Scrittori salentini fra le due guerre: Gregorio Carruggio




Enzo Panareo



Così lo descrisse, nel 1930, un giornalista: "... Andatura callosa, corporatura faunesca, viso roseo sul fondo scuro della barba in boccio, occhi di poeta, lenti spesse e borsa di affari inseparabile, parlare frizzante, saporito. Chi lo vedesse di lunedì, giorno di fiera, in piazza S. Oronzo, lo crederebbe un fisico-folle, ma lui è un uomo simpatico, pesante di sorrisi e di cordialità ... " (1), ed è ritratto che risponde perfettamente al tipo di letterato di provincia, aperto e disinibito, dall'intelligenza vivida, caustico, ma di una causticità che nell'intimo esprime il senso acuto di una tendenza - innata in provincia e specialmente in una provincia come la salentina, di antichissima tradizione culturale - alla speculazione filosofica ed a quella sulle capacità civili di una gente d'imporsi con la sua laboriosità, che non tarda a tradursi talvolta in genialità, nel contesto del Paese. Par di trovarlo tra gli "uomini di studio, di foro e di mondo, in cui è diffuso uno spirito ipercritico, in cui ogni individuo si sforza di dominare e di distruggere l'avversario, e una frase spigliata, un motto arguto valgono più di una bella opera, e chi ha ingegno da vendere lo spende volentieri e si allieta di speranze, e la lotta è vivace, ed il fatto stesso che quello spirito vien censurato come indifferentismo verso la sostanza delle cose, come disistima vicendevole e ipocrisia e improntitudine, e lodato come tolleranza e simpatia, è prova della sua vitalità ... " (2), secondo una visione attenta e penetrante di Tommaso Fiore. Gregorio Carruggio proveniva da Manduria, pugnace e fiera per le sue tradizioni risorgimentali, dov'era nato il 1 dicembre del 1893 (3). Di modestissima condizione familiare, autodidatta, ben presto intravede, al di là dei limiti ideologici che l'educazione familiare gli ha imposto, gli orizzonti lungo i quali la sua forte personalità si sarebbe espressa. "... Nato da genitori credenti, la mia educazione è stata piantata su le più pure basi della religione ... Ma nel momento in cui il mio cervello, padrone di se stesso, ha incominciato a ragionare per proprio conto, tutte le illusioni son cadute ... No; la verità, come ente assoluto, non esiste, essa non è altro che una delle mille esplicazioni del Pensiero ... " (4): è, questa, una professione di fede laica che non sorprende in un giovane che, da autodidatta, per una istintiva ed irreprimibile brama di conoscenza, sorretta, questa a sua volta, da una intelligenza fervida e disponibile ad ogni conseguenza, s'avvia da solo sulla strada impervia della cultura - che non può non risentire, in un caso del genere, di un disordine innato e pittoresco, anche se anch'esso manifestazione problematica di libertà -in un momento storico e culturale che, improntato sul piano letterario dal più entusiastico carduccianesimo, vede da un lato albeggiare il socialismo tra le fiammate torride dell'anarchismo e dall'altro vede, ancora vigoroso, sebbene già al tramonto, nelle sue originali intuizioni scientifiche, il positivismo, suggestivo per gli echi che suscita nelle coscienze giovanili come una sorta di romanticismo. Infatti, nel Salento " ... era ancora vincolante l'ipoteca del carduccianesimo più ossequioso, sulla scia del quale si cercava di ricreare la piccola storia politica e letteraria della provincia nella convinzione che un giorno essa potesse servire a comporre la grande storia della nazione italiana ... ", (5) un carduccianesimo, per così dire, ad uso della provincia, forse anche provinciale, ma non per questo meno stimolante nei suoi momenti propulsivi, con il quale il giovane Carruggio si confronta, magari fino all'ossequio più acritico, verificando quelle che andavano diventando, in progresso di elaborazione intellettuale, vere e proprie posizioni teoriche. Scriverà, infatti, nel 1918, sintomaticamente in un campo tedesco di prigionia di guerra dove la personalità umana, annullata, è alla mercé dei custodi: "... Il Pensiero è indubbiamente la manifestazione più perfetta di tutte le facoltà umane ... " (6), dove Pensiero vale anche, e soprattutto, in ogni caso, come libertà, che è sì quella fisica dell'uomo che vive, nel rispetto delle norme civili, nell'umano consorzio, ma è quella interiore, la più difficile forse da conseguire, dello spirito che è consapevole di creare la Storia, che permette all'uomo di esprimersi nel rispetto totale della propria cosciente individualità. C questa irrefrenabile esigenza di espressione che porta il diciassettenne Carruggio sulle colonne della Gazzetta delle Pugile. Dal 1912 al 1914 si trasferisce a Bari, come redattore di Humanitas, diretta da Piero Delfino Pesce, "il più gentile fra i fiori del sapere" (7), il cui insegnamento, cadendo in verità su terreno fertile, suscita in Carruggio, nella sua esaltata sensibilità, un'adesione devota al mazzinianesimo ed al repubblicanesimo mutuati da Giovanni Bovio, del quale Piero Delfino Pesce era stato discepolo prediletto alla Facoltà di Giurisprudenza presso l'Università di Napoli. In questa suggestiva struttura di pensiero Carruggio - che ha già pubblicato Vagiti (8), La canzone di Gesù (9) e la conferenza A Giordano Bruno (10) - sistema la sua visione di Patria e di Nazione. In questa visione si aliena ad un criticismo di tipo libertario che gli servirà, nel periodo postbellico, a combattere una delle più esaltanti battaglie giornalistiche che mai il giornalismo salentino abbia combattuto dall'Unità del Paese alla seconda guerra mondiale. Humanitas (caratteristico il sottotitolo di Gazzetta autarchica), nata nel 1911, "il settimanale più battagliero dei suoi tempi, una delle maggiori palestre di libere idee in Italia" (11), svolse dal marzo del 1914 una campagna antiaustriaca ed antitedesca nel cui sviluppo a Piero Delfino Pesce riuscì di omogeneizzare repubblicani, socialisti, radicali ed, in genere, i giovani "... che contestavano ai partiti estremi il diritto di guidare le masse e nello stesso tempo erano fortemente critici verso il nazionalismo" (12). E' in questo circuito di interessi, colti e disponibili ad una visione tutta particolare dell' impegno politico, che maturano molte delle posizioni ideali di Gregorio Carruggio. In Vagiti, del 1910, il tono ed i metri, molti dei metri, sono visibilmente carducciani, ma c'è anche Stecchetti, trasparentissimo, e c'è Rapisardi ("questo titanico scrutatore d'un'epoca non sua") (13), ed un cupo, ma anche ingenuo, romanticismo che tradisce molte altre fonti della formazione culturale del Carruggio. C'è, infine, anche un pessimismo, di natura, comunque, problematica ed, in fondo, tutta letteraria che consente d'inserire le poche liriche della graziosa raccolta che è Vagiti nell'area vasta del decadentismo.
