Quel messaggio di 25 secoli fa




Enrico Surdo



Ora c'è la guerra delle attribuzioni e delle identificazioni. Il primo a dire la sua, anche se di fronte al ristretto pubblico di un congresso archeologico a Delfi, è stato l'illustre studioso tedescofederale Werner Fuchs. Per lui non ci sono ombre di dubbio: si tratta di due eroi del donario di Maratona a Delfi. E cioè, del donario che gli Ateniesi offrirono al santuario di Delfi dopo la vittoria contro i Persiani dei 490 prima di Cristo. Dunque: si tratterebbe di due opere di Fidia, lo scultore del Partenone, il massimo artista della Grecia classica.
Della stessa idea è Antonio Giuliano, professore di Archeologia e Storia dell'Arte Antica all'Università di Roma. "Sono sicuramente originali greci. E per motivi iconografici, formali, stilistici, sono databili tra il 460 e il 450 avanti Cristo. Perché? Ma per il trattamento dell'anatomia, delle teste, per certe annotazioni singolari, come i capezzoli di rame, i denti d'argento, gli occhi d'avorio, che li assimilano all'Auriga di Delfi. E quanto all'autore, non ci possono essere dubbi. O siamo davanti a due bronzi di Onatas, lo scultore di Egina, o siamo davanti a due bronzi di Fidia. lo penso a Fidia. Anzi, l'ho anche scritto, più di un anno fa".
Basta leggere Pausania, (X. 10. 1), spiega ancora. L'autore parla del donario fatto dagli Ateniesi a Delfi con la "decima" della vittoria di Maratona, e "formato da tredici figure, da un'Atena, da un Apollo, da un Milziade e da dieci eroi attici": con ogni probabilità, si trattava degli eroi eponimi delle tribù. "Statue di questa importanza non possono essere state ignorate dalle fonti. Non c'è che da leggerle, e allora non è necessario essere Sherlok Holmes per scoprire da dove vengono. Si prendono le impronte dei piedi dei due bronzi, e si va in Grecia, dove si ritiene che le statue fossero collocate, e si accerta se aderiscono alle basi".
Elementare. Eppure, a otto anni di distanza dal ritrovamento, questo non è stato ancora fatto, se non altro per mettere un freno alle fantasie.
Ma c'è anche chi getta acqua sul fuoco. Per esempio, Enrico Paribeni, professore di Archeologia all'Università di Firenze, il quale pensa addirittura che i due bronzi non siano coevi, (quello ricciuto sarebbe effettivamente del quinto secolo avanti Cristo, cioè dell'età di Fidia; ma il secondo sarebbe più recente, databile precisamente all'inizio del quarto secolo). Quanto a Fidia, a Paribeni l'attribuzione proprio non piace. Perché? "Per ragioni formali, stilistiche. Perché Fidia non lavorava spesso nel bronzo. Perché in definitiva, le cose sono molto più complesse".
Molto più pacati e prudenti sono anche a Reggio Calabria, che grazie ai due guerrieri, Fidia o non Fidia, grancassa di Firenze o meno, potrà - se lo saprà, come c'è da augurarsi - diventare uno del quattro o cinque centri archeologici più importanti della Magna Grecia, accanto a Paestum, ad Agrigento e a Siracusa, e accanto a Taranto. "L'attribuzione - dicono alla Soprintendenza - l'attribuzione a un autore è molto difficile, ma non è questo il problema principale".
Ma intanto, le due più straordinarie statue greche rinvenute in Italia fino a questo momento (e rimasteci, per ora, anziché seguire la brillante carriera californiana del Lisippo, acquistato dal Getty Museum di Malibu) sono ancora oggi "sciaguratamente inedite", come dice Antonio Giuliano. Non sarebbe male se, in questo dramma delle gelosie tra Soprintendenze e grandi esperti, continuando a immergersi e a ricercare a nord e a sud del mare di Riace, si scoprissero altre cose. Che sembra proprio ci siano (ed è recente la notizia della scoperta, proprio infondo a questo mare, di una grande macina).
Tornando ai nostri eroi, dunque, nulla è dato sapere con certezza, se non che si tratta di reperti di così perfetta qualità, da muoverci a riconsiderare, grazie anche alla esempiarità del restauro tutta l'immensa letteratura sulla statuaria classica, (con l'augurio, a parte, che nel tempo a venire i nostri Conservatori non ci facciano troppo rimpiangere l'ideale sicurezza "museologica" dei fondali marini). Qualcuno si è chiesto addirittura, non senza qualche ragione, che cosa sarebbe stato se Donatello o Michelangelo avessero conosciuto le due opere. In effetti, non è ozioso domandarsi quale variazione di corso avrebbe potuto avere lo stesso Rinascimento se - come scrive Silvano Giannelli - alle famose invenzioni archeologiche che gli dettero principio e crescita, si fossero aggiunti i due trionfali documenti di Riace.
