§ LA DENUNCIA DELLA BANCA D'ITALIA

Tra Spesa pubblica e finanza allegra




Dario Giustizieri



La relazione del governatore Ciampi ha toccato, in uno specifico paragrafo delle "Considerazioni finali", una questione che è di recente arrivata prepotentemente sulla scena: la questione dell'intervento pubblico in economia. Dice il governatore: "La rapidità con cui il rapporto tra la spesa pubblica e il reddito è salito e i livelli elevatissimi, in taluni Paesi prossimi al cinquanta per cento, cui è pervenuto, testimoniano delle sollecitazioni alle quali le strutture pubbliche sono state sottoposte, dando luogo ad aspettative che, sotto l'incalzare delle richieste, non potevano non rivelarsi eccessive... L'opportunità che i cittadini rifuggano, o vengano dissuasi con misure positive, dall'atteggiamento secondo il quale lo Stato debba farsi carico in prima istanza di ogni esigenza; la necessità di evitare una ipertrofia delle funzioni pubbliche, oltre quelle essenziali per il funzionamento di una società; la preferenza per misure che additino soluzioni alla sfera privata, nel rispetto di un equilibrato rapporto con quella pubblica: sono queste le direttrici di un metodo volto ad aggredire la crisi alle sue radici, piuttosto che a lenirne le conseguenze".
E una delle pre-condizioni per imboccare questa direzione di marcia sta nel fatto, secondo il governatore, che il vincolo di bilancio torni ad operare come fattore di disciplina, come "cerniera per tenere unite una società eterogenea e un'economia da sempre tentata di rifugiarsi nel sussidio".
Queste parole hanno un merito: quello di rianimare il dibattito su "pubblico e privato" in campo economico; dibattito che, nonostante la gravità e l'urgenza del problema di veder chiaro in tutta la vastissima gamma dell'intervento pubblico in economia, non ha avuto fino a questo momento' tutto lo spazio che merita. Ad onor del vero, questo è un campo in cui le lamentazioni sulla elevatezza della spesa pubblica hanno fatto aggio su una meditata e serena valutazione e impostazione dell'intera questione.
Che cosa si può intendere per "privato" e per "pubblico" in economia? Nella gran parte dei casi, la risposta a questa domanda risulta strettamente connessa all'idea del regime di proprietà. Secondo questa rozzissima interpretazione, è pubblico ciò che è di proprietà pubblica: dai cannoni dell'esercito, alle ferrovie, agli inceneritori urbani, e via dicendo. La pericolosità di questa concezione salta subito agli occhi. Se infatti accettiamo questa definizione, quando un'impresa di panettoni, di biciclette o di biancheria per signora viene "salvata" (per qualsiasi, anche nobilissimo, motivo), ecco che H panettone, la bicicletta o la biancheria per signora diventano "beni pubblici" e partecipano quindi ai finanziamenti pubblici. Una concezione ovviamente assurda, ma radicata nella società italiana. Visto il problema in quest'ottica, si comprende benissimo perché grandi quantità di risorse sono state letteralmente "bruciate" dallo Stato nel forno pubblico, come risultano giustificati i tentativi di riprivatizzazione che oggi si stanno tentando per un certo numero di imprese, alcune delle quali di medie e grandi dimensioni.
Che cosa allora è veramente "pubblico"? Per l'economista, presentano caratteri "pubblici" quelle attività economiche, di produzione e di consumo, che esercitano effetti diretti, positivi o negativi, su altre unità di produzione e di consumo e quindi sulla collettività nel suo complesso.
