Rodi junior




Giuseppe Cassieri



Pare assodato che il Giannone, tutto preso dai suoi impegni storici e giusnaturalistici a carattere europeo, precocemente coinvolto in circostanze politiche che dovevano allontanarlo per sempre dalla nativa Ischitella, non abbia lasciato alcuna impressione autobiografica sulla piccola Rodi, pura tiro d'archibugio dalla casa dove venne alla luce. Non uno strappo lirico, non un atteggiamento stupefatto, contemplativo dinanzi alla natura che da monte a mare a lago, passando per boschi e valloncelli, si compendiava in un guazzetto alla Poussin.
Dimenticanza troppo grave all'occhio dei rodiani perché memorialisti coevi e posteriori a Pietro Giannone, specie Michele Rotunno e Antonino Vaccaro, non facessero del loro meglio per restringere nelle "Appendici" i meriti di chi minacciava di guadagnarsi la posterità nonostante quella e altrettali lacune. E anche quando, pochi decenni orsono, un prefetto di Foggia, imbeccato dall'alto, suggerì ai sindaci garganici di intitolare una strada all'autore del Triregno, nella piccola Rodi prevalse l'antico dispetto sul sussurrato rispetto, e il Consiglio Municipale pervenne alla deliberazione di chiamare Corso Giannone una sconnessa fettuccia extramurale.
Forse l'ubicazione della targa in quell'angolo derelitto fu soltanto genericamente irriguardosa: la periferia e basta; ma non si può escludere che uno dei notabili, ispirato giustiziere, abbia suggerito quel "Corso" per applicare una sorta di contrappasso. Di che, infondo, si era occupato l'autore del Triregno, parlando di sé, nella Vita? Per caso dei trastulli dell'infanzia al cospetto degli aranceti, dei gagliardi oliveti, dei giganteschi olmi e lecci, delle acque zampillanti al tocco di ogni verga? Per caso dei capitoni del Varano con un sospiro nostalgico per gli eccezionali arrosti alla griglia, in una combinazione aromatica di luppolo e finocchella? O delle dolci colline agrumifere denominate "coppe", da cui affacciarsi e contemplare le Diomedee (non ancora volgatizzate in Isole Tremiti) avvolte nell'oro del mito? Niente, niente in quelle pagine "raspose" che fosse spia di uno spirito innamorato della sua terra, lusingato di portarne in giro le tracce. Quel pochissimo che vi aveva dedicato, ricostruendo gli anni dell'infanzia, ecco in che si distillava: nome e cognome ("ci mancherebbe!" commenta scandalizzato il Rotunno) dei genitori e di qualche stretto parente, nome e cognome del prete che gli insegnò grammatica latina; e dopo siffatte minutaglie l'episodio a piene lettere dell'imbarazzo viscerale, sicuramente grave ("ma dov'è quel fanciullo che non ne ha avuto e non ne avrà?" - vedi A. Vaccaro) per cui Pietruccio stette tra vita e morte.
E insistendo sui dettagli - con tutto quello che c'era da dire sulla popolazione e sul paesaggio - quale meraviglia giunge a insinuare il grande storico? l'imbecillità, l'ignoranza dello speziale ("sissignore, sarà stato vero, ma carità di patria richiedeva di non perpetuare il qui-pro-quo di un conterraneo" - M. Rotunno, ibidem) che aveva venduto alla madre del malatino chissà che famigerato purgante, se gli fece rischiare la liberazione precoce dell'anima. Nessun dubbio che l'avesse scampata "col favore di un Arcangelo" e che Pietruccio fosse rimasto così traumatizzato da quella "profluvie", da risultare, per contrasto, molto stitico in veste di autobiografo. Ma si poteva liquidare in due paginette sommarie e fortemente 'realistiche' la ellenica bellezza dello "Sperone, d'Italia" (M. Rotunno e A. Vaccaro, all'unisono) e partirsene da mercenario? Meglio, allora, il totale silenzio.
Si aggiunga che un contemporaneo dell'Ischitellano, Giacomo Manicore, frate cappuccino di incerta provenienza, scrivendo la sua "Geografia Appula", usciva a dire, a coronamento di un inno antropico: "Qui a Rodi junior, figlia diletta della Rodi major, innanzi che gli uomini abitarono gli dei". Si aggiunga che il frate, in agonia, volle essere trasportato dai confratelli sulla loggia del convento per godersi in un'estrema panoramica la dimora dei buongustai pagani, parafrasando nei gemiti il verso riferito a S. Cristoforo: "Rodi videas, postea beatus eas ... " Si tenga presente questo parallelo sapientemente ravvicinato dal Rotunno e dal Vaccaro, e si spiegherà l'abbondanza delle monografie manicoriane sul Promontorio, nonché l'intestazione del Belvedere, che di solito accoglie le casse armoniche e i comizi, all'appassionato cappuccino, col corsivo: "Rodi videas, postea beatus eas".