Con la conferenza a Giordano Bruno la già stabile fede laica di Carruggio esplode in una appassionata invettiva nella quale sono contenuti, rigorosamente enunciati, tutti i temi relativi alla libertà del pensiero che si rifiuta di convivere con il dogma, con qualsiasi dogma, che, anzi, incurante degli ostacoli frappostigli da questo, procede, senza lasciarsi intimidire, sulla strada delle più luminose verità della morale e della scienza. L'invettiva procede, seguendo il martirio del Nolano, nulla risparmiando fino alla naturale ed appassionata invocazione finale: "... oh, uomini degni di tal nome, sentite: anche Bruno gridò Repubblica; anche Bruno gridò Socialismo; anche Bruno sognò una dolce Anarchia del pensiero e noi, che getteremo, noi, nella fucina che arse il suo corpo? ecco: gettiamoci questo nostro fiacco secolo e giuriamo che da esso nascerà la luce, vera, potente, infinita!! ... " (14). Proprio nella polemica, generosamente aspra che investe tutta una fascia di cultura, è un inno d'amore dai toni roventi che Carruggio eleva alla libertà del Pensiero, che imperterrito tutto travolge avanzando sulle macerie degli idoli, un inno di fede alla realtà dell'uomo che, forte delle sue conoscenze e delle sue capacità intuitive ed intellettive, con le quali penetra nei misteri vertiginosi della natura e nella complessa psiche dell'uomo, si impone come il vero dominatore dell'Universo. Alle soglie della guerra, nel 1915, nasce Nel crepuscolo (15), una nuova raccolta di versi, che già nel titolo esprime il clima storico e morale nel quale Carruggio si prepara a vivere quell'esaltante, e mortificante nello stesso tempo, avventura esistenziale che è la guerra.
La guerra è esperienza troppo totalizzante e problematica perché non lasci in uno spirito vigile e vibrante come Gregorio Carruggio, nella sua larga umanità edificata quotidianamente sulla ricerca, sull'indagine di se stesso, una traccia profonda. Il conflitto immane, infatti, ha una incidenza particolare nella biografia intellettuale di quest'uomo che da solo, non senza sacrifici profondi, tra certezze consolidate, certezze che disperatamente vengono meno e certezze effimere che sorgono a turbare il cammino dell'umana e civile consapevolezza, s'è ritrovato con una strenua capacità di analisi della realtà. L'analisi della realtà è il banco di prova al quale saggiare la resistenza delle idealità più salde: la guerra è, in questo caso, un banco di prova, tra i più roventi, rogo immane alla cui fiamma abbagliante sono offerte tutte le idealità di una generazione d'intellettuali educati al culto delle libertà laiche. Essa diventa, allora, come esperienza risolutrice di una interiore macerazione sulle capacità civili ed intellettuali del popolo italiano; il momento, forse irripetibile e da cogliere allora oltre ogni considerazione, in cui l'uomo di cultura si riconosce, finalmente, ad un cinquantennio e oltre dall'Unità del Paese e dopo una somma di avvilenti contraddizioni di carattere politico, erede di una secolare tradizione storica e culturale in cui l'operare politico ha il dovere, onde stabilirsi sulla linea delle più sane posizioni etiche, e coinvolgendo tutto il popolo, di mirare al riscatto delle classi diseredate. E' la lezione mazziniana filtrata attraverso la concezione della guerra estrema ratio perché il popolo assuma, legittimamente, il ruolo di protagonista.
Certo, l'ipotesi è concepita sullo sfondo di una posizione illuministica e palingenetica nella cui complessa trama, per difetto di coscienza di classe, il riscatto delle masse diseredate e sfruttate si vanifica nella visione, ai confini dell'utopia - l'estremo termine conseguito da Tommaso Fiore, andando in guerra -, di un popolo redento dall'impegno di quegli intellettuali fermi ad un romanticismo di stampo ottocentesco, generoso e sterile, perché ricco di umori culturali ma privo di elementari agganci con una realtà effettuale che è quella, arida ma lucida nel contempo, dei parametri dell'economia da applicare nell'indagine dei conflitti di classe. Fu l'illusione, generosissima, di una larga fascia del l'interventismo democratico che avrebbe scontato, con le atroci delusioni seguite al conflitto e con l'impegno antifascista, la somma di inenarrabili sacrifici sopportati in trincea. Sarebbe bastato che si guardassero intorno, questi giovani idealisti imbevuti di dottrine illuministe ed umanitarie, perché si rendessero conto che la lotta per il riscatto delle classi diseredate andava fatta con queste, non al di sopra o al di fuori di queste: e fu la scelta di un Tommaso Fiore, che alcuni giovani, e tra questi Carruggio, non seppero, o non vollero, fare.
Alla partecipazione al conflitto, in prima linea donde Carruggio invia corrispondenze a Il Popolo d'Italia sono legati, oltre a tanti articoli giornalistici ricchissimi di fremiti, a qualche racconto di struggente concezione ideologica e di elegante fattura - il caso de Il Crocifisso capovolto (16), scritto nel 1925 -, ed alcune liriche eccessivamente, forse, imbevute di retorica patriottica e nazionalista, la stesura de L'uomo e le religioni, un fascicolo composto nel campo di Halle an der Saale in Germania nel marzo del 1918, il Discorso sul valore della vita composto a Salò nel novembre del 1919, e la Storia di Lecce, del 1936, attribuita ad un inesistente ufficiale tedesco, studioso del barocco, e tradotta dallo stesso Carruggio. Sul filo di una certa cultura romantica tedesca, costui nella presentazione precisa che quel che è indispensabile nella descrizione delle vicende di un luogo o di un paese è "... quella felicità d'indagine per cui soltanto attraverso alla leggenda si possono rintracciare le fonti d'una probabile se non ceda realtà ... " (17). E non deve stupire, in un temperamento come Carruggio, il ricorso alla leggenda, valore estremamente poetico che affonda radici nell'anima popolare, se si considera che Carruggio è passato attraverso l'esperienza sconvolgente della trincea, uscendone indenne, e della prigionia, entrambe serenamente accettate tenendo fisso lo sguardo all'annullamento di quel malessere esistenziale e culturale che fu dal primo quindicennio del Novecento, allorché le teoriche e le poetiche irrazionaliste, incalzanti con la suggestione esercitata sui giovani avidi di conoscenze, avevano messo in forse, presso una larga fascia di intellettuali, la fiducia nella capacità speculativa dell'uomo. Ma Carruggio affronta l'esperienza della guerra con una propria ideologia: un'idea della quale è data dalle cinque composizioni poetiche, in vario metro, di Rapsodia umana (18), scritte a Plava d'Isonzo nel marzo del 1916, in una batteria di "settantacinque". Al di sopra dell'odio che corre lungo le trincee, tra un esercito e l'altro, c'è, che non può essere per nulla cancellato, l'amore che accomuna e affratella i soldati di entrambi gli eserciti, di tutti gli eserciti, uomini inconsapevolmente nemici tra loro sotto la spinta di un destino inesorabile che li ha scagliati, sottraendoli alle pacifiche opere quotidiane e all'amore delle famiglie, nella tormenta di fuoco e di morte che la Storia, per una di quelle accelerazioni delle quali periodicamente ha bisogno, realizza. Ne nasce una riflessione angosciosa che può tradursi in disperazione ed in cinismo, ma anche in crescita di umanità. E' sintomatico che proprio in guerra, ma più nel tormento della prigionia, dove l'uomo, venuta meno l'azione, pur realizzata in presenza di un incombente destino di morte, si ritrova inerme di fronte alla propria coscienza, un intellettuale del tipo di Carruggio avverta il bisogno di fare i conti con la religione, cioè con un valore spirituale che egli ha fatto di tutto, mediante una serrata autoanalisi, per sistemare in una sfera critica dalla quale i contorni della religione, della quale non è negata l'efficacia consolatrice in alcuni momenti storici della vita dell'umanità, sono emersi nella loro condizione inesorabilmente tutta terrena.
