§ DA SUD A SUD

Da Sibari agli eroi di Riace




Luigi C. Belli



Qualcuno ha scritto che la storia ha le sue astuzie illuminanti: e così, quello che non veniamo a sapere dalla propaganda amica, lo conosciamo dalla propaganda nemica. Sibari, per esempio, ebbe una rivale acerrima, la vicina Crotone, i cui scrittori si premurarono di tramandarla ai posteri come luogo di lusso, certamente, ma anche di ozio, di ignavia, di dissolutezza. Nacquero le cosiddette "storie sibaritiche", e sono un piccolo gioiello della storia antica, che porta al paradosso uomini e fatti della città.
Rievochiamo qualcuna di queste storie. Il giovane sibarita si alza dal suo letto di petali di rosa, maldicendo perché le piegature dei petali gli danno fastidio. Guarda dalla finestra, e il sole è già alto nel cielo: del che si compiace, perché vanto del sibarita é di non aver mai visto l'alba. Un tempo, è vero, gli dava noia il canto dei galli; ma attraverso amici influenti li ha fatti bandire dalla città. Poi esce di casa, ed ecco una vista terribile: un contadino al lavoro! A tanta vergogna, si sente venir meno. Si potrebbe continuare. Se non che, i Crotoniati hanno ottenuto solo in parte il loro scopo, perché ancora oggi è chiamato "sibarita" chi vive nel lusso e nella dissolutezza, ma non sono riusciti ad evitare che al di là delle loro storia si intraveda chiaramente la straordinaria prosperità dell'antica colonia greca. Una prosperità durata poco più di due secoli, dal 720 al 510 avanti Cristo, e spenta proprio da un assalto di Crotone. Qui c'è l'ultima "storia sibaritica", quella dei Crotoniati che inviano spie nella città nemica per insegnare ai cavalli la danza a suon di musica; e quando poi sferrano l'assalto, suonano la musica insegnata agli animali, facendo sì che questi danzino, piuttosto che combattere.
Orbene: dov'è l'antica Sibari? Per strano che sembri, fino a poco più di dieci anni or sono nessuno sapeva dirlo con certezza. Vi era una stazioncina ferroviaria con questo nome presso la costa ionica, poco a nord di Rossano; ma nessun testo antico confortava l'identificazione. Poi è venuta la moderna tecnologia, con i magnetometri a protoni della Fondazione Lerici e dell'Università di Pennsylvania, che hanno scrutato il sottosuolo rivelando una serie di anomalie in corrispondenza degli edifici sepolti; e così Sibari è stata individuata, non lontano proprio dalla piccola stazione, che dunque ne conservava il nome a buon diritto. Ma il problema dello scavo non era ancora risolto, perché il sottosuolo risultava pieno d'acqua: non per nulla la storia narra che i Crotoniani, per distruggere definitivamente la rivale, deviarono su di essa le acque del fiume Crati.
Nel loro intento riuscirono a metà. Se l'antica Sibari non risorse, altri insediamenti vennero a collocarsi sul luogo: nel 444 avanti Cristo nacque la colonia ateniese di Thurii, nel 194 avanti Cristo quella romana di Copia. Ora gli scavi, come in uno spaccato, le mostrano una sull'altra: prima Copia, sotto Thurii, ancora più sotto Sibari. Quest'ultima, naturalmente, è la più difficile da raggiungere, per quell'acqua che riemerge appena si affonda il piccone. Ma anche qui la moderna tecnologia ha vinto la battaglia, impiegando i well-points, lunghi tubi metallici che vengono conficcati nel terreno e attraverso i quali l'acqua è risucchiata da potenti pompe.
E la città sta risorgendo.
Ora dobbiamo dire che Sibari è tanto affascinante quanto poco conosciuta, e non ancora raggiunta dal turismo, se non d'élite. Vi si può giungere per ferrovia sulla linea Napoli-Potenza-Metaponto, o sulla Bari-Taranto-Crotone. L'aereoporto di Lametia Terme è a 150 chilometri. L'auto è preferibile: si esce dall'Autosole a Sibari-Spezzano Albanese: ventitre chilometri dopo si è in pieno centro archeologico, attraverso la Superstrada delle Terme. O, da Taranto verso Reggio Calabria, si attraversa Sibari moderna. L'abitato moderno è una frazione del comune di Cassano allo Ionio. A poco meno di mezzo chilometro dalla stazione ferroviaria, il Museo della Sibaritide, che espone al pianterreno i reperti della stipe votiva di Francavilla Marittima: sono le offerte deposte dai Sibariti in un santuario di Atena al confine dei loro territorio (bronzi, ceramiche, gioielli, monete). Al primo piano, altri oggetti provenienti dalla necropoli, anch'essi caratteristici per la ricchezza e per l'eleganza della lavorazione.