L'unica nota sicura - per solare e immediata evidenza - è di carattere critico, intuitiva e poetica: queste statue stanno al culmine dell'arte greca. Non vale disquisire fra bello sub specie corporis e bello sub specie animi; non serve analizzare positura, muscolatura, modellato, potenza dello sguardo, energia delle membra, ampiezza di respiro, meravigliosa ubiquità dei bronzi, in uno spazio interamente posseduto. Essi sembrano emersi apposta per testimoniare quella "nobile semplicità e serena superiorità" in cui consiste, secondo il Winckelmann, l'espressione più profonda e vera dello spirito ellenico. Perché qui siamo nel punto più decisivo e suggestivo dell'arte greca, ossia alla confluenza aurea fra arcaico e classico. "Ciascuno di voi si dolga di morire senza aver veduto lo Zeus di Fidia", ammonisce un detto di Epitteto. Ebbene, sarebbe facile tradurre le sue parole nel comando a non lasciarsi sfuggire un emozionante faccia a faccia con i due giganti di Riace, almeno per chi voglia toccare con gli occhi quale supremo livello attinse la scultura greca nella sua stupenda prefigurazione della divina pienezza della persona umana, cinque secoli prima dell'avvento di Cristo!
E torniamo ad alcune ipotesi. Il mitico nome di Fidia, del purtroppo per noi "inesistente" Fidia (o quello, in subordine, di qualcuno della sua cerchia), è stato fatto subito. Ma resta solo un'ipotesi (pur se legata ai nomi autorevoli del Fucks e del maggiore allievo dei Bianchi Bandinelli), suffragata appena dal fatto che le due statue sono sicuramente "attiche" e risalgono probabilmente alla metà del quinto secolo. Eppure, per molti altri studiosi le cose starebbero in modo diverso. Per Enrico Paribeni, ad esempio, Fidia non c'entrerebbe affatto, e le statue non sarebbero coeve, come abbiamo già detto. Dunque: siamo di fronte a una "questione omerica", per intenderci, applicata alla scultura?
Allo stato dei fatti, al di là anche della girandola di ipotesi sulla paternità (tuttavia, una girandola indispensabile agli studiosi), è importante registrare la naturale sorpresa e lo stupore vivo, perfino commosso, che tralucono dagli acchi, dall'atteggiamento, dalle parole e dal silenzio di quanti (e sono già centinaia di migliaia, giovani e meno giovani, istruiti e no) si sono in poco tempo succeduti a spiare con umiltà di cuore il mistero affascinante di una bellezza così remota, eppure così attuale e sconvolgente. La cosa da sottolineare è la spontaneità del concorso e del consenso - "popolari" nel senso non retorico della parola - che le due statue hanno determinato con il loro richiamo. Una volta tanto si è potuto avvertire come il successo reale di una manifestazione culturale non dipenda dal clamore di un lancio pubblicitario recepito passivamente, ma salga e si slarghi dal basso, come una linfa vitale. Parleremmo senza falsi pudori di "entusiasmo" nella precisa accezione platonica: quasi un dio lucido e calmo che urge dentro e comunica naturalmente, senza magia, l'ardore segreto e il calor bianco di una verità non occasionale, di una libertà non condizionata.
Quello che si è susseguito a Firenze e in seguito nella capitale e che riteniamo continuerà a manifestarsi nella legittima e definitiva sede calabrese (se si tratti di Reggio Calabria o di Riace ancora non è dato sapere), è un fenomeno umano che conforta l'osservatore insofferente di mistificazioni. in che modo strapparne il senso? In riva al fiume Arno, dove il mito neoplatonico è sempre duro a morire, possono ancora soccorrerci le parole lontane di Marsilio Ficino: "La Bellezza è un certo splendore che l'Animo a sé rapisce". Maiuscole a parte, questo prodigio può ben succedere. Tant'è che succede, si verifica ancora ai nostri giorni: per un dono, gratuito e necessario, che si rinnova, quasi per assurdo, nonostante tutto. Nonostante l'indegnità, il demerito, le colpe, i delitti, i misfatti, le vergogne e le infamie - in campo estetico e no - che ci vengono giorno per giorno implacabilmente rinfacciati dallo specchio della nostra cosiddetta civiltà moderna.
