Già nell'aprile
del 1962 il banchiere-letterato Raffaele Mattioli, parlando agli azionisti
della Banca Commerciale Italiana, avvertiva che il "miracolo era
finito". Lo faceva con il suo stile consueto, citando Shakespeare
( "Miracles are ceas'd"), e invitava a ragionare sulle cause,
varie e complesse, della fine del "boom", se non altro per
evitare illusioni fideistiche in futuri miracoli. Siamo un popolo di
grande intuito, ma senza la pazienza dell'analisi. Certo, sulle vicende
e sulla fine del "boom" non sono mancati saggi interpretativi
(magari scritti col senno del poi, da chi aveva contribuito ad alimen.
tare la "grande illusione"). Ma la lezione è stata
scarsamente recepita dagli addetti ai lavori: economisti, politici,
imprenditori, sindacalisti. La prova è nelle presenti, non positive
condizioni dell'economia e della società italiane. Non solo:
nella coscienza collettiva il "boom", cancellato come fatto
storico, è rimasto come stato d'animo, e forse anche come attesa
di una ripetizione. Il che sembra assurdo. Ma non siamo il Paese del
miracolo di San Gennaro?
Ebbene: non ci sarà un altro miracolo, secondo gli esperti e
gli studiosi, che lo affermano esplicitamente nel novantunesimo numero
monografico di Ulisse, dedicato appunto a una retrospettiva del "boom".
O meglio: ci sarà, solo a patto che siano rimosse - ed è
impresa titanica, opera realmente riformatrice - le cause vere e profonde
che bloccarono la crescita economica e vanificarono, in gran parte,
la spinta al processo di quegli anni carichi di promesse ma anche di
contraddizioni. E' un dibattito salutare quello che si è aperto,
anche per gli interventi di osservatori stranieri, per la maggior parte
concordi nel rilevare che, a differenza del "miracolo giapponese",
quello italiano era stato caratterizzato da una grande frenesia nel
costruire, nell'investire, nel guadagnare e, purtroppo, nello speculare,
ma - e qui sta il punto - all'interno del vecchio impianto strutturale.
Mentre in Giappone economia, politica e società si riplasmavano
in sincrona armonia; mentre nella Repubblica Federale Tedesca, stremata
dalla guerra, non ci si limitava ad un rilancio liberista ma si programmava
un'economia sociale di mercato consona ai tempi, in Italia si dissipavano
nell'improvvisazione spesso cieca, del consumismo all'interno e dell'arrembaggio
di mercati facili, ma precari, all'estero le occasioni offerte dalla
ripresa produttiva.
Storicamente, come ricorda Ruffolo, lo sviluppo accelerato tra il 1951
e il 1962 (sei per cento di crescita media del reddito nazionale) consentì
un salto socio-economico senza precedenti: crollo del blocco agrario,
svolta nella civiltà contadina, migrazione in massa dal Sud verso
l'estero e verso il Centro-Nord, espansione del terziario e formazione
di nuovi ceti medi urbani. Quando le circostanze - esigenze della ricostruzione,
sbocchi di mercato - imposero l'industrializzazione forzata, tutti furono
colti di sorpresa: i liberali moderati del vecchio antifascismo, i nostalgici
del protezionismo autarchico e corporativo, gli economisti di una sinistra
che continuava ad attendere il crollo del capitalismo sull'onda delle
profezie apocalittiche della Terza Internazionale.
La classe dirigente, al governo o all'opposizione, finì per subirla,
l'industrializzazione forzata, anziché governarla. E il "boom"
diventò il "battello ubriaco" di Rimbaud: l'euforia
di quegli "anni facili" - come dice lo storico Castronovo
- si risolse in una corsa spontanea e individuale per migliorare la
propria sorte, a tutti i livelli, ma in un disordine frenetico. L'Italia
visse insomma "una stagione caratterizzata da grande dinamismo
e mobilità sul piano economico e sociale, ma da un notevole grado
di rigidità e vischiosità a livello politico e ideologico".
E' stato detto che, delle tre cause che agli inizi degli Anni Cinquanta
permisero il decollo italiano (opportunità di rinnovare la matrice
industriale, presenza competitiva sui mercati e forza di lavoro a basso
costo), quest'ultima fu determinante. I risultati sullo stato di miseria
degli italiani, che emersero dall'indagine svolta nel 1952 dall'Istituto
Centrale di Statistica, sembrano oggi incredibili ai nostri occhi di
accaniti consumatori.