La zona degli scavi attuali si trova in località Bruscate, a circa cinque chilometri dal museo. Punto d'inizio dell'itinerario, l'Antiquarium, con i reperti più significativi: strutture in pietra degli edifici, terrecotte architettoniche, ceramiche di varia fabbrica, statue marmoree. Nello spazio antistante, un pavimento a mosaico di età romana e due grandi vasi in terracotta. I cantieri visitabili sono due: il Parco del Cavallo a sud, e il Parco dei Tori o Stombi a nord . Il primo presentai n vista il teatro, le terme e numerose case di età romana. Una grande strada più antica, del IV secolo avanti Cristo, visibile nella splendida larghezza: ben 13 metri. Sotto, gli strati di Sibari vera e propria (VI secolo avanti Cristo). Libera da sovrapposizioni, Sibari è invece visibile al Parco dei Tori, con le abitazioni del Vi secolo costruite con ciottoli, assieme a pozzi per l'acqua e fornaci per la cottura di vasi e statuette. Altri cantieri hanno dimostrato l'ampiezza della città, mentre varie decorazioni architettoniche hanno provato l'esistenza di templi da riportare ancora in luce. Non sarà facile sottrarre l'antica Sibari alla condanna pronunciata dai Crotoniati. Ma la strada sembra ormai aperta. Più agevole (e fortunoso) far riemergere quel che sta in fondo al mare. E anche questa è storia dei nostri giorni.
Ha scritto Antonio Pinelli che la visione diretta di un capolavoro è sempre sconvolgente "e cancella all'istante qualsiasi illusione sull'attendibilità surrogatoria della fotografia". Considerazione ovvia, se si vuole, ma tanto più vera quando il capolavoro in questione è un bronzo del quinto secolo a.C. I bronzi originali di quell'epoca sono straordinariamente rari, e l'immagine che ne conserviamo rischia sempre di essere sopraffatta dalla scialba moltitudine di copie e di derivazioni d'epoca romana che affollano i musei di tutto il mondo.
Anche per questo sono stupefacenti i bronzi greci, i cosiddetti "Eroi di Riace", ripescati fortunosamente nel mare Jonio. Perché sebbene da tempo si mormorasse negli ambienti artistici e scientifici di questa sensazionale scoperta archeologica - senza alcun dubbio fra le più rilevanti del nostro secolo e fossero circolate persino alcune (bruttissime) fotografie, tuttavia l'impatto dell'osservazione diretta coglie ugualmente alla sprovvista. La qualità degli Eroi è tale da farli entrare di diritto nel novero ristrettissimo dei massimi capolavori dell'arte classica, e per quel che riguarda la "classe degli oggetti" cui appartengono - la statuaria greca in bronzo del V secolo - solo il celeberrimo "Auriga di Delfi" scolpito da Sotades può, a giudizio dei massimi esperti, reggerne il confronto.
Certamente, l'effetto di questa scoperta non sarà altrettanto sconvolgente di quello prodotto ai tempi del Canova dall'esposizione dei "marmi Elgin" del Partenone, ma crediamo di poter affermare con certezza che l'idea che ci siamo fatti dell'arte greca non potrà essere più, d'ora in avanti, identica a se stessa: non solo perché l'analisi delle due statue aprirà senz'altro nuovi orizzonti all'indagine filologica, ma perché sarà proprio il nucleo più essenziale di quell'immagine ad essere meglio messo a fuoco e come rivitalizzato ai nostri occhi da queste due opere, che di quell'arte segnano uno dei più alti momenti espressivi.
E' stato accennato alla fortuità del ritrovamento. Questo avvenne ben nove anni fa, nell'agosto del 1972, su segnalazione di un subacqueo romano, che avvistò le due statue in un fondale profondo solo otto metri e a non a più di trecento metri dalla costa, non lontano dalla spiaggia di Riace e da Capo Stilo. Non appena effettuato il recupero, ci si rese subito conto della sua eccezionalità, e dopo una prima ripulitura sommaria dalle concrezioni, anche della sostanziale integrità delle due statue. Come in altri casi, l'ambiente marino si è rivelato ottimale ai fini della conservazione: non ha danneggiato seriamente le sculture e, soprattutto, le ha preservate per secoli dalla prevedibile fusione cui sarebbero andate incontro in epoche più inclini ad utilizzare il metallo per battere moneta che non a forgiare statue. Dei resto, di tutti i grandi bronzi greci di quest'epoca che ci sono pervenuti, solo "l'Auriga di Delfi" non è stato "salvato dalle acque", bensì dalla terra, che lo seppellì per secoli sotto una frana. Gli altri, compreso l'"Atleta" recentemente ripescato da ricercatori clandestini al largo di Fano e acquisito, dopo molte peripezie, dal californiano Museo Getty, sono stati tutti rinvenuti in mare.
