Ma non è tutto bronzo quello che luce




Michele Prisco



A partire da qualche tempo l'estate sta diventando sempre più la stagione degli spettacoli: con quella propensione al neologismo così tipica della nostra società, si cercano e si creano "spazi alternativi", nuove occasioni di "aggregazione sociale", e nelle grandi città spopolate (anche quest'anno?) dai cittadini che possono permettersi l'evasione delle vacanze nei luoghi deputati e abbandonate ai turisti (anche quest'anno?) e alle migliaia di cittadini che non possono partire, si avvicenda, fra stadi e piazze e cortili, una girandola pullulante di commedie, concerti, balletti; esibizioni di mimi, di gruppi folcloristici con pretese etnografiche, di cantanti, di malinconici poeti declamanti (perché anche la poesia comincia a reclamare il suo "spazio"): spettacoli per la più parte raffazzonati (coi soldi della Regione) alla men peggio, salve rare eccezioni, e offerti a una folla spesso poco olezzante, che nei resoconti di qualche cronista nostalgico poco manca diventi "oceanica".
Viene il sospetto che al fondo di questa politica spettacolare (non oseremo dire culturale, anche se quasi sempre parte dagli Assessorati alla Cultura) ci sia un pizzico di demagogia e, insieme, una spinta a quel gusto dello spettacolo che, nel nostro popolo, assomiglia a volte a un'esigenza addirittura morbosa, e ci riferiamo in particolare alla recente dolorosa esperienza di Vermicino, dove un'intera nazione, come nella notte dell'allunaggio, è restata davanti alle telecamere e avremmo detto si trattasse di un'autentica partecipazione umana se poi, scaricata l'emozione della presa in diretta, non fossero sopravvenute le prime ingiuriose insinuazioni sul comportamento e i retroscena della famiglia di Alfredino a porci il triste dubbio che, ancora una volta, anche quella tragedia s'era risolta solo, per molti, in uno spettacolo (col complemento del brivido sul come-va-a-finire).
I bronzi di Riace entrano anch'essi in questo fenomeno che tende a fare della cultura spettacolo di massa? Abbiamo visto quest'inverno la mostra di Kandiskj a Roma e, più di recente, quella di Picasso a Venezia tra nugoli di scolaresche vocianti e distratte che ai quadri alle pareti davano rapidi sguardi disattenti unicamente provocatori di allegria: e abbiamo letto dai giornali che le statue esposte al Quirinale hanno attirato solo il primo giorno diciottomila e duecento visitatori, molti già in coda alle sei del mattino, felici, dopo, di poter pronunciare il fatidico "io c'ero". E viene spontaneo chiedersi: a quando, insieme con i poster già in commercio, le magliette con l'effigie sul petto dei due enigmatici giganti?
Per nostro conto, le vedremo quando saranno definitivamente collocati in quello splendido museo archeologico che è il Museo di Reggio Calabria (quanti lo conoscono?), allorché si sarà attenuato, si spera, il fanatismo d'obbedire, come in un pellegrinaggio, a quella singolare parola d'ordine che scocca simile a un contagio, per cui di tratta ogni volta d'un avvenimento al quale bisogna-assolutamente-assistere.
Né, ad essere sinceri, condividiamo l'opinione che la sosta dei bronzi anche a Napoli, com'era stata formalmente richiesta, rappresentasse un contributo "alla faticosa ripresa culturale della città", per la quale occorre ben altro, ci sembra che "un'aggregazione" di moda con relativa nevrosi collettiva d'una lunga fila al sole (col traffico che ci ritroviamo!), e del resto già si erano andati organizzando taluni gruppi-bene che da Napoli son corsi a Roma a vedere Status A e Status B, come sono stati ribattezzati burocraticamente, i due bronzi.
Il nostro non è un discorso èlitario: nasce solo dal disagio, e non dire dall'insofferenza, di constatare come persino il concetto di cultura si sia trasformato ed equivocato: e come la prevaricazione della cronaca e la martellante ossessione quasi pubblicitaria dei grossi mezzi di informazione abbiano ormai stravolto i nostri atteggiamenti comportamentali sino a mutarci in supini automi pronti, in aggiunta all'ossequio per il vuoto consumatorio e per le spese inutili della qualificazione sociale, anche all'immediata "fruizione" d'una cultura che per molti rappresenta solo un fortuito impatto dall'esterno e non, come dovrebbe essere, un approdo all'interno, e per formazione ed educazione e lievitazione naturale.

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