Spirito eminentemente speculativo, infatti, Carruggio non esita, affidandosi alla libertà del Pensiero, ad aggredire, nell'ottica del positivismo, suscettibile di tradursi in qualche passaggio in puro materialismo, i più ardui problemi che la religione e la morale propongono, appassionatamente infine conducendo un ragionamento coerente, serrato, ricco di sfumature ed, anche, sorretto da non comune dottrina filosofica. "... Certamente - afferma -, se l'uomo, nella sua origine avesse potuto imprigionare la folgore mediante il parafulmine, porre un argine alle inondazioni mediante le dighe, spiegarsi il mistero della morte con la conoscenza del proprio corpo, Dio non sarebbe nato ... " (19), "... essendo esso Dio una diretta emanazione idealistica della mente umana" (20). Tutto il discorso è condotto in nome della verità, quella che rende veramente liberi gli uomini. Ed è sotto il segno di questa verità che è posto il Discorso sul valore della vita.
Rientrato, infatti, in Italia dalla prigionia -mesi fecondi di meditazione hanno sorretto Carruggio, durante i quali egli ha avuto agio di arricchirsi anche culturalmente - scrive il Discorso sul valore della vita che egli è riuscito a trarre in salvo dalla rapinosa bufera che tante e tante vite umane ha distrutto. Ma -sembra chiedersi in queste poche pagine Carruggio - valeva la pena di affrontare la prova tremenda della guerra, se questa prova non produce conoscenza e, quindi, verità? Se almeno non produce, questa prova, il desiderio della conoscenza, l'ambizione di cogliere, sia pure sulla soglia della morte, una verità?
L'esperienza della guerra è stata dura certamente, ma feconda. Carruggio si rende subito conto che con quest'esperienza, segnata con caratteri di fuoco sulla sua anima, è chiamato, almeno per molti anni ancora e non soltanto per ragioni sentimentali o culturali, a confrontarsi. Nel passato di morte, di dolore, di umiliazioni che quell'esperienza rappresenta è condensato un capitolo non di una storia individuale soltanto, ma della storia di una intera generazione - la "generazione del Carso" - che, affrontata e superata l'"avventura titanica", (21) non accetta adesso di pensare d'essersi sacrificata invano. Questa generazione adesso reclama il diritto di rappresentare la Nazione, d'essere il Popolo.
In una conferenza tenuta a Salò il 24 ottobre del 1919, un mese prima della stesura del Discorso sul valore della vita affronta, non senza enfasi, ma con fermezza e con chiarezza di propositi, il nodo di Caporetto che ancora pesa con la sua bruciante inestricabilità, sulla coscienza di una storia collettiva che ha scelto di non lasciarsi travolgere dal peso di quella memoria infausta, della quale vanno con sobrietà e con oggettività delineati i contorni. Carruggio tenta civilmente il salvataggio di quella coscienza nei limiti, troppo angusti in realtà, di quella memoria che, comunque, agevolerà, in un secondo momento, il riconoscimento in chiave critica delle motivazioni che stanno alla base delle gravi tensioni sociali, che dal 1919 a tutto il 1922 ed anche dopo l'ascesa del fascismo, dilaniano il Paese creando, nella realtà dei fatti, i presupposti per un sbocco traumatico della situazione, magari imprevedibile nelle scelte, ma inevitabile. Sostenne in quell'occasione, a proposito di Caporetto: "... io non intendo dare la colpa al soldato, al popolo. Ad esso mancava l'idea vera della Patria! quell'idea che cova calda nel cuore e nel cervello di ogni uomo che è veramente tale, quell'idea che non ha limite né principio perché va dalla cuna alla tomba; e nessun'educatore ha saputo ancora dare perfetta quest'immagine davanti alla mente rozza ma perspicace del nostro contadino, e se uno ve ne fu quell'uno si chiama Mazzini e morì in esilio ... " (22). E pochi giorni dopo, commemorando, il 4 novembre 1919, al Teatro Comunale di Salò, il primo anniversario della vittoria delle armi italiane: "... Né, infine, un osservatore superficiale saprebbe vedere in questo cozzo delle diverse nazionalità un fattore di preponderanza morale dell'uno sull'altro popolo, dal momento che, se noi gettiamo uno sguardo sui varii stati d'animo dei popoli del dopo guerra, vediamo come il relativo malessere di questi giorni si caratterizza eguale dovunque, con manifestazioni più o meno turbolente, con proteste di masse e con contrarietà di interessi più o meno gravi. Ma tutto ciò è un errore ... " (23). La convinzione, legittima, di Carruggio è che l'area di malessere è vastissima e comprende diversi popoli d'Europa perché sui campi di battaglia si sono scontrate "due civiltà diverse, due pensieri opposti: due finalità che erano agli antipodi" (24). Ha prevalso, senza dubbio, la parte idealmente e culturalmente fautrice del diritto dei popoli alla libertà e all'autodeterminazione; ma i risultati, abilmente manipolati da chi aveva interesse a farlo per motivi tutt'altro che ideali, non sono quelli sperati sui campi di battaglia, come è possibile dedurre dall'atteggiamento, oltre che dei diplomatici italiani, di un Wilson, cui Carruggio indirizza una lettera su un periodico, nella quale, tra l'altro, dice "... E violentare così come lei ha fatto, prima con l'opposizione tanto più tenace quanto più ingiustificata, poi con un colpo di testa in verità poco filosofico, la libera decisione del popolo di Fiume; via, illustrissimo Presidente degli Stati Uniti, non le sembra che tutto ciò potrà pregiudicare il vero scopo della guerra, che è costata tanto? ... " (25).
