§ EMIGRAZIONE: UNA TRAGEDIA ITALIANA

"Mia carissima, sono in Mèrica"




Lucio Tartaro, Luigi C. Belli



"Non ce credo più a Dio, Concetta mia", scrive Angelina Bartolomasi nel 1896. Era partita per il Brasile con la famiglia l'anno prima, dalla Sicilia. Aveva perso il figlio in un incidente e il marito bracciante in un'azienda agricola per febbre gialla. In quel '96 decideva di tornare in patria. Durante la traversata, un'infezione la uccideva. Il cadavere, come volevano le leggi della marineria, era sepolto in mare. E' appena uno dei documenti, tutti drammatici, tutti strazianti, raccolti in un magnifico volume, "Partono i bastimenti", curato da Paolo Cresci e Luciano Guidobaldi, pubblicato da Mondadori.
Un'epoca terribile della storia nazionale, soprattutto meridionale, ricostruita attraverso lettere, testi vari, fotografie, cartoline illustrate, racconti in prima persona, tutto materiale non destinato ad esser pubblicato e quindi tanto più autentico, consegnato solo alla memoria dei parenti e dei conoscenti. In queste pagine sono racchiuse sofferenze inenarrabili, doloranti abbandoni, luttuosi annunci. I cafoni del Sud e quelli del Nord si ritrovano abbracciati in una tragedia, che ha trovato più spazio nelle coscienze che nei tomi di storia. Una tragedia, che in proporzioni quasi uguali, seppure con dolori appena minori, si è poi ripetuta in quest'Italia, appena venti o dieci anni fa, e che ora rischia di scrivere un nuovo capitolo, quello dei nostri giorni. Senza terra, vessati dalle tasse e dalla mancanza di lavoro, flagellati dalla fame e dalle malattie, quella gente scappò. Fu un esodo di dimensioni bibliche, mai verificatosi prima: nel giro di un trentennio, dieci milioni di uomini e di donne attraversarono l'Atlantico per sbarcare senza un soldo o un aiuto negli Stati Uniti, in Brasile, in Argentina. Molti si spinsero addirittura in Australia. Già nel 1910 New York era la quarta città italiana, dopo Napoli, Roma e Milano. Vendevano quel poco che era vendibile, cadendo in genere in mano a truffatori particolarmente addestrati, per comprare un carissimo biglietto di viaggio in piroscafo. Le Compagnie di navigazione facevano affari lucrosissimi. Erano proprio le Compagnie a sguinzagliare nelle campagne veri e propri sensali di carne umana che reclutavano gli aspiranti all'emigrazione, prospettando loro meraviglie mai viste né udite, che la cultura della povertà non permetteva di verificare. Gli agenti intascavano le tangenti e avviavano quei disgraziati verso i porti, quasi sempre Napoli e Genova, e poi su scalcagnate carrette che tenevano a malapena il mare. A Napoli il traffico portuale viveva esclusivamente di questo reddito.
Ammucchiati nelle stive, alimentati con cibarie immonde (i più avveduti si portavano qualcosa da casa), maltrattati, affrontavano trenta giorni di viaggio per raggiungere l'America, addirittura trentasei per l'Argentina o il Brasile. I Governi, che nel frattempo si occupavano delle avventure coloniali in Africa e razziavano i risparmi nelle banche, non muovevano un dito per una minima tutela. Soltanto nel 1901 si cercò, con scarsi risultati, di porre riparo agli appetiti delle Compagnie. Nei centri di raccolta dei cafoni solo alcune associazioni cattoliche o socialiste, come l'"Umanitaria", si preoccupavano di quella carne da macello, esposta a tutto. Erano analfabeti quasi tutti, conoscevano solo il dialetto d'origine, al punto da non poter comunicare fra di loro se non in piccoli gruppi. Chiunque li poteva raggirare. E, una volta sbarcati, incominciava qualcosa di peggio: lungaggini persecutorie da parte della polizia e della dogana, controlli medici umilianti, ispezioni su ispezioni. Superata la barriera, c'erano in agguato sfruttatori d'ogni risma: albergatori, facchini, avvocati, falsi impresari, cambiavalute, finti paesani, tutti interessati a scroccare. E quelli spesso di cadevano. Indifesi di fronte a tutto, muti, storditi dalla stanchezza e dalle novità, dovevano cercarsi prima di tutto un tetto, un qualsiasi lavoro, un amico. Era duro sfangarla, riuscire a sopravvivere. Nessuno ci dirà mai quanti morirono di stenti, perché abbiamo solo le testimonianze di chi è riuscito a campare e di quelli, pochi, che sono ritornati.