Le statue di Riace rappresentano due figure virili nude, stanti e barbate, l'una (A) esibente una fluente capigliatura trattenuta da un'infula, l'altra (B) con il capo protetto da un elmo che è andato perduto. Entrambe erano in origine armate di uno scudo (le staffe dell'imbracciatura sono ancora visibili) e nella destra impugnavano una spada o una lancia.
Dopo che il restauro fiorentino (esemplare) ne ha rivelato per intero lo splendore e l'incredibile integrità (compresi gli intarsi ramati, che conferiscono una nota cromatica ambiguamente realistica alle labbra e ai capezzoli, e le lamine d'argento che ancora rivestono i denti della statua A), s'intrecciano le prime ipotesi degli studiosi sull'autore e sulle circostanze del naufragio che ne causò, con ogni probabilità, l'affondamento. Si sono fatti i nomi di Fidia giovane, di Policleto, di Kresilas. Si è parlato dell'opportunità di verificare la possibile corrispondenza tra le impronte dei piedi delle due figure e quelle che ancora si leggono su molte basi a Delfi e ad Olimpia. L'ipotesi più probabile è infatti che si tratti di parte del bottino di un saccheggio. Ma di quale saccheggio? Quello del console Mummio a Corinto, oppure quello dei Visigoti di Genserico a Roma, o quello di Costantinopoli, che fruttò ai devoti Crociati il "Colosso di Barletta" e i celebri "Cavalli" di San Marco a Venezia? O ancora, qualche incursione saracena, o qualche più banale "incidente" locale? Non è infatti da escludere che le statue provengano da un centro non lontano da Riace. La Calabria, non va dimenticato, nel V secolo prima di Cristo era Grecia a tutti gli effetti.
Ci limiteremo, sulla scorta del pensiero di alcuni specialisti, a constatare che la posa dei due "Eroi" (pressoché identica) non obbedisce al gioco bilanciato di corrispondenze chiastiche su cui è imperniato il canone policlete, né deriva da questo la gravitazione del corpo sull'asse verticale di un solo piede. Piuttosto, il modulo delle due statue ricalca alla lettera quello dell'"Apollo dell'Omphaios", un'opera attribuita a Kalamis, il cui originale è andato perduto, e la cui celebrità è testimoniata da un gran numero di copie.
Un altro nome che non si può fare a meno di rievocare nell'osservare la maestria di un modellato "ad unguem", che fa guizzare le vene sotto la pelle, è poi quello - misterioso - di Pitagora da Reggio (Rhegion), lo scultore del V secolo di cui Plinio ricorda che "primum nervos et venas expressit capillumque diligentius". Non nasconderemo che a tratti, forse per la diversa conservazione della patina, forse per un qualche effetto ottico, viene da dubitare che le due statue siano state realizzate dalla stessa mano. E' certo, in ogni caso, che l'autore (o gli autori) hanno voluto rappresentare, pur nel modulo analogo, due tipologie fisiche (quasi, si direbbe, due "caratteri") diversi. Il corpo della statua A è ben altrimenti scattante, come pronto ad un balzo. Il torace è sollevato, il dorso s'inarca poderosamente, sotto la pelle i muscoli si tendono e premono come molle compresse, la luce guizza sui volumi, brilla e si rapprende sulle chiome e sulla barba studiosamente inanellate. Anche il bagliore argenteo dei denti, lo sguardo e il profilo tagliente sembrano accentuare questa carica di aggressività, di agile potenza, di energia repressa. La statua B mostra invece un corpo altrettanto atletico, ma più rilassato. La luce scivola su volumi meno sinteticamente definiti, bagna come un denso fluido splendente le superfici, evocando, con sconcertante realismo, la morbida trasparenza della pelle. Ma la parola "realismo" non deve trarre in inganno: come solo le più alte creazioni dell'arte greca, i due "Eroi" si conservano miracolosamente equidistanti sia dall'astrazione idealistica, sia dalla caratterizzazione veristica. Essi rappresentano due "tipi ideali", altrettanto lontani dalla minuzia mimetica e descrittiva del ritratto quanto dall'impersonale iconicità dell'"arnalgama" arcaico.
E' stato notato che di recente, in campo archeologico, sembra prevalere la parola d'ordine della "cultura materiale" e cresce il disprezzo per i valori estetici, giudicati l'indesiderabile retaggio di una critica idealistica. Ma chi contrappone seccamente la quantità alla qualità si sbaglia e rischia di non vedere come statue di questo livello ci consentano di attingere direttamente alle fonti di una civiltà che, fondandosi sul culto dell'umanità e dell'individuo, e fiduciosa nella sua realistica perfettibilità, ha saputo poi esprimere tutto ciò attraverso l'intelligenza tecnologica dei suoi utensili, l'intraprendenza dei suoi traffici e il mirabile assetto sociale della sua "polis".