Tipico è il caso dell'inquinamento. Se raffinando benzina inquino, esercito effetti negativi sul benessere collettivo e devo quindi studiare i modi più adatti per eliminare questo danno. Ma vi sono anche gli effetti positivi. Se, curandomi, evito le epidemie, la spesa per la salute produce effetti positivi. Effetti positivi sulla collettività produce anche l'educazione, a parte lo stato attuale della Scuola. Ora, se l'inquinamento lo devo "penalizzare", l'educazione e la salute le devo "premiare", anche attraverso sussidi. Qui il sussidio è perfettamente giustificato, ma non nel caso della biancheria per signora! Deve essere osservato che tutta questa attività pubblica di "penalizzazione" e di "sussidio" è destinata, a dispetto dei diktat di Milton Friedman e delle attuali politiche britannica e statunitense, ad aumentare, perché la gente desidera vivere sempre più a contatto di gomito in quei grandi "contenitori" che sono le città, in cui la diffusione degli effetti, positivi e negativi, dell'attività di produttore e di consumatore avviene in modo rapido e completo; perché il ritmo delle scoperte scientifiche (che hanno sicuramente effetti positivi, ma che possono anche avere effetti negativi) è continuamente accelerato. Non è un caso che, in tutti i Paesi sviluppati, il settore della Pubblica Amministrazione aumenta i livelli occupazionali e non sempre a scopo di sostegno dell'occupazione.
Vista in questa ottica, la questione dell'aderenza, cieca ed assoluta, alla regola del "pareggio del bilancio" va intesa in modo abbastanza flessibile. Può darsi che oggi in Italia non sia conveniente andare molto per il sottile. Però, quando esistono effetti esterni positivi delle attività economiche pubbliche, la concessione del sussidio pubblico non contrasta con l'efficienza economica ma, al contrario, la realizza.
L'importante è accettare precisamente l'esistenza di questi effetti positivi. Ed ecco perché diventa necessaria una "magistratura tecnica" per la valutazione dei "costi e dei benefici sociali" dell'attività economica: una concezione che ha cominciato a farsi strada anche nel Piano Triennale.
Questa impostazione ci avvicina ad un altro aspetto della questione dell'intervento pubblico in economia: la questione dello "Stato del benessere". Oggi, sempre più spesso, si sente ripetere che la concezione dello "Stato del benessere" ha fatto fallimento e va di conseguenza rifiutata. Anche a questo proposito vi è molta confusione. L'idea originaria dello "Stato del benessere", che intendeva aiutare coloro che, per età o per date situazioni personali o familiari, restavano indietro nella sempre più competitiva marcia dello sviluppo economico, è un'idea che non può morire. Ma che razza di società è quella che dimentica i propri vecchi (che, tra l'altro, diventano sempre più numerosi e che sono sempre più corteggiati sul piano elettorale) e che evita di considerare la questione delle condizioni di partenza dei propri membri?
Il guaio è che questa concezione dello "Stato del benessere" si è andata progressivamente imbastardendo e lo "Stato del benessere", fondato su precisi programmi di assistenza e di sicurezza sociale per ben determinati gruppi sociali, si è trasformato nell'allegro carnevale dello "Stato redistributivo", che non ha tanto in mente programmi sociali definiti, quanto una redistribuzione senza fine per soddisfare le più svariate richieste dei più svariati gruppi sociali, anche marginali. Non è lo "Stato del benessere" che va dichiarato fallito ma lo "Stato redistributivo", ben diverso dal primo.
L'ultimo aspetto dell'intervento pubblico in economia, della sua efficacia e del suo costo, riguarda appunto l'efficienza degli organismi pubblici che intervengono in materia economica e sociale.
Su questo punto dobbiamo dire che siamo in terra totalmente incognita, nonostante gli sforzi fatti di recente per conoscerla e dominarla. E gli economisti devono recitare, in proposito, un profondo mea culpa. Essi hanno studiato perchè il mercato fallisce, ma hanno dimenticato di capire (di cercare almeno di capire), se si escludono alcune interpretazioni banali, perché anche in non-mercato, ossia il complesso delle attività offerte senza l'ausilio dei prezzi e mercati, contiene elementi e ragioni di fallimento. Essi hanno studiato a fondo le redistribuzioni del settore privato e hanno dimenticato, guarda caso, le redistribuzioni pubbliche. Hanno studiato moduli organizzativi e gestionali del settore privato, ma hanno trascurato quelli pubblici. Questi sono tutti argomenti sui quali il governatore della Banca d'Italia ha giustamente richiamato l'attenzione, proprio perché ancora oggi attendono un grande "progetto" per l'analisi delle questioni attinenti all'intervento pubblico nell'economia italiana.