Le lettere dalla "Mérica" erano un avvenimento per gli italiani rimasti in patria, dove poi incominciarono ad affluire anche le rimesse. Soldi che erano sangue: "Pensate signora comare - diceva il vecchio pastore - che io e vostro padre, benedett'anima, abbiamo traversato insieme l'acqua salata per andare in America. Per trenta giorni siamo stati su un bastimento strapieno di cristiani. Quel viaggio non finiva mai, su quel mare grande quanto il cielo. Ammucchiati si dormiva nei saloni di quel bastimento, che dondolava a momenti come un guscio di noce... C'erano anche donne con bambini; e queste povere donne piangevano in continuazione. C'erano delinquenti... Non vi dico che gente c'era. Tutta la marmaglia. Ma poi, arrivati in quella terra, abbiamo trovato tante brutte cose! Ci sfruttavano, ci massacravano di lavoro, ci davano una miseria di paga. Non era terra di pane, a quel tempo, l'America... No, ci dicemmo, questa non è aria per noi. A casa non si è in grado di spedire niente; qua le sofferenze sono tante, i rischi gravissimi con i mafiosi che pretendono la camorra; il clima è terribile. Alzammo i ponti e facemmo ritorno. Poveri eravamo partiti e poveri siamo tornati".
Ma sono stati in tanti a farcela, a procurarsi via via una qualche sicurezza di vita. Molti hanno fatto fortuna. Erano i più forti, i più selezionati. Possibilità ce n'erano, in un capitalismo nascente e aperto al rischio, com'era allora quello americano. E a quei nostri connazionali, abituati a sgobbare sulla terra, non mancavano né la voglia di lavorare né quell'ingegnaccio di chi deve pur sapersela cavare. Oggi sorridiamo, ma quanto orgoglio c'è in Samuele Turri, nativo della Garfagnana, che manda ai suoi una foto che lo ritrae a cavallo della bicicletta: era un simbolo, il segno che lui ce l'aveva fatta e tutta la vallata lo doveva sapere. E quanta involontaria ironia in questa donna che scrive ai suoi da Elwood City: "Tu vedessi Romolina come èridicola... C'è un siciliano che le è sempre dintorno la sera quando viene a trovarci appena che lo vede entrare gli dice: "Al dù" ("How do you do") vorrebbe salutarlo ma non è buona. Quando va via, dice lui Toni io menne vado; e lei lesta lesta "gubbai" e quel siciliano ci crepa di risa". Ci viene rivelata una vita intima, piena di pudori e di dolori: "Caro Amedeo per la sua Concettina vai pure liberamente in America non dubitare del mio amore penserò sempre a te".
A questa gente, il Commissario Generale dell'Emigrazione era prodigo di "avvertenze". Una dice così: "Anche se egli assume la nazionalità del Paese in cui si trova, non rinneghi e non oblii il sublime retaggio morale dei propri avi e trasmetta ai suoi nepoti la sacra fiamma dell'amor della Patria lontana; egli resterà così non degenere figlio dell'Italia grande e forte nel mondo". Questo signore faceva finta di credere che gli emigranti sapessero leggere Carducci o D'Annunzio: e non sapevano neppure trovare le parole adatte per esprimersi o per farsi capire!
Molti se ne andarono quando si cominciò a parlare di guerra. Perché mai dovevano morire? Poi, là, si arruolarono nell'esercito americano: "Dice che va soldato - si legge in una lettera - perché gli danno trenta soldi al mese e il padrone gli paga la settimana lo stesso". I legami con l'Italia non furono mai recisi, se non alla quarta o quinta generazione. Era gente, insomma, che al proprio Paese ci teneva.