Il riferimento dell'azione politica di Carruggio è, naturalmente, una volta che tutti i soldati sono stati smobilitati, al combattentismo, divenuto, nel marasma politico ed economico in cui il Paese ha preso a versare, l'unico valore morale sano intorno al quale si deve far ruotare ogni intervento intellettuale di chi ha patito la trincea. "... Rimbocchiamoci dunque i calzoni ed arrischiamoci nel pantano politico in cui presentemente affoga la Patria ... ": è l'invito programmatico con il quale il 5 giugno del 1920 appare il primo numero del settimanale L'Italia Meridionale diretto da Gregorio Carruggio a Lecce. Il nodo da sciogliere è sempre quello di un dopoguerra da esibire con i crediti, massicci, che i reduci hanno maturato nei riguardi di una classe dirigente che non ha voluto, o saputo, comprenderne le legittime istanze. Che, nell'ottica di Carruggio, restano quelle di una minoranza di giovani idealisti cui ha fatto difetto una visione netta delle motivazioni per le quali erano stati mandati al fuoco. Si trattava di far entrare le masse nella storia, così come erano state fatte entrare nella guerra, con gli strumenti della politica, che sono quelli della democrazia, della partecipazione attiva alla vita pubblica. Comunque, c'è alla base de L'Italia Meridionale un progetto politico da esibire ai lettori, una strategia da incoraggiare e da realizzare onde fronteggiare le numerose contraddizioni che emergono dall'impegno politico della classe dirigente cittadina? cioè, sul piano nazionale e su quello locale, di quali interessi si fa portavoce il periodico, che si distingue subito per la sua carica intelligente di vivacità, di combattività e anche di spregiudicatezza?
Senza dubbio, in un momento storico tempestoso come quello seguito in Italia alla fine del conflitto, mentre una formazione politica sta per prendere con la violenza il potere, la vicenda de L'Italia Meridionale è esemplare di un certo tipo di giornalismo realizzato, in provincia, dalla fede fervida, e disinteressata, di un solo uomo, un intellettuale laico, combattente che ha fatto fino in fondo il suo dovere, il quale profonde senza risparmio energie morali, intellettuali ed economiche onde portare avanti idealità di sicura tradizione senza dubbio, ma severamente collaudate in un momento contingente, quello della guerra che aveva messo a nudo alcune, e non superficiali, verità: "... la prima a morire, in trincea, fu l'idea della patria e non certamente per colpa di chi la difendeva ... " (26) con tanta amarezza, e ancora "... Gli uomini del vecchio stampo, durante la guerra, si preoccuparono soprattutto di due cose: di vincere la guerra, poiché nella partita era impostato il loro benessere e, dopo, di vincere i combattenti, a partita terminata..." (27). Ma nel malessere sociale ed economico che ha invaso il Paese in un momento così delicato, con un blocco agrario che, atterrito dalle pressioni in atto, si arrocca sempre più sulle sue posizioni conservatrici, con moti socialisti o socialisteggianti che quotidianamente insanguinano il Paese, è possibile ipotizzare, come fa Carruggio, "un governo dei Combattenti" se questo "governo" non affonda radici in istanze autentiche di rinnovamento e di riscatto? Può essere il combattentismo, nella transitorietà della sua condizione, una figura sociale in grado di realizzare un concreto riferimento politico? D'altronde "il combattentismo leccese non ebbe leaders di spicco con la sola eccezione del pedagogista Giovanni Calò, che nelle elezioni del '19 ne fu l'unico rappresentante a Montecitorio. Ciò forse per il diverso radicamento del socialismo in alcune aree forti del movimento contadino sia per la relativa tenuta delle forze liberal-riformiste di marca nittiana" (28).
Certo è che Carruggio, forte soltanto di quelle che si rivelarono non essere altro che illusioni, si scaglia contro il blocco agrario accentratore e sfruttatore, contro il grosso capitale finanziario che impedisce una libera espansione dell'economia, contro le camarille locali nel cui seno è agevole individuare i focolai d'infezione che logorano il Comune, e nel Comune, i rapporti tra i cittadini nell'ambito dei ceti produttivi. E' contro la "banca", la cui concentrazione dei capitali impedisce un ordinato flusso dell'economia produttiva ed un razionale impiego delle risorse umane e materiali ed è, infine, contro il "sovversivismo rosso" ritenuto alimentatore esasperato dalle tensioni sociali che frenano il libero svolgersi della produttività nazionale. Certi toni psicologici, certo lessico dalle tinte accese negli articoli di Carruggio sono quelli dell'interventismo democratico, dalle cui posizioni ideologiche, anche nel dopoguerra, egli trae stimoli importanti. Tra i quali, fondamentale sul piano dei contenuti etici, quell'onestà, quella lealtà civica che ha portato, negli anni del conflitto, molti giovani a confrontarsi volontariamente con quel mostro vorace che è stata la guerra. In politica estera, pur non negando l'efficacia della cooperazione internazionale, l'incidenza dell'osmosi delle ideologie, sostiene la necessità della difesa della dignità nazionale cui gli eventi del dopoguerra, tutto sommato, ad opera di politici e diplomatici inetti, non sembrano portare molto rispetto. D'altronde, la politica estera talvolta non è altro che un riflesso di quella interna, le cui condizioni non hanno bisogno d'essere commentate.
Se rispetto alla classe operaia Carruggio ha posizioni nette che, tuttavia, non vanno al di là di una illuministica considerazione, rispetto al fenomeno del "bolscevismo rosso" ha posizioni ambigue ed, al limite, del tutto contraddittorie. Infatti, rimpiange il tempo in cui "Marx era più vicino a Gesù che non alla famosa soffitta dove da tempo è stato dimenticato" (29), ma ha toni feroci contro i "dirigenti il partito bolscevico, i quali, non avendo il coraggio di definire a proprie spese, o sulle piazze o nel Parlamento, la formula rivoluzionaria con cui loro credono, e lo predicano, di salvare l'Italia e sé stessi, si limitano a fare sfoggio del loro eroismo oratorio in eterni comizii da cui le folle escono ubriache ma non coscienti ... " (30). Fu certamente uno dei limiti, non il solo comunque, di Carruggio, e non di lui soltanto, il non aver saputo cogliere la portata storica dello scontro di classe in atto, il non aver saputo intuire che la guerra sarebbe stata veramente rivoluzionaria, come l'interventismo democratico l'aveva auspicata, se nel dopoguerra le masse lavoratrici fossero state impegnate direttamente, come tentavano adesso di fare, in quel riscatto che nell'infuriare della tempesta era stato fatto balenare, con tante promesse, ai loro occhi. Riscatto che, adesso, nel turbine dell'esasperazione era chiesto con la violenza incontrollata. Carruggio non comprende che il momento storico in evoluzione quasi quotidiana esige, al di là di una protesta civilmente ed illuministicamente realizzata, una ben precisa scelta di campo. Che tanta borghesia intellettuale di fede liberale, legata ad irrinunciabili schemi ottocenteschi, non sa, o non vuole, fare. E si tratta proprio degli schemi sui quali, o su alcuni dei quali, va facendo leva il fascismo per catturare il consenso della borghesia prima, e poi quello di tanti intellettuali. Ma Carruggio in questa trappola non cade.