L'ondata di ammirazione non si va placando. Il senso che noi oggi siamo stati testimoni di un fatto che non si verificava da tempo immemorabile induce ad altre riflessioni. Bisogna risalire alla commozione sollevata dall'emergere dal suolo di grandi opere antiche durante il Rinascimento: la Venere di Lisippo cavata in Siena e disegnata da Ambrogio Lorenzetti, l'Ermafrodito trovato in una chiavica in Roma, e la Venere apparsa sotto terra nella casa della famiglia dei Brunelleschi, di cui parla il Ghiberti nei "Commentari", la testa greca fatta vedere da Poggio Bracciolini a Donatello a Roma, i tre pezzi antichi portati a Firenze da Napoli da Giuliano da Sangallo, i marmi romani che a Leonardo decantava Donato Bramante nei rozzi e suggestivi versi delle Antiquarie prospettiche romane, e così via. Per non parlare del gruppo del Laocoonte cavato dall'Esquilino davanti agli occhi di Giuliano da Sangallo e del figlio Francesco e di Michelangelo accorsi, eccetera. Ma il mare - dicevamo -è stato più prodigo della terra e i due bronzi di Riace sono infatti esemplari tra i più alti, che in un certo senso non hanno confronti con quelli conosciuti in passato. E ci si chiede: che cosa sarebbe stato se Donatello li avesse visti? Sarebbe cambiato qualcosa? La storia della civiltà, tutta la storia, è fatta anche di eventi mancati: distruzioni, sparizioni, occultamenti e anche ritardi e anticipi, persino come i progressi della scienza appartengono sempre al futuro dei grandi inventori, di quelli che "ebbero l'idea" e ne furono quasi sempre vittime e mai usufruttuari. Così il Rinascimento non conobbe nulla di paragonabile a questi bronzi dove l'arcaismo greco tocca e combacia col più puro classicismo. Quanto a Michelangelo, forse non ignorò il tipo della Statua A, perché poté vederlo impresso nel tronco del cosiddetto Gladiatore Farnese, oggi al Museo Nazionale di Napoli
E' stata studiata, questa scultura, dal Parronchi, su segnalazione di Enrico Paribeni, come possibile fonte per il Bacco scolpito a Roma per Jacopo Galli nel 1496-97. Essa rappresenta un guerriero che, avendo ricevuto un colpo mortale, traballa prima di stramazzare. E figura in due disegni di Martin Heemskerk, eseguiti nel quarto decennio del Cinquecento, tra le altre antichità di Villa Madama a Roma. Il Gladiatore fu in seguito restaurato, ma oggi, per un discutibile criterio puristico, privato della testa, ma non delle gambe che pure sono aggiunte, è un ibrido decapitato. Michelangelo poté leggervi la pienezza e la potenza insuperabile dell'arcaismo greco, che gli scultori dopo di lui, Cellini e Giambologna, suggestionati dalle grazie dell'ellenismo, non avrebbero forse saputo apprezzare ugualmente. E il tipo della Statua A si ripete nell'Apollo marmoreo di Kassel, che riflette il medesimo momento di stile, della metà del V secolo avanti Cristo. Ma certo la rarità delle statue in bronzo rimaste aumenta, se possibile, il prestigio di queste ritrovate. Un'altra constatazione è che non tutte le epoche sono all'altezza di quello che il caso mette loro a disposizione. Mancando la possibilità di riflessi creativi adeguati, la coscienza critica odierna si arrangia come può a mettersi a pari di quello che le capita di incontrare. Quanti avrebbero sognato di vedere questi due bronzi! Penso non solo ad artisti, ma anche a studiosi, a un Bianchi Bandinelli, per esempio.
Non sarà il caso di riaprire la querelle tra antichi e moderni, nata con l'Umanesimo, e da allora trascinatasi, tra fiacche ed entusiasmi, fino al Romanticismo e oltre, e pronta a rispuntare in ogni momento, specie in casi analoghi al presente, con tutto un codazzo di luoghi comuni e di burbanzose banalità. Trovarsi faccia a faccia con uno di questi due, all'improvviso, difficilmente penso potrebbe farci sentire appartenenti a una stessa famiglia. Essi sono nati prima di Cristo. Qualcosa, indubbiamente, è cambiata dopo Cristo. Se fossero esposti a Parigi, bisognerebbe metterli accanto ai due schiavi del Louvre. E non importerebbe nemmeno confrontarli con corpi nudi, ma con corpi anche abbondantemente vestiti, come quello dello Zuccone di Donatello. La prova servirebbe a farci capire con quale tempo la nostra stanca umanità ha mantenuto più stretti contatti.

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