Da allora ad oggi. Se uno ha bisogno di un certificato di residenza, nel nostro Paese, va in Comune, e in Tribunale se gliene serve uno penale, in Questura per il passaporto, all'Ufficio d'Igiene per i documenti sanitari. Se invece una di queste pratiche, o tutte insieme, si devono fare all'Estero, da emigrati o da turisti, si può andare soltanto al Consolato. Nella città ci sono, per milioni di cittadini con milioni di necessità burocratiche, migliaia e migliaia di impiegati. I nostri uffici consolari, che devono preoccuparsi di milioni di emigrati, hanno personale insufficiente e oberato. Sicché l'italiano che va fuori e lavora corre molte volte verso la morte civile.
Per l'intera Comunità Economica Europea (1.700.000 emigrati), il Ministero degli Esteri ha a disposizione soltanto 490 persone, con un rapporto fra personale e connazionali di un dipendente ogni 3.460 italiani. Lo stesso rapporto in America Latina (1.974.000 lavoratori presenti, dieci Consolati e un organico di 105 unità) è di uno a 19 mila. In Asia, dove le presenze sono appena 27.000, ma le distanze interminabili, di uno a 843. Di uno a 1.850 in Africa e di uno a 8.400 in Australia.
La rete si compone di 150 uffici di prima categoria, retti da funzionari di ruolo, e 470 di seconda categoria, affidati a Consoli Onorari, ma coordinati in realtà da Cancellieri. Guardata sulla carta geografica, essa mostra anche uno scompenso interno: le rappresentanze si rarefanno a mano a mano che ci si allontana dall'Italia. Abbiamo grossi Consolati a Lugano, a Nizza, a Capodistria; la Svizzera è un pullulare di uffici, ce n'è quasi uno in ogni città, e anche se è il secondo Paese del mondo per presenza di italiani, è "terra al confine", raggiungibile in un batter d'occhio; l'Ambasciata di Parigi è la più grande del mondo, maggiore anche di quella di Bonn: e la Germania Federale è il Paese primo nella classifica dell'ospitalità a nostri connazionali. E abbiamo Ambasciate relativamente piccole a Mosca, a Città del Messico, in Libia, in Venezuela.
Dunque, nel momento in cui sta per avviarsi una nuova ondata migratoria; prima ancora di domandarsi se l'emigrazione debba essere favorita o scoraggiata dal Governo, che cosa sia opportuno fare per rendere più agevole l'integrazione degli emigrati nei tessuti sociali delle Nazioni nelle quali vanno a vivere o se non sia più giusto mantenere il rapporto con la società e con la cultura italiane, forse bisognerebbe chiedersi quanto - allo stato attuale - l'emigrazione possa considerarsi una libera scelta, se davvero sia sopportabile o preferibile, in cambio di un lavoro, la, condizione del cittadino "dimezzato" o diminuito, del meticcio o del mercenario, come ancora si dice.
Fuori dalla drammatica e realistica letteratura delle "valigie di cartone", delle "vedove bianche", della nostalgia e dello sfruttamento, sono questi gli argomenti di cui si discute a proposito di emigrazione. "Da tecnici - è stato osservato - abbiamo fatto la nostra scelta: crediamo che il Governo debba incentivare l'emigrazione finché il mercato del lavoro in Italia non è in grado di riassorbire la disoccupazione. Per chi è senza lavoro, soprattutto per i giovani, andare all'estero può essere un'esperienza utilissima, un modo di imparare una lingua e di acquisire professionalità: un'occasione buona". Che è come dire: in Italia non c'è lavoro, soprattutto per le nuove generazioni; la disoccupazione non può essere assorbita a breve termine; non si fanno esperienze e non si acquisisce professionalità, e, oltre tutto, non s'imparano le lingue!