Un quarto degli italiani viveva allora in abitazioni sovraffollate o
improprie; il 38 per cento della popolazione non consumava mai carne
e il 27 per cento una sola volta la settimana (ecco perché non
esisteva un disavanzo alimentare nella bilancia dei pagamenti); il 10
per cento degli intervistati possedeva scarpe in pessimo stato e il
36 per cento in mediocri condizioni; il reddito delle famiglie meridionali
con capofamiglia sottoccupato, disoccupato o anziano, non raggiungeva
un terzo di sufficienza. Ma la povertà endemica - caso mai l'avessimo
dimenticato - era diffusa anche al Nord, nelle alte valli del Bresciano
e nel Delta Padano e in varie zone del Veneto e del Friuli. Non soltanto
nelle aree contadine che esploravamo leggendo Levi, Fiore o Scotellaro,
ma anche - accompagnata alla promiscuità e all'abbruttimento,
che evidenziava allora su toni tragicomici il cinema neorealista - nei
quartieri periferici di Milano, di Roma, di Napoli. Anche se la povertà
del Mezzogiorno non aveva confronti, anche se il Sud era l'area arretrata
più vasta d'Europa.

In totale, più di un quarto della popolazione italiana censita
allora viveva al di sotto dei livelli minimi di sussistenza ed era perciò
disposta, per sfuggire alla morsa della fame, ad accettare condizioni
di sottoretribuzioni pur di avere un lavoro. Nel circolo vizioso di
un "boom" produttivo favorito (ma anche limitato) da queste
vaste aree di povertà si inserì, come ulteriore elemento
di precarietà, un sistema assistenziale e previdenziale caotico.
All'epoca, la Presidenza del Consiglio e ben nove Ministeri, senza contare
la miriade di quei sessantamila Enti pubblici o privati poi definiti
"inutili", svolgevano attività assistenziali. Inutilmente
l'indagine coordinata da Montini consigliò "un piano organico
per un sistema di sicurezza sociale". L'assistenzialismo disordinato,
occasionale, tenne luogo ad una vera politica di progresso sociale,
né il centro-sinistra seppe proporre in questo campo una vera
alternativa. L'ideologia solidaristico-corporativa delle forze cattoliche,
pur presentando caratteri propri ed originali, finì per venire
a patti con i residui ordinamenti corporativi del passato. E la sinistra
italiana fu ancora una volta in ritardo con l'appuntamento della storia,
non seppe incanalare nell'alveo del "boom" proposte riformatrici
compatibili con il contesto di allora, affrancate dal massimalismo che
si vestiva con i colori della contrapposizione di classe, nel quadro
internazionale della guerra fredda fra i due giganti.

In queste condizioni,
davanti ai ferrei imperativi di una società industriale avanzata,
il famoso invito del primo ministro di Napoleone III, Guizot - Cittadini,
arricchitevi - portava in sé elementi non di progresso, ma di
disgregazione sociale. Ed ecco evidenziati a distanza, i risvolti negativi
del "miracolo italiano": slittamento, e accentuazione, dei
vecchi squilibri sociogeografici, alti costi umani del decollo industriale
(migrazioni incontrollate, insediamenti urbani caotici), scompensi settoriali
(gap in definitiva incolmabile nelle tecnologie avanzate, scollamenti
fra iniziativa privata e servizi pubblici, e via dicendo).
Alcuni si arricchirono. Individui spregiudicati riuscirono perfino a
creare dal niente imperi finanziari. I ceti emergenti di un terziario
commerciale, i promotori di attività turistiche (spesso risoltesi
nel saccheggio del paesaggio e delle risorse comuni), un apparato burocratico
gonfiatosi intorno alle strutture dello Stato assistenziale andarono
a costituire un "Italia sommersa" che fu lesta a ricavare
dal "boom" notevoli benefici.
Mutava il panorama sociale, ma i politici non se ne accorsero, sfuggirono
loro il senso e la portata della modernizzazione neocapitalista legata
a quella crescita tumultuosa. Dopo la recessione del 1963-64, la ripresa
drogata del '66-67 cerca inutilmente di salvare il precario sistema
di contrappesi economici e sociali che aveva funzionato negli anni facili.
E si arriva, fatalmente, alla miscela esplosiva del '68, all'autunno
caldo, all'accelerazione delle spinte inflazionistiche, all'esasperazione
degli egoismi corporativi. La crisi energetica, l'arresto della costruzione
dell'Europa comunitaria, gli sconvolgi-', menti dei mercati, saranno
le difficoltà esterne che completeranno la liquidazione delle
ultime vestigia del "boom". Per cui parafrasando Freud, sostiene
il sociologo Pozzi, si può ben dire che il "boom",
anche e soprattutto negli esiti umani dell'esodo interno, avesse portato
la peste. Che non vada almeno perduta la lezione amara degli anni facili.
Degli anni del "miracolo italiano".
La parola ai
politici: come e perché si sbagliò.
Riccardo Misasi,
dirigente del Dipartimento Economico della DC.