Senza questo progetto, che non è solo di carattere economico, ma anche culturale, in grado di animare un dibattito, (che se non è proprio spento, per lo meno è alquanto attenuato, e soprattutto è decisamente superficiale), Il rischio è quello di rimanere vittime di mode e in nome di un ritorno al privato, oggi molto attuale, di buttare via il bambino insieme con l'acqua del bagno.
Alcune considerazioni sull'intervento del governatore e sulla situazione dell'economia italiana,
Nel corso del 1980 la nostra economia ha subìto, in rapporto al 1979 e agli anni precedenti, una trasformazione che crediamo abbia qualche titolo per essere definita "strutturale": essa riguarda la formazione e l'impiego del risparmio e dei flussi finanziari.
Cerchiamo di vedere di che si tratta, prendendo a base i dati contenuti proprio nell'ultima relazione del governatore. Ai fini del problema che interessa, l'economia può essere divisa nei seguenti "settori":
- Famiglie;
- Imprese e Abitazioni;
- Settore Pubblico (Amministrazione Centrale, Amministrazioni Locali, Aziende Autonome, Istituti di Previdenza);
- Istituzioni Creditizie (Banca d'Italia, Aziende di Credito, Istituti di Credito Speciale);
- Estero.
Ognuno di questi settori forma al proprio interno un certo risparmio ed esegue certi investimenti (parliamo, per ora, di investimenti in capitale "reale" e non in attività finanziarie). Naturalmente, settore per settore, risparmio e investimenti non sono in generale uguali: in alcuni vi sarà un'eccedenza del risparmio sugli investimenti, in altri un'eccedenza degli investimenti sul risparmio. Il risparmio di sposterà dai settori nei quali si trova in eccedenza, ai settori che ne hanno bisogno per finanziare la propria eccedenza di investimenti.
Nel 1979 (e in anni precedenti) questi trasferimenti di risparmio sono stati nel nostro Paese abbastanza "normali", nel senso che hanno rispecchiato una struttura simile a quella di molti altri Paesi ad economia di mercato. I settori con eccedenza di risparmio sono stati: le Famiglie (che non eseguono investimenti in capitale reale, e per le quali quindi tutto il risparmio è eccedentario) e le Istituzioni Creditizie. I dati sono i seguenti (si tenga presente, una volta per tutte, che l'unità di misura sono le migliaia di miliardi di lire). Le Famiglie hanno risparmiato 40,4. Le Istituzioni Creditizie, avendo risparmiato per 4,4 e avendo investito per 0,8, hanno avuto un'eccedenza di risparmio pari a 3,6. Il risparmio messo - per così dire - a disposizione degli altri settori da Famiglie e da Istituzioni Creditizie è stato dunque pari a 44 mila miliardi di lire.
Qual è stata la destinazione di questo risparmio? Le Imprese ne hanno assorbito 12,5 (avendo eseguito investimenti per 45 e avendo avuto risparmio proprio per 32,5). Il Settore Pubblico ne ha assorbito 27 (perché ha eseguito investimenti per 11,7 e ha avuto un risparmio negativo di 15,3). Siamo così a 39,5. Ciò che rimane dell'eccedenza di risparmio 44 di Famiglie e di Istituzioni Creditizie, vale a dire 4,5 mila miliardi di lire, corrisponde all'avanzo della bilancia dei pagamenti: si è trattato, cioè, di risparmio "esportato" dall'Italia verso l'estero.