Tutto, dunque, in base a questa "scelta", è stato predisposto: 140 funzionari, la pubblicazione di un bollettino, lo studio dei flussi migratori, la rilevazione statistica, il collegamento telex da Roma alle sedi principali all'estero, l'attrezzatura per l'emergenza. A Bruxelles, si sta sperimentando la computerizzazione del Consolato. Nel mondo si organizzano ben 13 mila corsi di italiano. E i successi non sono mancati: quando in Iran, in occasione della rivoluzione khomeinista e della guerra con l'Iraq, i nostri connazionali rischiavano forte, gli italiani sono stati i primi fra tutte le comunità presenti ad essere messi al sicuro, con due aerei russi noleggiati a Mosca e pagati sull'unghia 300 mila dollari. E quando in Uganda, dopo la caduta del dittatore Idi Amin, c'era la guerriglia, è stato personalmente il capo della Segreteria della Direzione Generale a battere la frontiera alla ricerca di italiani dispersi. Sono fatti positivi; ma resta il sospetto che, in quanto a nuove uscite dall'Italia, il peggio debba ancora venire. Efficienza e abnegazione dei nostri funzionari, infatti, non impediscono che le condizioni degli emigrati siano rimaste, un secolo dopo le prime partenze, quasi le stesse. L'orientamento svolto dalla Farnesina, non intacca l'emigrazione irregolare, le operazioni di caporalato, e cioè lo sfruttamento (a Roma due volte la settimana, a Piazza Vittorio, c'è la caccia al disperato che vuole partire): contro queste distorsioni combatte, su tutto il territorio nazionale, un nucleo di soli sedici carabinieri! Il radicamento all'estero e l'integrazione con le altre società sono ancora un miraggio: dove non esiste una "little Italy", l'emarginazione è ancora pesante, la gente parla solo italiano o dialetto, i bambini che vogliono entrare nelle scuole straniere vengono falcidiati nelle classi preparatorie. Il novanta per cento dei ragazzi vengono esclusi dai diplomi e senza diplomi non si può frequentare l'apprendistato: si è dunque tagliati fuori dal mercato del lavoro (almeno nei maggiori Paesi europei) e non resta che adattarsi alle attività più umili o tornare indietro.
Tornare indietro: la professionalità acquisita all'estero, in Italia non sempre trova sbocco, e la vita dell'emigrato di ritorno e l'impiego dei risparmi si legano spesso a una casa, a un orto, a un'officina meccanica, a un bar. Il tentativo di affidare i fondi di sussidio e il compito del controllo a Comitati Consolari elettivi si è arenato per difficoltà esterne (non tutti i Paesi autorizzerebbero le elezioni) e interne (la questione si è purtroppo molto partitizzata: ed era prevedibile): al Senato il progetto di legge è fermo.
Di fronte a questa situazione, è ovvio che la maggior parte della nuova ondata di emigrati sia costituita da quelli che scelgono l'esodo temporaneo, i contratti a termine ma ben retribuiti (anche correndo seri pericoli: come in Libia e in Medio Oriente), e l'assistenza scolastica e sanitaria dei privati. Per i restanti, la partenza e il viver fuori è soprattutto una necessità o il frutto di una scelta fatta da altri in loro nome.
Emigrano i giovani, ovviamente. E per quelli che restano, quali prospettive? Un programma di Governo per l'emergenza ha di fronte a sé, fra molti altri, il problema non eludibile di come mettere ordine nella fitta giungla normativa che copre il mercato del lavoro e ne comprime l'elasticità in ragione di esigenze garantistiche, talvolta razionali, talvolta un pò meno, ma tutte comunque distorte dall'impiego burocratico degli strumenti a ciò preposti.
Valga però una premessa. All'origine di questo e di altri effetti distorsivi, imputabili alla legislazione del lavoro, c'è una linea di tendenza che è in atto da almeno trent'anni: e cioè la politica di favore verso il rapporto continuativo, stabile, con sviluppo aziendale di carriera.
D'altra parte, nessuno potrebbe porre in dubbio la legittimità di quest'aspirazione. Né è pensabile che si facciano passi indietro nei limiti posti al potere di licenziamento, dal momento che in quasi tutti i Paesi industriali si son fatti passi avanti in tale direzione. Il problema, allora, diventa quello di dare elasticità al mercato del lavoro, trasformando gli strumenti di controllo amministrativo esistenti da fattori di immobilismo in fattori di mobilità. La chiave del problema è il collocamento obbligatorio, oggi in vigore. Nata nel 1949, concepita a misura di un mercato a disoccupazione cronica, statica, prevalentemente agricola e a bassa qualificazione, la macchina continua ad esistere, ma gira a vuoto. La dottrina ispiratrice è superata, ma non meno sconcertante è la carenza, nelle forze sociali, di una dottrina alternativa. I sindacati sembrano attestati a difesa della funzione garantista e antidiscriminatoria, che viene svolta dalla richiesta numerica, e cioè dall'obbligo di assumere su graduatorie predisposte dagli uffici (ma senza alcun previo accertamento delle capacità professionali); né il fatto che tale vincolo si sia sempre scontrato con l'accesa insofferenza delle imprese (talché l'evasione è sistematica), ha indotto a riflettere sull'opportunità di circoscriverlo ad aree delimitate e/o ad ipotesi di eccezionalità.