La fine del miracolo economico sopraggiunge nel momento in cui si modificano
le cause di fondo che lo avevano determinato: in primo luogo, il fatto
che lo slancio tipico della fase di ricostruzione e tutti gli stimoli
internazionali connessi con l'ingresso dell'Italia in una area economica
forte, a poco a poco, si placano. Poi ci sono le modficazioni intervenute
nella struttura dei costi che, salendo molto più velocemente
che in passato, diminuiscono la competitività del sistema. Infine,
già negli Anni Sessanta, si manifestano i primi sintomi del cambiamento
dei rapporti tra Paesi esportatori di materie prime e Paesi produttori,
fatto che non può che complicare la vita di chi, come l'Italia,
è storicamente importatrice di quasi tutti i prodotti primari.
Francesco Forte,
del Comitato Centrale del PSI.
Secondo me, il periodo del "boom" non si ferma all'inizio
degli Anni Sessanta, ma arriva tranquillamente fino al '68. E' solo
una pubblicistica negativa che ha inventato la fine del miracolo nel
1963, in coincidenza con quella che fu solo una crisi congiunturale.
In realtà, per tutto il periodo che va dal 1955 al 1968 l'Italia
si è fatta le ossa, si è data una struttura di Paese industriale,
che ha dimostrato di potersi riprendere anche dopo la contestazione
e la grande crisi petrolifera. Ora i ritmi della crescita sono più
bassi per via di problemi inflazionistici di natura mondiale; è
questo che di fatto impedisce alla nostra economia di raggiungere ritmi
di crescita del 5 per cento all'anno, di cui ancora adesso il sistema
è potenzialmente capace.
Gerardo Chiaromonte,
responsabile del Dipartimento Problemi Economici e Sociali del PCI.
Si può dire che, in verità, noi prevedemmo la fine dell'espansione
degli Anni Cinquanta, perché essa poggiava su basi troppo fragili:
bassi salari, l'abbandono della parte più povera del Mezzogiorno,
il trascurare la politica agricola. Il fatto di lasciare al loro destino
Sud e agricoltura abbassava la produttività media del sistema
e, non appena in alcune zone del Paese si è raggiunto il pieno
impiego, i nodi sono venuti al pettine: in pratica, dal contratto dei
metalmeccanici del '63, viene meno la rendita da bassi salari di cui
avevano goduto i capitalisti italiani, che successivamente si sono dimostrati
incapaci di alimentare una crescita non più fondata sul ricatto
delle masse lavoratrici.
Bruno Trezza, responsabile
dell'Ufficio Economico del PRI.
Il motivo principale che ha determinato la fine del "boom"
è stato il cambiamento intervenuto in alcuni fattori che ne avevano
favorito l'inizio. Per esempio, l'arresto delle grandi migrazioni interne.
All'inizio degli Anni Sessanta si usciva da una fase di sviluppo convulso
e per molti aspetti disordinato: la scommessa consisteva nel proseguire
la crescita, mettendo ordine nel sistema, anche per dare una risposta
a problemi sociali molto sentiti, come l'insufficienza di servizi e
l'arretratezza del Sud. Una scommessa persa.
Renato Altissimo,
responsabile dell'Ufficio Problemi Economici del PLI.
Il "boom" è finito perché si sono cominciate
a svuotare le casse. Il cosiddetto "miracolo",
in fondo, è stato tale perché si è potuto contare
sul patto sociale Costa-Di Vittorio, sa quindici anni di slancio ricostruttivo,
su un alto tasso di sviluppo, su forti risparmi delle imprese che consentivano
forti investimenti. All'inizio degli Anni Sessanta si è voltata
pagina: anziché mettere l'accento sull'accumulazione, lo si è
messo sulla distribuzione delle ricchezze. Il che era corretto in linea
di principio; ma si è finito col trascurare del tutto l'accumulazione
cosicché, mentre negli Anni Cinquanta il tasso degli investimenti
era il triplo del saggio di aumento del reddito, nel decennio successivo
era sceso a un terzo.
Carlo Vizzini, responsabile
dell'Ufficio Economico del PSDI.
In economia i "miracoli" sono sempre pericolosi, perché
quasi sempre una crescita molto rapida si accompagna ad elementi che
creano squilibri nel sistema. Per quanto riguarda la fine del nostro
"boom", io vedo queste cause: la dura fase conflittuale aperta
dal movimento sindacale e culminata nel '68-69, che si scontrò
con una struttura produttiva già in fase di pre-crisi e a cui
corrispose un grave calo della produttività; la mancanza di programmazione,
che ha impedito a un sistema privo di materie prime di attrezzarsi a
operare rapide riconversioni verso comparti ad alto valore aggiunto;
la mancanza di una seria politica energetica.