Un pò più elaborato, se si vuole, del "Vedi Napoli e poi muori", ma appunto per questo in armonia con la struttura notevolmente orgogliosa dei rodiani (a proposito, il Rotunno si batte per rodi in disaccordo col Vaccaro che propone rodiesi) i quali, se accettano di discendere da Rodi Egeo, disdegnano legami di lingua e di sangue con le città del Tirreno, alla stessa stregua che disdegnano Roma e Garibaldi (l'una per non aver provveduto, nei fasti consolari, a una ramificazione dell'Appia, l'altro per non avervi fatto tappa nel suo zingaresco viaggio nel Sud) e non si sgomentano di affrontare l'economia di mercato avventurandosi da soli nel mondo. Tanto che oggi non c'è volantino compilato dalla Pro-Loco che non riporti il verso del Manicore, e finanche sulla "Frankfurter Allgemeine Zeitung", fidando sul romanticismo germanico, le inserzioni che vi fanno compatire gli affittacamere rodiani concludono col: "Rodi videas ... " opportunamente tradotto per il turista di massa in un: "Lascia le brume e dimora nella nostra omerica città".
Cosa dunque troveranno, appena approdati, i visitatori stranieri e, similmente, gli italiani attratti dal medesimo slogan? Per la verità, di Omero non è accertabile alcunché, e perfino il Rotunno e il Vaccaro debbono convenire che l'"omerico" vale per definizione augurale, nel senso che un luogo così fatto sarebbe immensamente piaciuto a Omero. Su questo non si può dar loro torto. Rodi junior si pronuncia a sprone sullo spartiacque del Medio e Basso Adriatico dopo che - un'illusione ottica cui difficilmente si sfugge - ha "chiesto" alla campagna circostante di potersi sfoltire di alberi, coprirsi di caseggiati insolitamente alti (fino a sei piani), e bagnarsi tra gli scoglietti di ponente.
Per essere situata, come si diceva, al punto di congiunzione del Basso e Medio Adriatico, accade che il paesino sfugga a ogni determinismo metereologico, e il campo cursorio dei venti e delle piogge obbedisca a una circoscritta validità ambientale. Questo non vuol dire che la sua posizione sia assolutamente privilegiata rispetto al resto del Gargano e che nella risacca si spengano per magìa le ire del greco-levante; ma è innegabile che un certo favorevole gioco di correnti si attui se l'inverno si congloba nell'autunno, se l'estate è lunga ma ombrosa, se la primavera si traduce in una frenesia di aranci fioriti. Giacché questa è, infine, la riprova della strordinaria mitezza: la predominanza di agrumi sugli oliveti e sulle altre colture. Inesistenti i cereali, rari e svettanti gli alberi di noci nel mezzo di ciascun giardino, alla maniera di parafulmini; segno di squisita attenzione della dea Pomona (il Manicore, il Rotunno e il Vaccaro in perfetta coincidenza di vedute), la varietà della frutta: dai fichi che maturano in cinque qualità e resistono sui rami da giugno a novembre, ai fichidindia della durezza di una cassata e del colore di un fiocco cardinalizio, prugne e susine, percoche e pere spadone, amarene e nespole, uva moscata, carrube grasse col miele che scorre come tiepido mercurio nella longilinea guainella e, si capisce, la regina del corteo, l'arancia. Quest'ultima, i rodiani hanno faticato un paio di secoli per imporla come la migliore del Mediterraneo, ma non avendo ottenuto un autorevole riscontro, hanno fatto sapere in Sicilia, in Calabria, a Sorrento e a Fondi che la riconoscevano essi come tale ed erano superflue ulteriori discussioni.
Vittoria più facile, e forse mai contestata, la ebbero viceversa con i limoni. Agronomi, docenti universitari, esportatori e medici di chiara fama non esitarono a individuare nel grado di acidità del limone nostrano una caratteristica che lo poneva automaticamente in una posizione di gran rilievo "su scala internazionale".
