particolari per i quali si giunse a quella sciagurata uccisione.
Al f. 83r, sotto la lettera J, alla data del 24 gennaio 1653, una lunga nota, in un latino morfosintatticamente inquinato, ricorda la pietosa fine di Girolamo de Giovanne da Venezia. Costui, comandante di nave, venuto da Venezia, aveva già fatto pieno carico d'olio nel porto di Otranto, quando, con i suoi marinai, si accorse che altra nave, uscita dal porto, era in grande pericolo per tempesta diventi. Con estrema generosità questo capitano con i suoi marinai scese in un battello per portare aiuto a coloro che erano in procinto di affondare. Ma il mare in tempesta travolse il battello, sicché i marinai di esso a stento, nuotando, ritornarono a riva, all'infuori del de Giovanne che, invece, in pessime condizioni, fu buttato sull'arenile dai flutti. Dopo diciassette giorni morì e fu sepolto a spese del Capitolo di Otranto nella Chiesa di S. Francesco dell'ordine dei Frati Mendicanti.
Ecco la parte finale della nota: "Sed mare valde cum tempestate surgens fluctibus, nautas de scapha in undas immergit, unde inter fluctus volventes, nando vix se salvare poterant, praeter quam praedictus Hieronymus ab undis in arenam fuit eversus, et denique posi decem et septem dies muertus fuit, et in ecclesia Divi Francisci de Ordine Mendicantium sepultus cum interventu Capituli elemosinaliter huius civitatis". Quel "muertus fuit", tra l'altro, fa pensare che il sacerdote il quale scrive probabilmente dovette essere di origine e lingua spagnola.
E chiudo queste mie pagine riportando una registrazione alla data del 9 maggio 1663 (f. 85v, sotto la lettera J). La nitidezza dell'esposizione in latino e la semplicità di chi scrive, il quale vede la mano di Dio in una morte miserabile, potrebbe trasferire il tutto in un'atmosfera mitica, se non ci bloccasse il pensiero che qui si parla di un essere umano, di un infelice, forse abbrutito dalla povertà e dagli stenti. A questo non meglio noto abitante di Palmariggi, vissuto a lungo ad Otranto equi morto, sia compenso questa pagina per la quale egli, il più umile dei vissuti in Otranto, oggi torna alla coscienza e alla pietà del lettore, meritevole di considerazione accanto a prelati, scrittori e condottieri di riguardo.
"Joseph Mairina de terra Palmaricij, diu Hidrunti commorans, saepiusque a Parrochis et a Sacerdotibus ad Sacramenta percipienda et ad rem sacram audiendam monitus, numquam in sua vita visus est haec adimplere, sed magis atque magis in sua dura et obstinata cervice permanens, quodammodo iners et deses omnia sacra negligere cernebatur. Hinc accidit quod in quadam turri, vulgariter nuncupata del Castellano, intus pomarium (pomerium) aedificata, prope littora maris, reclusis ianuis, mortuus foetidusque et vermiculis per totum corpus obrosus inventus est. Quamobrem ecclesiastica sepultura indignus, in quadam clausura sepultus fuit".
Ne do il testo in italiano:
"Giuseppe Mairina, della terra di Palmariggi, a lungo dimorando in Otranto e assai spesso ammonito da Parroci e Sacerdoti ad accostarsi ai Sacramenti e a partecipare alle funzioni sacre, giammai nel corso della sua vita fu visto adempiere ciò, ma, anzi, sempre più permanendo nella sua dura ed ostinata mente, in certo modo accidioso e infingardo era notato trascurare tutto ciò che riguardava la religione. Quindi accadde che in un torre, in volgare chiamata "del Castellano", edificata entro il pomerio, vicino alla spiaggia del mare, apertene le porte, fu ritrovato morto e fetido e con tutto il corpo corroso da vermi. Per la quale ragione, indegno di sepoltura in Chiesa, fu sepolto in una 'chiusura'".
Chi fu, dunque, questo Giuseppe Mairina, uomo di tanta dura cervice da scandalizzare gli Otrantini e da meritarsi la punizione divina e la sepoltura in campagna, in un podere cinto da muri a secco? C'è da credere che il buon Dio abbia compreso i suoi affanni e le ragioni della sua vita scontrosa e solitaria, ignoti a coloro che lo videro per le strade di Otranto. A lui, ora, il conforto del ricordo; al pio sacerdote estensore della nota la gratitudine per i suoi righi schietti e in certa misura rispettosi della lingua latina.

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