Ora c'è la
guerra delle attribuzioni e delle identificazioni. Il primo a dire la
sua, anche se di fronte al ristretto pubblico di un congresso archeologico
a Delfi, è stato l'illustre studioso tedescofederale Werner Fuchs.
Per lui non ci sono ombre di dubbio: si tratta di due eroi del donario
di Maratona a Delfi. E cioè, del donario che gli Ateniesi offrirono
al santuario di Delfi dopo la vittoria contro i Persiani dei 490 prima
di Cristo. Dunque: si tratterebbe di due opere di Fidia, lo scultore
del Partenone, il massimo artista della Grecia classica.
Della stessa idea è Antonio Giuliano, professore di Archeologia
e Storia dell'Arte Antica all'Università di Roma. "Sono
sicuramente originali greci. E per motivi iconografici, formali, stilistici,
sono databili tra il 460 e il 450 avanti Cristo. Perché? Ma per
il trattamento dell'anatomia, delle teste, per certe annotazioni singolari,
come i capezzoli di rame, i denti d'argento, gli occhi d'avorio, che
li assimilano all'Auriga di Delfi. E quanto all'autore, non ci possono
essere dubbi. O siamo davanti a due bronzi di Onatas, lo scultore di
Egina, o siamo davanti a due bronzi di Fidia. lo penso a Fidia. Anzi,
l'ho anche scritto, più di un anno fa".
Basta leggere Pausania, (X. 10. 1), spiega ancora. L'autore parla del
donario fatto dagli Ateniesi a Delfi con la "decima" della
vittoria di Maratona, e "formato da tredici figure, da un'Atena,
da un Apollo, da un Milziade e da dieci eroi attici": con ogni
probabilità, si trattava degli eroi eponimi delle tribù.
"Statue di questa importanza non possono essere state ignorate
dalle fonti. Non c'è che da leggerle, e allora non è necessario
essere Sherlok Holmes per scoprire da dove vengono. Si prendono le impronte
dei piedi dei due bronzi, e si va in Grecia, dove si ritiene che le
statue fossero collocate, e si accerta se aderiscono alle basi".
Elementare. Eppure, a otto anni di distanza dal ritrovamento, questo
non è stato ancora fatto, se non altro per mettere un freno alle
fantasie.
Ma c'è anche chi getta acqua sul fuoco. Per esempio, Enrico Paribeni,
professore di Archeologia all'Università di Firenze, il quale
pensa addirittura che i due bronzi non siano coevi, (quello ricciuto
sarebbe effettivamente del quinto secolo avanti Cristo, cioè
dell'età di Fidia; ma il secondo sarebbe più recente,
databile precisamente all'inizio del quarto secolo). Quanto a Fidia,
a Paribeni l'attribuzione proprio non piace. Perché? "Per
ragioni formali, stilistiche. Perché Fidia non lavorava spesso
nel bronzo. Perché in definitiva, le cose sono molto più
complesse".
Molto più pacati e prudenti sono anche a Reggio Calabria, che
grazie ai due guerrieri, Fidia o non Fidia, grancassa di Firenze o meno,
potrà - se lo saprà, come c'è da augurarsi - diventare
uno del quattro o cinque centri archeologici più importanti della
Magna Grecia, accanto a Paestum, ad Agrigento e a Siracusa, e accanto
a Taranto. "L'attribuzione - dicono alla Soprintendenza - l'attribuzione
a un autore è molto difficile, ma non è questo il problema
principale".
Ma intanto, le due più straordinarie statue greche rinvenute
in Italia fino a questo momento (e rimasteci, per ora, anziché
seguire la brillante carriera californiana del Lisippo, acquistato dal
Getty Museum di Malibu) sono ancora oggi "sciaguratamente inedite",
come dice Antonio Giuliano. Non sarebbe male se, in questo dramma delle
gelosie tra Soprintendenze e grandi esperti, continuando a immergersi
e a ricercare a nord e a sud del mare di Riace, si scoprissero altre
cose. Che sembra proprio ci siano (ed è recente la notizia della
scoperta, proprio infondo a questo mare, di una grande macina).
Tornando ai nostri eroi, dunque, nulla è dato sapere con certezza,
se non che si tratta di reperti di così perfetta qualità,
da muoverci a riconsiderare, grazie anche alla esempiarità del
restauro tutta l'immensa letteratura sulla statuaria classica, (con
l'augurio, a parte, che nel tempo a venire i nostri Conservatori non
ci facciano troppo rimpiangere l'ideale sicurezza "museologica"
dei fondali marini). Qualcuno si è chiesto addirittura, non senza
qualche ragione, che cosa sarebbe stato se Donatello o Michelangelo
avessero conosciuto le due opere. In effetti, non è ozioso domandarsi
quale variazione di corso avrebbe potuto avere lo stesso Rinascimento
se - come scrive Silvano Giannelli - alle famose invenzioni archeologiche
che gli dettero principio e crescita, si fossero aggiunti i due trionfali
documenti di Riace.