A proposito dell'esperienza di Fiume osserva che "... è storicamente assodato che la virtù e la forza dei popoli creano i grandi avvenimenti, e la stagnante politica della diplomazia li distrugge ... " (31): ed è una brillante maniera di esprimere la propria sfiducia negli istituti tradizionali dello Stato borghese. Tra questi istituti, è perfino ovvio, è compresa la monarchia che Carruggio, quando può, colpisce violentemente.
Ma al di là di posizioni tanto drasticamente enunciate, che cosa resta? L'inerte presa d'atto di una situazione che precipita di giorno in giorno verso la catastrofe dello Stato liberale. Carruggio s'accorge subito, forte del suo mazzinianesimo, della vera natura del fascismo, "... Termine vago Che non racchiude alcuna idea morale né ha nel suo programma alcuna missione rigenerativa" (32), e di quella di Mussolini "... un fedifrago, asservito a un tratto con la scusa di alte ragioni ideali al miraggio aurifero dell'alto capitalismo" (33). Non è stato difficile anche ad un oscuro intellettuale di provincia, tra tanti illustri intellettuali di levatura nazionale, smascherare Mussolini, smascherare le menzogne convenzionali cui il fascismo affida la sua ascesa, camuffandole da ideali patriottici.
Dalle premesse alle conseguenze il passo è breve, in questo caso, e Carruggio compie il passo, che tanto gli costerà dopo, senza esitazioni, consapevole di dover pagare, dopo averlo pagato in trincea, un prezzo alla sua intransigente vocazione etica.
Tra l'avvento del fascismo e la sospensione de L'Italia Meridionale alla fine del 1922, non mancano nel periodico qualche sfasatura ed alcune contraddizioni, ma quel che non viene mai meno è la coerenza di Carruggio e la sua capacità, come norma di fondo di un giornalismo realizzato al di fuori di qualsiasi compromesso, "di far giornalismo: giudicare in base ai fatti" (34). Intanto l'8 agosto del 1922 è arrestato a Bari Piero Delfino Pesce, l'apostolo repubblicano il quale con Humanitas va conducendo una fiera battaglia contro il fascismo prevaricatore: l'accusa è di "formazione di bande armate contro i poteri dello Stato". Ma l'accusa non regge e poco dopo il repubblicano è scarcerato. Cade definitivamente anche Humanitas - che sempre più s'andava configurando come polo d'aggregazione del combattentismo, momento democratico d'una soluzione delle istanze che i combattenti proponevano allo Stato liberale in disfacimento - più volte devastata ed incendiata dalle squadre dei mazzieri.
Il 10 dicembre del 1923 il periodico di Carruggio riprende le pubblicazioni con il titolo L'Italia Meridionale Nuova accanto al quale c'è un motto cui Carruggio è legato, La Verità ci farà liberi, che suona come una dichiarazione di guerra ai fascisti. I quali accettata la sfida, bruciano l'ultimo numero, tutto censurato, del 23-24 febbraio 1924, con tutti i macchinari di stampa, in piazza. Da qualche mese appena Carruggio ha guidato una scissione nel movimento dei combattenti di Terra d'Otranto. Le dittature sanno difendersi soltanto con i roghi!
Pur sorvegliato dai fascisti, ridotto alla miseria, Carruggio continua a produrre. Se il suo impegno politico sul piano giornalistico è neutralizzato, e per sempre bisogna aggiungere, non viene meno l'impegno letterario "... Dovette compilare, per vivere, novelle e itinerari turistici, rimanendo però sempre alla ribalta, prima come corrispondente de Il Mondo, poi de La Voce Repubblicana ... " (35): senza dubbio, ma tutto ciò, visto nella sua realtà quantitativa e qualitativa, rappresenta sempre un esercizio letterario che offre spunti notevoli di riflessione critica.
Il clima, è intuitivo, non è dei più idonei, in assoluto ed in particolare per Carruggio, per una libera e franca circolazione delle idee e, data anche l'estrema perifericità della provincia, per una moderna esplicazione dell'attività letteraria. In realtà, se si eccettua l'episodio, abbastanza fuori dal comune, di Vecchio e nuovo, tra il 1930 ed il 1932, araldo di un rissoso futurismo di provincia, "... la letteratura era passata nelle mani di improvvisati cultori, di fervorosi giornalisti in linea col regime, di occasionali pubblicisti, o di giovanissimi autori alla loro prima esperienza" (36): un deserto, insomma, nel quale brillavano per l'estrema povertà dei loro contenuti le poche manifestazioni culturali organizzate nel Salento negli anni tra il 1925 ed il 1936 dal regime fascista. Per fare poi un caso, in rapporto alla narrativa, quante novelle e novelline insulse, senza capo né coda, si pubblicarono in quegli anni nel Salento, esercitazioni pseudoletterarie - osannate sui fogli locali - prive di senso, di contenuti e, in fondo, anche in contrasto talvolta con le più elementari norme che regolano l'esercizio della scrittura. Racconti e romanzi basati sull'amore in particolare, dai quali traspaiono desideri inconfessati, aspirazioni senza scopo e, soprattutto, frustrazioni, le frustrazioni di chi attraverso un racconto, con il quale finisce col non dir nulla, si finge un mondo, fittizio, di avventure straordinarie nelle quali entrano i materiali più logori della fantasia piccolo-borghese in lotta con l'asfittico mondo della provincia italiana. Un tenue filo culturale in questi racconti talvolta è rintracciabile in un certo, non programmato ed invecchiato, verismo e naturalismo. E tutto ciò mentre il proletariato, agrario soprattutto, è vittima, in seguito alla drammatica crisi economica che il fascismo tentava di esorcizzare con una disumana pressione fiscale, con l'istituzione delle Corporazioni e con l'autarchia, delle più precarie condizioni di esistenza che danno luogo, talvolta, ad incontrollati ed insanguinati scoppi di collera popolare.
D'altronde, anche il fascismo stentava a penetrare nella coscienza popolare. E se è discutibile l'ipotesi di una Lecce antifascista, non lo è meno quella di una Lecce fascista che fu rappresentata, nello stesso campo fascista, da una dissidenza intelligente, che trasse stimoli da certe delusioni che i vuoti personaggi del regime avevano saputo infliggere a chi nell'ipotesi di un fascismo rinnovatore, miseramente crollato alla prova dei fatti, fermamente aveva creduto.
In questo quadro Gregorio Carruggio continua il suo impegno culturale.
Nel 1925 pubblica una esilissima raccolta di versi di guerra: si tratta di Rapsodia umana, (37) cui tien dietro, nel 1926, un romanzo dal titolo La complice. Romanzo di Corte d'Assise (38) che trae spunto da un dramma passionale tragicamente esploso nel 1923 nella campagna alla periferia di Lecce. Carruggio, rifacendosi alla sua formazione positivista, conduce nel racconto, che meglio si può definire affettuoso documento umano, uno scavo psicologico di estremo interesse in quanto, sulla base dei documenti dibattimentali, attentamente ricostruisce, pur non sfuggendo ad alcune forzature di carattere retorico, quelli che sono i lineamenti etici e sociali della sfortunata protagonista che sta al centro dell'economia drammatica del racconto.