Tra gli imprenditori vive la nostalgia di un ritorno al libero mercato delle braccia che, coniugato con la libertà di licenziare, viene ora posto come la versione neoliberista del problema dell'elasticità. L'una e l'altra sono in realtà posizioni datate, e direi datate anni '50.
Negli ultimi tempi c'è stato qualche segno di novità. E' in sede di avanzata elaborazione parlamentare un progetto di cui poco si è dibattuto, ma contro il quale è comunque già partita una dichiarazione di ostilità da parte sindacale, che per una parte contiene argomenti giusti e per l'altra parte argomenti triti e rituali. Il progetto è frutto di un connubio, non sempre felice, tra una proposta orientata alla sperimentazione di metodologie nuove in aree delimitate e un progetto inteso a introdurre sostanziali modifiche, generalizzando tra l'altro alcuni criteri sperimentati positivamente in Lombardia. Ma l'Italia non è tutta Lombardia, e, per altro verso, la sperimentazione può essere uno strumento pericoloso, se viene usata con criteri elettoralistici, o disastroso, se cade sotto il dominio di una burocrazia scettica. Soprattutto, poi, di questo progetto è chiara la dottrina ispiratrice, e questa non può d'altro canto esser chiarita se non si procede ad una analisi preventiva delle nuove caratteristiche assunte dalla domanda e dall'offerta di lavoro.
La domanda. Non c'è dubbio che per le imprese esista un'esigenza di mobilità, che la sequenza di provvedimenti venuti alla luce dopo la legge sulla riconversione industriale ha cercato di agevolare, con scarsi risultati. Ma non meno crescente è il bisogno di organici flessibili, del tutto inconciliabili con una normativa fondata, come si avvertiva prima, sul favore per i rapporti di lunga durata, dei quali è anzi prevedibile una crescente scarsità, quantomeno nelle qualificazioni inferiori o medie.
L'offerta. Alla scarsa disponibilità di impieghi continuativi si accompagna, singolarmente, una crescente propensione delle leve giovanili per i lavori interinali, a termine, a tempo parziale, purché la sequenza di essi non sia interrotta da lunghi periodi di inerzia.
Tra i due termini, come si vede, non c'è un fossato incolmabile, ma è proprio questa tipologia del mercato a rendere necessaria una struttura amministrativa profondamente nuova rispetto a quella, nata male e vissuta peggio, del collocamento. E' il campo proprio dell'"agenzia del lavoro".
Sotto questa espressione sono passate per verità proposte d'indole svariata; e l'idea dell'agenzia, prospettata come uno strumento per restituire libertà di licenziare, accollando direttamente allo Stato il peso della gestione del personale esuberante, non poteva non trovare una pessima accoglienza da parte sindacale. Ma di questa proposta esistono per fortuna altre versioni. L'"agenzia del lavoro" può infatti essere pensata come un'agile struttura pubblica ma a gestione autonoma, guidata con taglio manageriale da personale nuovo e ben selezionato e addestrato. Ad essa dovrebbe essere affidato non il compito di sostituire gli uffici di collocamento (pur sempre necessari per registrare i movimenti dell'occupazione), ma quello di progettare gli impieghi della manodopera in mobilità e delle leve giovanili, e di compiere le azioni promozionali necessarie. Tra gli impieghi della manodopera in disponibilità e delle leve giovanili dovrebbero comprendersi quelli di tipo interinale, per il compimento di opere di utilità sociale (e questo è previsto nel progetto parlamentare), ma anche di lavori produttivi presso imprese che abbiano esigenze di organico flessibile; una volta accertato, beninteso, che tale esigenza non sia affermata come espediente per sottrarsi ad un normale ampliamento dell'organico. E accanto al lavoro interinale, le attività di formazione finalmente finalizzate a sbocchi occupazionali accertati, e in vista di una sistemazione stabile ad un livello professionale soddisfacente.