Ripetiamo: si è trattato, nel 1979, di una struttura abbastanza normale per un Paese con un avanzo della bilancia dei pagamenti: Famiglie e Istituzioni Creditizie sono tradizionalmente settori con eccedenza di risparmio, ed Imprese e Settore Pubblico sono tradizionalmente settori utilizzatori di questa eccedenza. L'unica anomalia, peraltro gravissima, del nostro Paese è che il Settore Pubblico, a differenza delle Imprese che in parte notevole finanziano gli investimenti con risparmio proprio, ha un risparmio negativo, ossia un'eccedenza delle spese sulle entrate correnti, con la conseguenza che il risparmio che questo settore prende dagli altri serve a finanziare non solo i suoi investimenti, ma anche una parte tutt'altro che irrilevante delle proprie spese correnti.
Che cosa è accaduto invece nel 1980?
I fatti salienti sono questi. In primo luogo, le Imprese hanno aumentato fortemente gli investimenti, di circa il 50 per cento passando a 67,5, mentre hanno aumentato del 27 per cento il proprio risparmio, portandolo a 41,3. Di conseguenza, il loro fabbisogno di risparmio esterno è salito a 26,2 (più del doppio rispetto all'anno precedente). Quanto ai dati del Settore Pubblico, non sono cambiati di molto: con un risparmio che continua ad essere negativo per 13,8 e con investimenti per 15,2, il fabbisogno del Settore Pubblico è salito di 29. Dunque, il fabbisogno complessivo di Imprese e Settore Pubblico è stato nel 1980 pari a 55,2.
In terzo luogo, i settori con eccedenza di risparmio, a differenza del 1979, non hanno coperto questo fabbisogno: essi hanno offerto risparmio per 46,9. In quarto luogo, all'interno di quest'offerta complessiva, il contributo del risparmio delle Famiglie è rimasto stazionario in valore monetario, e quindi è diminuito in valore reale: 40,3; mentre è quasi raddoppiato, sempre rispetto al 1979, il contributo del risparmio delle Istituzioni Creditizie, che è stato di 6,6.
Infine, la differenza tra il fabbisogno 55,2 e la copertura, diciamo "interna", 46,9 (e cioè 8,3), ha corrisposto al disavanzo della bilancia dei pagamenti; ha dunque costituito una "importazione" di risparmio.
Questi, dunque, i fatti. La struttura, come si vede, è assai mutata. Sono mutati i rapporti con l'Estero nel senso che il risparmio importato attraverso H disavanzo della bilancia dei pagamenti è diventato un elemento rilevante del finanziamento della formazione interna di capitale. L'inflazione agisce ormai sul risparmio delle Famiglie, abbassandolo in termini reali. E la (parziale) compensazione a ciò, che consiste nell'aumento dell'eccedenza di risparmio delle Istituzioni Creditizie, difficilmente potrebbe essere considerata, ci sembra almeno, un evento positivo, in quanto configura un progressivo spostamento di questo settore dalla funzione che gli è propria, di essere l'intermediario del risparmio altrui, verso la funzione, che gli è in larga misura impropria, di formare risparmio al proprio interno.
Positivo è, certo, l'incremento rilevante degli investimenti delle Imprese. Ma ègrave che si debbano registrare alcuni effetti negativi, sul resto dell'economia, di un evento pur così positivo. In realtà, di fronte a un rallentamento della formazione del risparmio delle Famiglie, di fronte al risparmio negativo del Settore Pubblico, e perciò a una pressione di questo settore sul mercato del risparmio del tutto sproporzionata rispetto al proprio contributo alla formazione di capitale, la spinta degli investimenti privati tende a trovare la sua contropartita nel disavanzo dei conti con l'Estero. Il quale si verifica in proporzioni certamente allarmanti, se si considera che il passaggio dall'avanzo di 4,5 del 1979 al deficit di 8,3 nel 1980 significa un peggioramento, in un solo anno, di ben 12,8 mila miliardi di lire.