Il riscontro, così com'è stato nell'impetuoso esercizio giornalistico, è sempre con la realtà ed il giudizio scaturisce sa un'analisi dei fatti, di quelli che realmente pongono in essere la vicenda. L'anno successivo, nel 1927, cominciano a vedere la luce, fino al 1933, gli Almanacchi, nella compilazione dei quali Carruggio profonde tutte le sue energie di organizzatore di cultura. Privi di riferimenti politici, anzi con qualche inevitabile indulgenza al regime, frutto più di una situazione oggettiva che di una reale scelta del compilatore, essi propongono, per i loro anni, una problematica culturale ricca di interesse. Ma questo è anche l'anno dei Dialoghi col passato, un libro miscellaneo che, sotto l'aspetto di sintesi esistenziale, diventa, nell'insieme delle motivazioni umane, politiche, culturali che raccoglie, come una sorta di esame di coscienza cui l'autore affida, con animo fermo, la soluzione del proprio passato di intellettuale che, rispetto alla condizione presente, ha da rivendicare i conti fatti con la guerra. Il libro "... è dunque e non altro - il documento di quello che fu il mio pensiero e la mia fede nel periodo tragico - durante il quale era un po' pericoloso pensarla a quel modo e professare quella fede - che va dall'imminente dopoguerra sino a tutto il 1921 ..." (39). Che sia stato pericoloso pensarla in quel modo anche dopo, l'autore non lo dice, per ovvie ragioni di opportunità, ma s'intuisce, più che dall'insieme dei testi raccolti, dall'indicazione puntigliosa dell'anno, 1921, oltre il quale c'è la vittoria del fascismo.
Con Il fratello d'Icaro, otto racconti pubblicati nel 1931 - che meritarono anche un'ottima traduzione francese, (40) Carruggio dà la prova più bella, più letterariamente interessante, delle sue capacità di narratore. Se si sconta subito il pessimismo che pervade tutta la narrazione, si può senz'altro affermare che in questi racconti sono di scena creature le quali, avendo tutto osato, sono state, senza loro colpa, sconfitte dalla vita. Percorre, infatti, i racconti la sottile ed insinuante malia delle cose che potevano o dovevano essere nell'amore e, quando sono state, perché la vita nel flusso dei tanti destini umani è inarrestabile, implacabilmente inarrestabile, sono state nella morte. Di conseguenza, nell'allusività mitologica o esistenziale di racconti come Il fratello d'Icaro o La morte sulle rocce serpeggia come un dolore titanico nelle cui spire avvolgenti l'uomo s'innalza e si perde, perché il punto più alto del suo ideale d'anima è anche quello più basso della sua realtà d'uomo. C'è nella problematica offerta un riferimento autobiografico? Non è da escludere: con il definitivo attestarsi del fascismo sulla scena del Paese, Carruggio s'è reso ormai conto che l'impegno civile gli è precluso per sempre, almeno fino a quando durerà il fascismo. La letteratura in funzione consolatoria, d'altronde, non è che lo appaghi del tutto: da ciò molto probabilmente questa accorata protesta, per così dire, filtrata proprio attraverso la letteratura.
Di questi racconti va sottolineata la precisione del dato linguistico e l'estrema articolazione del fraseggiare, che si presenta largo di rapporti, sostenuto nel lessico puntuale, architettonicamente costruito secondo i modi classici di una coordinazione che s'avvale di tutte le risorse sintattiche, tra le più studiate, per conseguire l'ampiezza della rappresentazione.
Ambiziosamente, ma soprattutto polemicamente, Carruggio, nel 1932, intitola Poetica (41) - riportandosi addirittura ad una categoria estetica una raccolta di versi che datano dal periodo prebellico a tutto il 1930, rigorosamente rispondenti ai canoni tradizionali, quelli della poesia tardottocentesca, nella quale Carruggio aveva, in gioventù, fermamente creduto. E nella quale, d'altronde, continua a credere. Su questa raccolta di versi, ricca peraltro, di spunti esistenziali attraverso i quali il poeta mostra di temperare alcune delle sue originarie convinzioni intorno alla religione, intorno al Cristianesimo anzi, s'innesta una polemica tra Carruggio e Libero Altomare il quale su Vecchio e Nuovo del 4 e del 18 dicembre del 1932 risponde, a nome dei futuristi, al Carruggio il quale nel Discorso sul valore della poesia premesso a Poetica, afferma che "... Disgraziatamente, il destino della grande avventura artistica era riserbato alla Terra di Dante, e come esperimento si chiamò Marinetti ... Occorre, però, esser giusti ed affrettarsi a riconoscere che il futurismo, così nella letteratura come nella pittura, ma più specialmente nella poesia, non nasceva che quale estremo rantolo d'una vitalità agonizzante nell'ultima ora del grande secolo della poesia, mentre all'orizzonte cominciava già a delinearsi l'era della meccanica ... ", e del resto "... Dove vi è del frastuono non vi sarà mai poesia ... ". I toni, forti, del leccese irritano i futuristi i quali, anche per salvaguardare l'ossequio al fascismo, del quale questo futurismo appare come appendice in certo qual modo culturale, decidono di passare al contrattacco. Tocca intervenire a Elemo d'Avila, ma poiché costui tarda a mandare l'articolo si risolve, in sede redazionale, di mandare avanti il primo articolo di Libero Altomare, un intervento acceso al quale Carruggio risponde con un articolo su La Voce del Salento, e poi il secondo, con il quale, da parte di un Altomare visibilmente seccato nella sua sufficienza, la polemica stancamente si chiude. Da osservare c'è, intorno a questo episodio, che la schermaglia fu condotta, da entrambe le parti, con quella convinzione tutta provinciale che chiaramente germogliava non da un dibattito culturale in atto, bensì da un vuoto e stanco rimaneggiamento di motivi polemici, formule culturali, di momenti creativi, che erano stati in auge nel periodo prebellico, nel corso di una autentica vitalità futurista. D'altronde, Carruggio, pur in quegli anni di futurismo, non poteva essere in grado di cogliere l'esatta dimensione di un fenomeno culturale per molti versi interessantissimo, cui tanto la cultura italiana ed europea doveva di rinnovamento (42).