Se il mare custodisce ancora immensi tesori, sottoterra, scrive Sabatino Moscati, c'è ancora un grande archivio. E una parte di questo archivio cominciamo a leggerlo nel roccione di Lipari, "che si leva a dominare l'isola come una fortezza inespugnabile": qui si cela un segreto milienario. Per ben nove metri di profondità, gli strati archeologici si scaglionano senza interruzione, conservando intatte e regolarmente stratificate le testimonianze di tutte le civiltà succedutesi nelle Eolie. E' un vero e proprio "archivio sepolto": a mano a mano che gli archeologi scendono nel terreno, emergono testimonianze sempre più antiche, fino a raggiungere un'epoca che si aggira intorno al 4000 avanti Cristo.
Per ampiezza, per continuità, per significato di documentazione, è una scoperta straordinaria, senza confronti. Ma non è la scoperta di un solo giorno, né di una singola intuizione: per realizzarla, occorrevano un'applicazione di ricerca ininterrotta, una perfezione tecnica esemplare, una dottrina vastissima capace al tempo stesso di valutare in sé anche il più piccolo reperto e di inquadrarlo a largo raggio nelle dimensioni di un confronto mediterraneo. "Forse - scrive Moscati -un solo studioso poteva realizzare quest'impresa in Italia". E infatti, è colui che l'ha realizzata, Luigi Bernabò Brea.
Gli è stata al fianco, nel lungo lavoro, Madelein Cavalier. E insieme hanno presentato al pubblico i tre monumentali volumi che si intitolano "L'acropoli di Lipari nella preistoria." L'opera, a sua volta, è parte di una serie di indagini dedicate a Lipari, ("Meligunìs Lipàra", secondo il nome greco dell'isola), che appaiono sotto gli auspici del Museo Eoliano: altre trattazioni hanno a oggetto zone archeologiche diverse della stessa Lipari e delle Eolie. Chi dubita delle sorti dell'archeologia italiana, e chi passa il tempo a discettare su cosa siano e come si facciano le ricerche, anche le più difficili e complesse, troverà in queste pagine una serie di risposte eloquenti e concrete.
Ma visto che il materiale è ormai disponibile, e possono fondatamente aprirsi i problemi che ne conseguono, che cosa dimostrano in definitiva le scoperte? E in quale modo illuminano la nostra e l' altrui preistoria, nel nostro Paese e fuori dai nostri confini?
Ebbene, sostiene Moscati, "la ragione prima della floridezza di Lipari fin dall'età più antica, il motivo dell'irradiazione dei suoi commerci lungo tutte le sponde mediterranee, sta in un prodotto di origine vulcanica che vi è tipico, l'ossidiana". Questo vetro naturale, derivante da colate acide di lava, ha una proprietà speciale: pur essendo duro e resistente come la pietra, può essere scheggiato assai meglio, e quindi più facilmente adattato a formare strumenti da taglio. Supera insomma, nell'età della pietra, le proprietà della pietra stessa.
Accade dunque, e gli scavi lo testimoniano ampiamente e in modo inequivocabile, che le isole Eolie si affermino in piena preistoria come il centro di un vasto commercio mediterraneo. Una prima fase si realizza intorno al 4000 avanti Cristo, quando l'ossidiana risulta esportata verso Occidente. Una seconda fase si svolge tra il 1900 e il 1800 avanti Cristo, quando il traffico si svolge verso Oriente. Ne sono protagoniste le genti micenee, che controllano con le loro navi le rotte convergenti intorno allo Stretto di Messina e a sud della Penisola Salentina. E le navi recano via via popoli diversi, ai quali corrispondono specifiche fasi: cultura di Capo Graziano, cultura del Milazzese, Ausonio I, Ausonio II, sono le grandi articolazioni archeologiche e cronologiche che i reperti chiaramente documentano.
Quindi, intorno al 900 avanti Cristo, un violento incendio chiude per qualche secolo la vicenda di Lipari. Le abitazioni crollano e non vengono subito ricostruite. Bisogna attendere il 580 perché i Greci si insedino sulla rocca e cominci una nuova fase ormai pienamente storica. L'ossidiana serve sempre di meno, nell'avanzata epoca dei metalli. Resta la straordinaria prosperità che le eruzioni vulcaniche recano alle Eolie, oltre, s'intende, alle distruzioni che periodicamente le sconvolgono. Le pie donne dell'isola hanno pensato da secoli a raccomandarsi a San Calogero, facendo voto di non bere più vino purché le eruzioni non si ripetano; e nel Cinquecento uno scrittore attesta che il voto era mantenuto ancora. Ma poi?


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