Un altro elemento, a nostro parere molto interessante si deve aggiungere al quadro. Abbiamo visto di quanto siano aumentati nel 1980, rispetto all'anno precedente, gli investimenti reali delle Imprese. Ora, un altro dato che ci sembra da considerare positivamente, a proposito delle Imprese, è il fatto che gli investimenti finanziari di questo settore sono invece assai diminuiti: l'acquisizione di attività finanziarie è stata nel 1980 di 13,3 contro 23,9 dell'anno precedente. Cosicché, mentre nel 1979 il complessivo investimento delle Imprese era composto per il 65 per cento da investimenti reali e per il 35 per cento da investimenti finanziari, questa proporzione diventa 83,5 per cento e 16,5 per cento nel 1980. Che immagine ne risulta in complesso? Quella - ci sembra di poter dire - di un'economia con energie produttive ben vitali, ma ormai irretita da difetti gravissimi di Istituzioni e impedita nel suo funzionamento dagli effetti dell'inflazione. E a questo punto il problema diventa interamente politico.
Infine, un problema di scottante attualità: si deve rivedere lo Statuto dei Lavoratori? E' un'ipotesi che non viene più formulata a fior di labbra, come accadeva fino a ieri. D'altronde, la revisione del campo di applicazione, per estenderlo così com'è alla piccola impresa, forma oggetto di proposta di referendum; l'estensione con adattamenti è proposta dalla Federazione Sindacale Unitaria; la restrizione è stata sollecitata da alcuni industriali e da alcuni politici. E oggettivamente, quando si incomincia a rivedere qualche parte, tutto in pratica può essere rimesso in discussione. Cerchiamo allora di individuare, sinteticamente, quali potrebbero essere le aree di una revisione.
Mettiamo da parte le proposte estensive, relative all'area di applicazione, o quelle intensive, che si propongono un rafforzamento dei poteri dei lavoratori (come le proposte di congestione del piano d'impresa, e simili). Limitiamoci alle ipotesi correttive di quelli che sono considerati, e non da oggi, i più vistosi limiti o difetti dello Statuto.
Una prima linea di attacco riguarda il trattamento di favore che la legge ha usato nei confronti delle Confederazioni più rappresentative, soprattutto quando agiscono in senso unitario. A questo proposito, però, occorre dire che qualsiasi proposta che tenda ad ampliare l'orizzonte del "sostegno" legislativo oltre i limiti attuali, oppure a disancorarlo dalle prospettive unitarie, merita quanto meno d'esser definita improvvida, perché si muove esattamente nel senso contrario rispetto all'esigenza di mantenere un minimo di governabilità delle relazioni I industriali. Togliere al sindacalismo confederale, in crisi di rappresentatività, la stampella dello Statuto vorrebbe dire spalancare le porte al sindacalismo corporativo o alle proliferazioni spontaneistiche.
E capo d'accusa più sostanzioso contro lo Statuto è però quello che riguarda le rigidità indotte da esso nel sistema produttivo. Sotto questo aspetto, le aree calde (a parte le norme sul collocamento, che tutti sono d'accordo vadano cambiate) sono soprattutto tre, vale a dire: il divieto di visite di controllo da parte dei medici aziendali, i limiti alla mobilità interna e quelli alla mobilità esterna, e cioè ai veri e propri licenziamenti.
Si tratta di norme, che, ad onor del vero, hanno generato interpretazioni di tutti i generi, comprese alcune di marca "gauchista", fatte proprie da magistrati nell'intento professato, per quanto cervellotico, di condurre per via giudiziaria la "lotta contro il sistema". Ma questa sembra una stagione finita. Prevale oggi, tra i giudici, un garantismo riformista che - come ha scritto Gino Giugni -corrisponde poi esattamente all'ispirazione originaria dello Statuto.