Con I canti della stirpe (43) del 1935 in Italia si respira ormai l'atmosfera che prelude alla conquista dell'impero -, Carruggio realizza una poesia, se così può dirsi, fossile e priva di anima, inautentica e visibilmente scaturita da circostanze episodiche, estranee alla sensibilità del suo autore. Si tratta, tutto sommato, di versi d'occasione con riferimenti al fascismo, in termini ovviamente elogiastici, che sorprendono in un temperamento come Carruggio, strenuo avversario del fascismo. Andrebbe posta l'istanza: un ripensamento o un accomodamento? Malgrado l'impegno mai smesso - in questi anni Carruggio, sia pure guardato con sospetto dalle gerarchie politiche, ha continuato a pubblicare, racconti in prevalenza e qualche studio di carattere locale -, non si può pensare ad un ripensamento e tanto meno ad un accomodamento nel quale non poteva scadere chi in anni nemmeno molto lontani aveva fieramente tenuto testa ai fascisti. E comunque, non è che Carruggio abbia ottenuto, per un qualche ripensamento o per un eventuale accomodamento, il pur minimo vantaggio dal fascismo, che si è limitato a controllarlo lasciandolo ai margini. Diciamo pure che si tratta, per il fascicoletto di versi nei quali magari può essere adombrata una certa fierezza nazionalistica, di versi d'occasione: infatti, al di là dei metri del tutto sorpassati, eccessivamente classicheggianti, di un classicismo stantio, prodotto da un linguaggio freddamente colto e distante, resta la sclerosi di una volontà di poesia che non produce alcuna conseguenza. Tanto che la soluzione del dilemma -ripensamento o accomodamento? - è naturalmente fornita dalla valutazione in sede critica laddove s'avverte che nella silloge non c'è alcun sentimento, alcuna spinta interiore che possa far pensare ad una adesione, di qualsiasi tipo, al fascismo.
Diverso è il caso della Storia di Lecce, (44) del 1936, con la quale Carruggio, infine, pone termine alla sua parabola produttiva. Ed è bello pensare che Carruggio chiuda il suo tormentato e contrastato impegno culturale con quello che può essere considerato un atto di amore verso la città nella quale tale impegno, almeno sul piano politico-letterario, ha visto momenti di notevole tensione e di altrettanto notevole partecipazione.
La Storia, per quanto affidata, nella sua elaborazione, ai presupposti cui si è fatto cenno, risponde con sufficiente organicità di narrazione ai dati oggettivi che Carruggio, tuttavia, adegua alla propria sensibilità ed alla propria cultura. Ne vien fuori un racconto mosso, ricco di nuances dalle quali tutta una somma di personaggi, leggendari e reali, assumono evidenza di poesia. Certo, proprio per questo non mancano in questa Storia inesattezze ed esagerazioni - l'inevitabile prezzo da pagare ad un racconto storico impostato nel modo di Carruggio -puntualmente rilevate in sede di recensione, (45) ma tutto ciò nulla toglie ad un racconto che, come atto d'amore, vuole essere, e lo è, un impegno di poesia.
Poi un quasi assoluto silenzio, amaramente sottolineato da una indigenza alla quale, comunque, Carruggio è abituato. Anche questo è un prezzo che i dissidenti di ogni tipo debbono pagare! In una città che, sempre con linda compostezza, partecipa al clima ufficiale nel quale cominciano ad agitarsi i fantasmi sinistri dell'imminente conflitto Carruggio è ormai un isolato: drammatiche vicissitudini personali lo tengono ai margini di una vita sociale sempre più asfittica per il conformismo che la pervade. In una tal situazione il silenzio - che sarà interrotto sul piano dell'intervento giornalistico dopo la caduta del fascismo - è non una condanna, ma una forma di dignitosa autodifesa, l'unica che è riservata agli spiriti pensosi, a quei fratelli d'Icaro cui Carruggio aveva dedicato pagine esemplari.
(in una luminosa mattina leccese di primavera, alla fine degli Anni Cinquanta, da una tranquilla piazzetta che ha per sfondo una stupenda chiesa barocca di fronte alla quale liete stormiscono alcune palme, ci venne incontro, dignitoso nella sua estrema povertà, un uomo sul cui volto si leggeva, tra le rughe, al di là di un sorriso dimesso, tutta la somma delle amare esperienze che possono pesare sulla sensibilità di chi ha lottato ed è stato sconfitto. Ci accompagnammo per un tratto di strada, quasi in silenzio. Poi l'uomo ci chiese qualcosa ... Così si presentava allora Gregorio Carruggio. In seguito, della sua morte, quasi nessuno s'accorse! Anche questo, talvolta, può essere un segno della Storia che passa.)


NOTE
1 - P. MICCOLIS in La Voce del Salento, II dicembre 1930-IX
2 - T. FIORE, Un popolo di formiche Bari, G. Laterza e Figli, 1951, p. 110.
3 - Un accenno molto sommario, di biografia in Nuovo Annuario di Terra d'Otranto; I. Galatina, Pajano Editore, 1957, p. 340. Seguono due racconti di Carruggio, Il cavallo di Arnulfo e Miserere Quest'ultimo già pubblicato in Il fratello d'Icaro.
4 - G. CARRUGGIO, L'uomo e le religioni. Seguito dal Discorso sul valore della vita Lecce, Casa Edit. dell'Italia Meridionale 1921, p. 10 e sgg.
5 - D. VALLI, La cultura letteraria nel Salento (1860-1950) Lecce, Edizioni Milella, 1971, p. 28.
6 - G. CARRUGGIO, L'uomo e le religioni cit., p. 3.
7 - T. FIORE, Formiconi di Puglia. Vita e cultura in Puglia (1900-1945). Manduria, Lacaita Editore, 1963, p. 40.
8 - G. CARRUGGIO, Vagiti. Versi. Lecce, R. Tip. Ed. Sal. F.lli Spacciante, 1910, pp. 55.
9 - G. CARRUGGIO, La canzone di Gesù Livorno, Ed. "La Prora", 1912.
10 -G. CARRUGGIO, A Giordano Bruno nel III secolo e XIII anno di suo rogo. Conferenza tenuta a Lecce la sera del XVI febbraio MCMXIII nei locali del nuovo Circolo filodrammatico operaio "P. Gori". Lecce, R. Tipografia Ed. Salentina Fratelli Spacciante, 1913. Biblioteca del Circolo Filodrammatico Operaio "P. Gori" - N. 2. Questo Circolo aveva sede, a Lecce, al n° 12 del Largo Vetere, una ariosa piazzetta del centro storico. Le commemorazioni di Giordano Bruno furono particolarmente intense in quell'anno 1913. Il 23 febbraio, infatti, il martire nolano fu commemorato nei locali della Lega Muratori dal giovane Luigi Razza. Scrissero, inoltre, R. D'Ambrosio, Per Giordano Bruno in Il Tribuno Salentino del I marzo e R.M., Pel 17 febbraio. Verso il vero in La Democrazia del 14-15 febbraio.
11 - P. TAPINO , Biografia di "Piero Delfino Pesce". Sull'azione politica e culturale del
combattivo intellettuale di Mola di Bari fornisce rapidi ma efficaci spunti, in un con testo storiografico di ampio respiro, S. COLARIZI, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926). Prefazione di Renzo De Felice. Bari, Editori Laterza, 1971.
12 - F GRASSI in T. FIORE, Scritti politici 1915-1926 A cura e con introduzione di Fabio Grassi. Bari, De Donato Editore, 1980, p. 27.
