§ IL CORSIVO

La forza della viltą




Giovanni Arpino



Indifferente alla sua storia, l'italiano sopporta, tira avanti. Gli osservatori stranieri rimangono allibiti, non hanno più un metro adatto a misurarci. Dicono: se queste maree di scandali, assassinii, brutture, incapacità politiche avessero investito gli olandesi o gli svedesi, avremmo forse assistito ad un autogenocidio collettivo, ad una disperata reazione a catena di massacri familiari. Ma l'italiano, no; sopporta, resiste, riesce persino a ridere, se la sfanga durante la sua giornata maledetta, onorerà le vacanze pasquali ed estive con tutto l'impegno possibile.
Siamo intraducibili, ma non traiamone vanto. La nostra capacità di assuefazione al dolore è pari alla nostra viltà. E forse è questa la misura che allo straniero appare invisibile. Siamo stati sempre detti un popolo di individualisti, ma per il vero siamo solamente asociali. Individualista è l'inglese, ferocissimo nel difendere la sua "privacy", guai se gli tocchi un filo d'erba in giardino. Individualista è il cittadino di Amsterdam, che pedala e rispetta i fiori e non vuole essere seccato dal suo governo. Ma tutti e due, l'inglese e l'olandese, quando escono di casa sanno mettersi in fila per l'autobus o il cinema o davanti a uno sportello. Noi, asociali, confondiamo la libertà con la licenza, la briciola di diritto con l'arroganza, il dovere con la tutela dello stipendio. Sono cose ovvie, che è persino inutile ripetere, ma stanno alla base di trentacinque anni di democrazia e di una quarantina di crisi di governo. L'italiano sa benissimo dire: la democrazia sono io, e gli altri cerchino di arrangiarsi se vi riescono.
Sono discorsi vieti, ma che mantengono intatta la loro amarezza. Non badiamo a costruire una nostra storia, vi nuotiamo dentro cercando di evitare i danni e le insidie quotidiane. Troppi secoli di diffidenza verso qualsiasi forma di regime ci hanno incallito in una disposizione al "qui ed ora, ma per me". Non crediamo alle promesse che ci piovono dall'alto, siamo prontissimi ad applaudirle, purché queste promesse non comportino sacrifici.
Inoltre: beliamo. Proprio perché gregge asociale, non individualista. L'Italia dell'andazzo fa salire belati da ogni dove. Se per caso una singola voce si permette di dir la sua, il coro dei belati aumenta fino ad assordire e con lo scopo di soffocare quello strillo. Divisi in correnti, in cosche, in apparati sindacali, in frazioni, in enti, in federazioni, gruppi di italiani belano uno contro l'altro, disputandosi verità, bugie e casse sociali.
Sopravviviamo grazie a questa viltà, ma simile forza biologica non può farci godere. Da noi, anche gli assassini sparano alla schiena. Da noi, si assoldano avvocati di grido che ci asciughino le lacrime davanti ai giudici. Da noi, anche chi strepita per la rivoluzione, per tutti i possibili aborti, per il ribaltamento dei costumi, arrivato al dunque, "tiene famiglia", e lacrimando si affida alla benevolenza della legge, ai cavilli giuridici, alla complicità popolare o togata. Come gregge belante, ed anche se belante in coretti contrapposti, ci siamo sempre ritenuti furbissimi. Persino la nostra cultura ha elogiato i soprassalti malandrini del dopoguerra, quando contrabbandieri, borsaneristi e "sciuscià" facevano sparire soldati negri nei vicoli di Napoli o intere corazzate. A furia di furberie, ci ritroviamo ad annegare in un bicchiere di petrolio razionatoci dall'Arabia Saudita o da Gheddafi. A furia di volerci glorificare come straccioni sublimi, pronti al belato, abbiamo fornito un'immagine pazza di noi, nel mondo, dove decine di migliaia di italiani - di certo i migliori - sono costretti a cambiare nazionalità.
Osservatori di ogni Paese ci guardano come microbi impazziti sotto il microscopio. E' antico destino, che non abbiamo saputo correggere nemmeno negli anni migliori, neppure sfruttando il trampolino del famoso "boom" economico. I nostri comportamenti creano scompiglio in ogni assise internazionale, ovunque temono un italico sgambetto, anche quando la ragione è dalla nostra parte o viene espressa al Parlamento Europeo di Strasburgo. Siamo al grado zero della credibilità italiana e la crescita degli scandali fornisce materia, da Parigi a Londra a Tokio, per stupori, sbalordimenti, dubbi via via più incancreniti.
E tuttavia continuiamo a belare. Al belato aggiungiamo gesti e striscioni che minacciano o irridono. Con uno slogan rimato riteniamo di salvare una fabbrica. Con un'assemblea irriverente siamo certi di risolvere problemi economici o ideologici. Con micidiali tavole rotonde televisive ci illudiamo di essere democratici e aperti. Con articoli che grondano saccenza siamo convinti di rimettere a posto ogni questione. I colti si intervistano tra di loro, gli incolti si guardano bene dal leggerli. I poeti si camuffano da cantautori, i cantautori si esibiscono pur non possedendo un filo di voce, ma solo microfoni.
L'Italia dell'andazzo non la si controlla solo facendo le pulci ad un governo che va e ad un governo che viene. La si ausculta nei caffé, nelle scuole, nelle famiglie, in tram. Abbiamo un bel dire, in un ulteriore belato: le galere sono stracolme, ma la stragrande maggioranza degli italiani è onesta. Fatto sta che le galere offrono un biglietto da visita a tutti coloro che sono impegnati a giudicarci. Cinquantasette milioni di italiani, in un'Europa così barcollante, vengono visti come un popolo riottoso e negativo, una palla al piede per l'intero continente. L'ultimo belato, se la Storia ci sarà contraria, come minaccia, ce lo imporranno gli altri. Tosandoci.

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