I costi? Non superiori, quasi certamente, al costo attuale della cassa integrazione, indennità di disoccupazione, corsi di formazione a carattere meramente assistenziale, sussidi ad imprese dissestate per mantenere intatti i livelli di occupazione.
Ma in compenso: un forte impulso verso una maggiore produttività del sistema.
A chi la responsabilità della gestione? Quella in atto oggi è una forma di controllo sindacale su una gestione burocratica, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Venga ampliata la sfera del controllo sociale, includendovi anzitutto le regioni, attribuendo un ruolo adeguato alle imprese, nei vari settori. Ma il controllo si eserciti su un apparato non burocratico, bensì di stile e di formazione manageriale. Vale la pena quantomeno di discuterne e poi, probabilmente, di provarci, altrimenti continueremo a mutare le leggi, ma lasciandone inalterati lo spirito, i princìpi e soprattutto gli apparati che sono chiamati ad applicarle. E alla fine nulla risulterà cambiato. Resteremo ancora alle prese con il lavoro nero e con l'emigrazione.
In questo contesto, l'altro problema: quello di non "aggiustare" il Mezzogiorno, dove lavoro nero ed emigrazione, appunto, sono all'ordine del giorno. Sotto questo profilo, e in vista della forte ripresa emigratoria, siamo obiettivamente dinnanzi a una ripresa della battaglia meridionalista, che era già nelle cose e che, fra l'altro, la catastrofe del terremoto ha contribuito ad accelerare e in qualche modo a drammatizzare.
Anche a prescindere dalle conseguenze del terremoto, questa battaglia si pone in termini radicalmente diversi da quelli che ispirarono la riforma agraria e la costituzione della Cassa per il Mezzogiorno negli Anni Cinquanta. Il nuovo meridionalismo nasce da una realtà sociale, economica e politica che appare completamente trasformata rispetto all'immediato dopoguerra. Al posto della "grande disgregazione sociale", di cui si era parlato a buon diritto nei decenni precedenti, troviamo un paesaggio moderno, articolato, complesso, anche se ancora segnato (come hanno documentato, fra l'altro, proprio le cronache del terremoto) da fortissime contraddizioni e da larghe sacche di arretratezza. La mutazione non investe soltanto i settori produttivi: è globale, e, a suo modo, rivoluzionaria. E' opportuno chiarirlo agli italiani del Centro e del Nord perché forse essi, soprattutto a causa del terremoto, non se ne rendono pienamente conto.
Nel ventennio 1950-70, che coincide col periodo più florido della nostra economia nazionale, l'agricoltura perde il suo primato a vantaggio dell'industria e dei servizi. Su cento meridionali occupati, i 56 che lavorano nel settore agricolo diventano poco più di 30. Gli addetti all'industria salgono da 20 a 32 (ma nel settore manifatturiero soltanto da 13 a 17). Nei servizi privati e nella Pubblica Amministrazione il salto è ancora più netto: da 26 a 37. L'enorme incremento che ne deriva nei consumi sopravvive, per inerzia, anche alla stasi che il settore industriale accusa negli anni successivi, soprattutto dopo il 1974, e accentua l'evoluzione del costume, a determinare la quale naturalmente concorrono eventi extra-economici di grande portata, come la contestazione giovanile del '68, l'autunno caldo del sindacato, la scolarizzazione di massa, la diffusione capillare delle trasmissioni televisive, le lotte per i diritti civili e la qualità della vita, l'emancipazione femminile. E' una trasformazione che modifica nel profondo la psicologia collettiva e individuale dei meridionali e ne intacca le concezioni tradizionali sulla famiglia, il sesso, la religione, l'autorità, l'etica del lavoro, stravolgendo la stessa componente di classe nell'atto in cui richiama decine di migliaia di contadini nelle città e immette in fabbrica e nella campagna masse di "intellettuali" di nuovo tipo: diplomati e laureati senza impiego, tecnici, ricercatori, operatori culturali. Sono i "nuovi soggetti sociali e politici", la cui azione non è caduta nel vuoto: e proprio con i risultati di quest'azione si devono fare i conti, mentre nuovi problemi vanno ad aggiungersi a quelli antichi e in buona parte irrisolti. Non tener presente tutto questo, significa, com'è stato scritto, lavorare ad un'opera senza nome.

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