Resta, nonostante ciò, una domanda di cambiamento ragionevolmente accettabile?
Per quanto riguarda l'assenteismo, pochi ci sembra che pensino a un ritorno al medico aziendale, la cui idoneità come deterrente sarebbe ormai molto dubbia. Qualcuno si attende, ma ci spera sempre meno, un controllo efficace da parte delle Unità Sanitarie Locali. Non è detto invece che, avendo i sindacati assunto finalmente una posizione responsabile in materia, non possano istituirsi strumenti di controllo dipendenti direttamente dalle due parti sociali. Lo Statuto, in questo punto, fu succubo di una visione provvidenzialistica della medicina pubblica, sulla quale oggi si moltiplicano sempre più leciti dubbi.
Per la mobilità all'interno dell'azienda, temiamo invece che non vi sia molto da proporre. Lo Statuto pone alla necessaria flessibilità della manodopera soprattutto il limite del divieto di declassamento, che sarebbe poi un'evenienza abbastanza rara e, a conti fatti, non vantaggiosa per la stessa impresa, in quanto dà luogo a una sottoutilizzazione dei lavoratori. Che poi questi ultimi, i loro delegati, i sindacati, qualche pretore e, per amor di quieto vivere, anche i capi, abbiano scambiato queste garanzie per una vera e propria inamovibilità, è faccenda che non riguarda la legge, ma il modo arbitrario con il quale essa è stata a volte letta e applicata.
Infine: la disciplina del lavoro e i licenziamenti. Contrariamente a un'opinione diffusa, lo Statuto non si occupa dei licenziamenti per riduzione del personale; la materia è complessa, meriterebbe un riordinamento, ma lo Statuto non c'entra. Questo riguarda solo i licenziamenti individuali, molti dei quali sono poi dovuti a provvedimenti disciplinari. E sotto tale aspetto, esso propone il problema della compatibilità tra un elevato livello di garantismo e la conduzione dell'impresa in un'economia di mercato. La linea evolutiva dei Paesi industriali avanzati è nel senso di un crescente garantismo: non sembrano pertanto proponibili, in materia, avances regressive. La sola eccezione vistosa è costituita dal Giappone, mentre in tutti i Paesi della Comunità (e anche negli Stati Uniti) il potere di licenziamento è sottoposto a restrizioni, pur se di qualità e di intensità variabili.
E allora?
Tutto va bene, non vi è nulla da cambiare? La storia non sta ferma, e insieme con essa neppure il Diritto del Lavoro. L'esperienza ha indicato, nello Statuto, lacune e ambiguità, dovute anche ad approssimazioni nel linguaggio giuridico, che hanno poi facilitato abusi ed evasioni. Miglioramenti tecnici, chiarimenti, revisioni di tutto ciò che non ha funzionato sono certamente possibili. Ma è necessario che si verifichino, in modo particolare, due condizioni.
La prima è che la proposta di cambiamento sia concreta, e non si esaurisca nell'attacco frontale e indiscriminato alla legge, nell'imputazione ad essa di ogni e qualsiasi traccia di malcostume nei rapporti tra lavoratori e imprenditori. Sono questi ultimi che, per undici anni, hanno recriminato; e proprio da costoro, fra l'altro, ora si attendono proposte e suggerimenti.
La seconda condizione è ben più difficile ad avverarsi, perché deriva dalla rigidità dell'attività legislativa. Quando questa riesce a dare risultati solo se si svolge sotto la spinta dell'emergenza e della pressione sociale, sono poco praticabili interventi all'insegna dell'autentica funzionalità. E, perdurando governi deboli e maggioranze fragili, ambizione di parte, e altra roba del genere, il pericolo di colpi di coda nelle votazioni genera una ben giustificata diffidenza da parte dei più gelosi custodi del testo dello Statuto, e cioè da parte dei sindacati. Ma, se questo è purtroppo lo stato delle cose, esso non può tuttavia venire assunto come immutabile.

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