L'unica nota sicura - per solare e immediata evidenza - è di
carattere critico, intuitiva e poetica: queste statue stanno al culmine
dell'arte greca. Non vale disquisire fra bello sub specie corporis e
bello sub specie animi; non serve analizzare positura, muscolatura,
modellato, potenza dello sguardo, energia delle membra, ampiezza di
respiro, meravigliosa ubiquità dei bronzi, in uno spazio interamente
posseduto. Essi sembrano emersi apposta per testimoniare quella "nobile
semplicità e serena superiorità" in cui consiste,
secondo il Winckelmann, l'espressione più profonda e vera dello
spirito ellenico. Perché qui siamo nel punto più decisivo
e suggestivo dell'arte greca, ossia alla confluenza aurea fra arcaico
e classico. "Ciascuno di voi si dolga di morire senza aver veduto
lo Zeus di Fidia", ammonisce un detto di Epitteto. Ebbene, sarebbe
facile tradurre le sue parole nel comando a non lasciarsi sfuggire un
emozionante faccia a faccia con i due giganti di Riace, almeno per chi
voglia toccare con gli occhi quale supremo livello attinse la scultura
greca nella sua stupenda prefigurazione della divina pienezza della
persona umana, cinque secoli prima dell'avvento di Cristo!
E torniamo ad alcune ipotesi. Il mitico nome di Fidia, del purtroppo
per noi "inesistente" Fidia (o quello, in subordine, di qualcuno
della sua cerchia), è stato fatto subito. Ma resta solo un'ipotesi
(pur se legata ai nomi autorevoli del Fucks e del maggiore allievo dei
Bianchi Bandinelli), suffragata appena dal fatto che le due statue sono
sicuramente "attiche" e risalgono probabilmente alla metà
del quinto secolo. Eppure, per molti altri studiosi le cose starebbero
in modo diverso. Per Enrico Paribeni, ad esempio, Fidia non c'entrerebbe
affatto, e le statue non sarebbero coeve, come abbiamo già detto.
Dunque: siamo di fronte a una "questione omerica", per intenderci,
applicata alla scultura?
Allo stato dei fatti, al di là anche della girandola di ipotesi
sulla paternità (tuttavia, una girandola indispensabile agli
studiosi), è importante registrare la naturale sorpresa e lo
stupore vivo, perfino commosso, che tralucono dagli acchi, dall'atteggiamento,
dalle parole e dal silenzio di quanti (e sono già centinaia di
migliaia, giovani e meno giovani, istruiti e no) si sono in poco tempo
succeduti a spiare con umiltà di cuore il mistero affascinante
di una bellezza così remota, eppure così attuale e sconvolgente.
La cosa da sottolineare è la spontaneità del concorso
e del consenso - "popolari" nel senso non retorico della parola
- che le due statue hanno determinato con il loro richiamo. Una volta
tanto si è potuto avvertire come il successo reale di una manifestazione
culturale non dipenda dal clamore di un lancio pubblicitario recepito
passivamente, ma salga e si slarghi dal basso, come una linfa vitale.
Parleremmo senza falsi pudori di "entusiasmo" nella precisa
accezione platonica: quasi un dio lucido e calmo che urge dentro e comunica
naturalmente, senza magia, l'ardore segreto e il calor bianco di una
verità non occasionale, di una libertà non condizionata.
Quello che si è susseguito a Firenze e in seguito nella capitale
e che riteniamo continuerà a manifestarsi nella legittima e definitiva
sede calabrese (se si tratti di Reggio Calabria o di Riace ancora non
è dato sapere), è un fenomeno umano che conforta l'osservatore
insofferente di mistificazioni. in che modo strapparne il senso? In
riva al fiume Arno, dove il mito neoplatonico è sempre duro a
morire, possono ancora soccorrerci le parole lontane di Marsilio Ficino:
"La Bellezza è un certo splendore che l'Animo a sé
rapisce". Maiuscole a parte, questo prodigio può ben succedere.
Tant'è che succede, si verifica ancora ai nostri giorni: per
un dono, gratuito e necessario, che si rinnova, quasi per assurdo, nonostante
tutto. Nonostante l'indegnità, il demerito, le colpe, i delitti,
i misfatti, le vergogne e le infamie - in campo estetico e no - che
ci vengono giorno per giorno implacabilmente rinfacciati dallo specchio
della nostra cosiddetta civiltà moderna.