13 - G. CARRUGGIO, Poetica (1910-1930) col Discorso sul valore della poesia Lecce, Stab. Tip. F. Scorrano & C., 1932-X, p. 13.
14 -G. CARRUGGIO, A Giordano Bruno cit., p. 51.
15 - G. CARRUGGIO, Nel crepuscolo (Versi). Bari, Editrice Società Cooperativa, 1915.
16 - Sta in G. CARRUGGIO, Il fratello d'Icaro. Lecce, Editrice "L'Italia Meridionale", 1931 -VIII. In precedenza era stato compreso in G. CARRUGGIO, Dialoghi col passato. Lecce, Editrice "L'Italia Meridionale", 1927.
17 - H. KRASS, Storia di Lecce. Traduzione dal tedesco con note a cura di Gregorio Carruggio. Bari, Editori Laterza & Polo, 1936-XVI, p. 16.
18 - G. CARRUGGIO, Rapsodia umana Versi. Lecce, Tip. "La Modernissima", 1925. Quest'opuscolo fu dato alle stampe e venduto a beneficio del costruendo monumento dei caduti in guerra di Lecce. Fu ripubblicato, con un commento musicale ad ogni composizione ad opera di Luigi Maggio, nell'Almanacco IL SALENTO. Rassegna annuale della vita e del pensiero salentino. Vol. VI° per l'anno 1932 compilata da Gregorio Carruggio, Lecce, Editrice "L'Italia Meridionale". Ma già nel 1927 la Rapsodia umana era stata ripubblicata in Dialoghi col passato cit.
19 - G. CARRUGGIO, L'uomo e le religioni cit., p. 24.
20 - Ivi, p. 22.
21 - G. CARRUGGIO, Il sole di Vittorio Veneto. Conferenza commemorativa del primo anniversario della Vittoria, tenuta il 4 novembre 1919 al Teatro Comunale di Salò per invito di quel Municipio. Altrove Carruggio, con animo colmo di esaltazione parla di "titanica lotta".
22 - La conferenza fu tenuta agli ufficiali del Presidio Militare di Salò - 225° Fanteria - per incarico del Comando di C. d. 'A. di Brescia ed alla presenza del Generale Ottolenghi. E' riportata, come Il sole di Vittorio Veneto, in G. CARRUGGIO, Dialoghi col passato cit.
23 - G. CARRUGGIO, Il sole di Vittorio Veneto cit.
24 - Dalla conferenza per l'anniversario della vittoria, a pag. 59 di Dialoghi col passato.
25 - G. CARRUGGIO, Un'ora tragica del dopo guerra. Lettera a S. E. Wilson publicata su Il Cittadino di Brescia nell'agosto del 1920. Anche in Dialoghi col passato cit. II brano citato è a pag. 74.
26 - G. CARRUGGIO, Per un governo dei combattenti in L'Italia Meridionale Lecce, settembre 1920. Anche in Dialoghi col passato cit., p. 97.
27 - Ivi, p. 97.
28 - F. GRASSI in M. DE GIORGI - C. NASSISI, Antifascismo e lotte di classe nel Salento (1943-47). Documenti dell'archivio Vito Mario Stampacchia, con una introduzione di FABIO GRASSI. Lecce, Ed. MiIella, 1979, p. 14. Per il "combattentismo" cfr. anche F. GRASSI, in T, FIORE, Scritti politici cit.
29 - G. CARRUGGIO in L'Italia Meridionale del 13 marzo 1921, dove, rifacendosi all'idea di socialismo ne rimpiange le origini cristiane.
30 - G. CARRUGGIO, Vampate d'odio in L'Italia Meridionale del 3 luglio 1920 ed anche in Dialoghi col passato pp. 81-82.
31 - G. CARRUGGIO, Il martirio fiumano in L'Italia Meridionale del dicembre 1920 gennaio 1921 ed anche in Dialoghi col passato cit., p. 100.
32 - G. CARRUGGIO, Torbidi episodi di sangue e di lotta civile in L'Italia Meridionale gennaio 1921.
33 - Ivi.
34 - E. BAMBI, Stampa e società nel Salento fascista con una introduzione di Mario Isnenghi Manduria, Lacaita Editore, 1981. In quest'opera, di notevolissimo livello storiografico, la vicenda delle due fasi de L'Italia Meridionale è diffusamente raccontata con puntualizzazioni storiche e critiche estremamente calzanti.
35 - E. BAMBI cit., p. 231.
36 - D. VALLI, La cultura letteraria cit., p. 32.
37 - G. CARRUGGIO, Rapsodia umana cit.
38 - G. CARRUGGIO, La Complice. Romanzo di Corte d'Assise Lecce, Ed. Bortone e Miccoli, 1926, pp. 131-XLIX.
39 - G. CARRUGGIO, Dialoghi col passato cit., p. II
40 - G. CARRUGGIO, Il fratello d'Icaro. Racconti meravigliosi delle vicende tra l'uomo egli uomini Lecce, Editrice "L'Italia Meridionale", 1931-VIII. Traduzione francese: Le frère d'Icare. Récits merveilieux des événements entre l'homme et les hommes. Traduits de l'italien par L. Rhodio. A proposito di questa raccolta di racconti il Croce, tra gli altri, sostenne che "Da un quinquennio in qua in questo genere di letteratura non è stato scritto e pubblicato libro migliore di questo". Una lusinghiera recensione gli dedicò su Vecchio e Nuovo v. I n° 3 novembre 1930-XI, alv. (Ernesto Alvino). Sempre su Vecchio e Nuovo v. II n° 2-3 febbraio-marzo 1931 IX, Carruggio riprende il discorso su Oscar Wilde, affrontato nel terzo racconto de Il fratello d'Icaro con un articolo intitolato Il poeta del rimorso. Questa insistenza sul poeta inglese fornisce un'altra traccia per individuare le scelte culturali di Carruggio.
41 - G. CARRUGGIO, Poetica cit.
42 - La polemica antifuturista di Carruggio, in realtà, pur datata, ripresa nel 1944 a proposito della necessità della revisione delle Antologie scolastiche, indica ancora una volta i presupposti di pericolosità, sul piano politico, che il leccese aveva intravisto nel l'ideologia marinettiana la quale, per più di qualche verso, aveva agevolato il cammino al fascismo guerrafondaio.
43 - G. CARRUGGIO, I canti della stirpe Milano, Casa Editrice Quaderni di Poesia, 1935.
44 - H. KRASS cit. Già, comunque, era apparsa una guida di Lecce redatta dal Carruggio in collaborazione: TUMMARELLO-CARRUGGIO, Guida di Lecce (Arte - Storia Industrie -Commerci) 1929. Lecce, Editrice "L'Italia Meridionale", 1929. In questa guida, per come è stesa, s'avverte lo studioso di buona tempra.
45 - VACCA, N., rec. a H. KRASS, Storia di Lecce cit., in Rinascenza Salentina, a. IV, pp. 62-64.


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