Le opinioni
Gli squilibri della
ricostruzione
La politica economica della ricostruzione, specie dopo l'uscita delle
sinistre dal Governo, è nel più tradizionale alveo liberista:
libertà di commercio, libertà assoluta di azione degli
imprenditori in fabbrica riguardo all'organizzazione del lavoro, investimenti,
licenziamenti, salari, deflazione e parità della bilancia commerciale,
facilitazioni nella concentrazione dei capitali, bassi livelli di tassazione.
Lo Stato rinuncia ad una funzione stimolante e propulsiva, non accelera
lo sviluppo industriale, che solo avrebbe permesso di assorbire la disoccupazione,
né dirige lo sviluppo spontaneo per ridurre squilibri tradizionali
(Mezzogiorno, agricoltura, servizi collettivi, sono punti deboli di
cui ancora oggi si sente il peso).
Paolo Braghin, sociologo
Senza una cultura
industriale
In questa situazione non si sviluppò in Italia una moderna cultura
industriale. Certi motivi di razionalizzazione economica, secondo un
modello che si muoveva fra l'Inghilterra laburista e le democrazie scandinave,
rimasero appannaggio di esigui settori della borghesia italiana, quella
che si identificava sostanzialmente con la cosiddetta terza forza. Alla
maggior parte degli industriali sembrò che lo sviluppo dei consumi
individuali, qualche provvidenza aziendale e le protezioni non disinteressate
del potere politico fossero sufficienti a creare le condizioni per il
funzionamento di una società industriale, mentre la maggior crescita
della produttività rispetto ai salari e i prezzi contenuti delle
materie prime vennero considerati come dei fattori destinati a non subire
sensibili mutamenti. All'interno della grande industria vennero introdotte
alcune tecniche di gestione dell'impresa importate dagli Stati Uniti
e dai sistemi più avanzati. Ma la nuova cultura manageriale si
chiuse nella routine professionale, non stabilì rapporti con
i movimenti d'opinione che stavano emergendo nella società civile,
né assecondò un'apertura nei confronti del sindacato,
penalizzato per lungo tempo da severe politiche aziendali di ristrutturazione
e da misure di discriminazione e viabilizzazione autoritaria delle relazioni
industriali sui luoghi di lavoro.
Valerio Castronuovo, storico
Tanti conti ancora
da pagare
Il Paese paga ora, e pagherà per molti anni ancora, gli errori
allora compiuti nello sviluppo abnorme dell'industria chimica, nella
mancata industrializzazione del Mezzogiorno, nell'esuberante espandersi
dell'industria petrolchimica e Petrolifera di raffinazione, nell'abbandono
della ricerca energetica nel settore nucleare (dove dal terzo posto
siamo decaduti al quattordicesimo): in una parola, nella mancanza di
una politica di piano e nel non aver saputo scegliere tra un'economia
programmata e una libera economia di mercato.
La ricerca si è leccata le sue ferite per oltre dieci anni. L'accenno
di ripresa che oggi si nota, con la rifondazione del CNEN, con l'avviamento
dei progetti finalizzati del CNR e con l'aumentato finanziamento di
questo Ente (che attende peraltro ancora una indispensabile riforma),
con la ripresa della ricerca di fonti energetiche alternative, potrebbe
far ben sperare, se si saprà percorrere la strada appena imboccata
senza deviazioni e pentimenti e se si addiverrà finalmente a
programmare, con tutte le garanzie che una democrazia richiede, la ricerca
scientifica e la politica industriale, che sono tra di loro strettamente
connesse.
Felice Ippolito, fisico
E allora, come andrà
a finire?
Ci guardano, dunque, con meraviglia. Con tanti guai, potrebbe andarci
anche peggio. Ma, così come va, non può continuare. sembra
incredibile che un italiano su cinque viva di assitenza (pensione, invalidità,
cassa integrazione, ecc.). Nessun bilancio statale può sopravvivere
a questi salassi. C'è stato un momento, negli Anni Cinquanta,
in cui il deficit era ridotto al minimo. C'è nostalgia, in alcuni
economisti, per quegli anni. Nemmeno da quel periodo viene una ricetta
sicura, ma tutti gli economisti ci dicono che ci sono guasti con cui
bisogna tagliar corto. In questo quadro: assistenzialismo, assenteismo,
eccessive spese di Stato, mancanza di coordinamento e di programmazione,
clientelismo e speculazione, impreparazione manageriale, evasioni fiscali,
scandali e promesse non mantenute. Di per sé, una politica di
austerità non vuol dire nulla. Semmai all'estero si osserva che
vi facciamo ricorso troppo facilmente. L'economia italiana ha bisogno
di espansione: più fiducia, quindi. Ma come combattere un'inflazione
come quella che l'Italia si porta appresso, non riesce a dircelo nessuno.
Gino Pallotta, giornalista
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