Se il mare custodisce ancora immensi tesori, sottoterra, scrive Sabatino
Moscati, c'è ancora un grande archivio. E una parte di questo
archivio cominciamo a leggerlo nel roccione di Lipari, "che si
leva a dominare l'isola come una fortezza inespugnabile": qui si
cela un segreto milienario. Per ben nove metri di profondità,
gli strati archeologici si scaglionano senza interruzione, conservando
intatte e regolarmente stratificate le testimonianze di tutte le civiltà
succedutesi nelle Eolie. E' un vero e proprio "archivio sepolto":
a mano a mano che gli archeologi scendono nel terreno, emergono testimonianze
sempre più antiche, fino a raggiungere un'epoca che si aggira
intorno al 4000 avanti Cristo.
Per ampiezza, per continuità, per significato di documentazione,
è una scoperta straordinaria, senza confronti. Ma non è
la scoperta di un solo giorno, né di una singola intuizione:
per realizzarla, occorrevano un'applicazione di ricerca ininterrotta,
una perfezione tecnica esemplare, una dottrina vastissima capace al
tempo stesso di valutare in sé anche il più piccolo reperto
e di inquadrarlo a largo raggio nelle dimensioni di un confronto mediterraneo.
"Forse - scrive Moscati -un solo studioso poteva realizzare quest'impresa
in Italia". E infatti, è colui che l'ha realizzata, Luigi
Bernabò Brea.
Gli è stata al fianco, nel lungo lavoro, Madelein Cavalier. E
insieme hanno presentato al pubblico i tre monumentali volumi che si
intitolano "L'acropoli di Lipari nella preistoria." L'opera,
a sua volta, è parte di una serie di indagini dedicate a Lipari,
("Meligunìs Lipàra", secondo il nome greco dell'isola),
che appaiono sotto gli auspici del Museo Eoliano: altre trattazioni
hanno a oggetto zone archeologiche diverse della stessa Lipari e delle
Eolie. Chi dubita delle sorti dell'archeologia italiana, e chi passa
il tempo a discettare su cosa siano e come si facciano le ricerche,
anche le più difficili e complesse, troverà in queste
pagine una serie di risposte eloquenti e concrete.
Ma visto che il materiale è ormai disponibile, e possono fondatamente
aprirsi i problemi che ne conseguono, che cosa dimostrano in definitiva
le scoperte? E in quale modo illuminano la nostra e l' altrui preistoria,
nel nostro Paese e fuori dai nostri confini?
Ebbene, sostiene Moscati, "la ragione prima della floridezza di
Lipari fin dall'età più antica, il motivo dell'irradiazione
dei suoi commerci lungo tutte le sponde mediterranee, sta in un prodotto
di origine vulcanica che vi è tipico, l'ossidiana". Questo
vetro naturale, derivante da colate acide di lava, ha una proprietà
speciale: pur essendo duro e resistente come la pietra, può essere
scheggiato assai meglio, e quindi più facilmente adattato a formare
strumenti da taglio. Supera insomma, nell'età della pietra, le
proprietà della pietra stessa.
Accade dunque, e gli scavi lo testimoniano ampiamente e in modo inequivocabile,
che le isole Eolie si affermino in piena preistoria come il centro di
un vasto commercio mediterraneo. Una prima fase si realizza intorno
al 4000 avanti Cristo, quando l'ossidiana risulta esportata verso Occidente.
Una seconda fase si svolge tra il 1900 e il 1800 avanti Cristo, quando
il traffico si svolge verso Oriente. Ne sono protagoniste le genti micenee,
che controllano con le loro navi le rotte convergenti intorno allo Stretto
di Messina e a sud della Penisola Salentina. E le navi recano via via
popoli diversi, ai quali corrispondono specifiche fasi: cultura di Capo
Graziano, cultura del Milazzese, Ausonio I, Ausonio II, sono le grandi
articolazioni archeologiche e cronologiche che i reperti chiaramente
documentano.
Quindi, intorno al 900 avanti Cristo, un violento incendio chiude per
qualche secolo la vicenda di Lipari. Le abitazioni crollano e non vengono
subito ricostruite. Bisogna attendere il 580 perché i Greci si
insedino sulla rocca e cominci una nuova fase ormai pienamente storica.
L'ossidiana serve sempre di meno, nell'avanzata epoca dei metalli. Resta
la straordinaria prosperità che le eruzioni vulcaniche recano
alle Eolie, oltre, s'intende, alle distruzioni che periodicamente le
sconvolgono. Le pie donne dell'isola hanno pensato da secoli a raccomandarsi
a San Calogero, facendo voto di non bere più vino purché
le eruzioni non si ripetano; e nel Cinquecento uno scrittore attesta
che il voto era mantenuto ancora. Ma poi?

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