Durante il colera del 1866, le statistiche assicurano che fu possibile risparmiare qualche migliaio di vite umane proprio in virtù dei rodianissimi limoni, mentre a S. Severo, a Foggia e più lontano l'epidemia faceva tale strage da generare empietà nei sopravvissuti. Non si contarono i morti che poi non erano morti ma solo considerati morti, seppelliti in fretta, con palesi segni di "sepolti vivi". Anche nella piccola Rodi, ci tramanda un memorialista più equanime del Vaccaro e del Rotunno, Luigi Quagliarulo, un'anziana signora, colpita da semplice collasso, venne sepolta in un bagno di calce nella Chiesa del Crocifisso su istanza del figlioccio sconvolto dall'idea del contagio.
Ma subito il Quagliarulo aggiunge che furono i bravi trabaccoli rodiani a sfidare i divieti delle autorità sanitarie, a caricare la stiva del prezioso prodotto e a trasportarlo nottetempo in Dalmazia, allorché nel 1898, nel 1907 e nel 1913 taluni centri di quella regione furono investiti da disastrose ondate di colera.
Conti alla mano, non si può comunque negare che arance e limoni siano qui diventati un lusso da principato di Monaco. Con tutta la protezione della Vergine della Libera e la benignità atmosferica, ogni quattro, cinque, sei anni si verifica la "gelata": a due gradi partono i limoni, a tre sotto zero marciscono le più superbe arance. Il che significa non solo fallimento del raccolto in atto, bensì pregiudizio per moltissime piante ferite nel tronco e nella fibra più intima. Il che, ancora, significa che per i tre anni successivi il raccolto sarà compromesso nella qualità e nella quantità dal 30 al 70%. Non solo, ma per evitare che le piante colpite parzialmente si atrofizzino, l'agricoltore s'imbarca, spesso a debito, in costose cure di stabbio e preparati chimici, sprofondamento di buche, le cosiddette "conche", intorno alla pianta per giungere il più possibile vicino alle radici
Se la natura rispetta i suoi cicli, ai quarto anno dalla gelata, il raccolto e presumibile che venga completo e molti proprietari saldano i debiti, aggiustano la casa, mandano i figli all'Università. Se però in quel quarto anno di recupero Spagna e Florida inondano il mercato a prezzi concorrenziali del MEC, la completezza del raccolto paga un cospicuo tributo alla scarsa possibilità di reggere il confronto. Al quinto, al sesto o al settimo anno, stando alle statistiche, il gelo ricompare e il paese torna a radunare "le sue lacrime e le sue preci" dietro il manto della Vergine della Libera portata in processione dal Santuario al Belvedere, nella speranza, mai assecondata a detta dei memorialisti, che le falde di neve si posino impunemente sull'aurea buccia.
Eppure, il forestiero tedesco, olandese, francese o italiano del Nord che vi arriva d'estate non scoprirà alcun sintomo di quest'incubo. Il paese è terribilmente mimetico, il verde gli agrumi, per quanto possa stingersi sotto il morso del gelo, è sempre squillante nell'inquadratura turistica; i rodiani finiscono per illudere se stessi che non è vero, o se è vero, che il malessere è provvisorio; si esaltano a luglio e ad agosto perché migliaia di automobilisti "intercontinentali" transitano sulla loro rotabile e sostano nelle piazzette per ammirare trasecolati quello "scrigno della Magna Grecia" e fotografarlo.
In piena stagione neanche i vuoti dell'esodo hanno possibilità di manifestarsi nella loro imponenza, poiché rimpatriano in spenderecce vacanze i nativi trapiantati a Milano, a Torino, in Germania; le case traboccano in un caos di carni umane di cui sarebbe sciocco distinguere il fittizio e il reale.
La recrudescenza, invece, ricompare e addirittura scoppia ogni anno più rabbiosa sul finire di agosto; seimila abitanti dell'ultimo censimento scendono a cinquemila, a tremila a cinquecento; per le strade non sciamano che ragazzi inferiori ai quindici anni.
Ma come il daltonico non è da considerarsi cieco se vede solo in bianco e nero e la vita collettiva, pur ridotta alle proporzioni di un plastico da chiudere in una stanza, appare pur sempre un intero, così Rodi junior, anche menomata nel numero degli abitanti e intimorita dal prossimo gelo, non cessa di riorganizzarsi nelle retrovie. Un encomiabile spirito di corpo domina i pensieri degli amministratori e di chi non si è mosso e rifiuta di muoversi; e anzi, per uno di quei gesti di grottesca nobiltà che spinge il miliardario in rovina ad accendersi la sigaretta con un biglietto da diecimila, il Municipio ha acquistato e installato una marziale sirena nel palazzo del Comune. Una sirena di emissione megatonica, quale non si ebbe durante la guerra in tutta la provincia e contro la cui esuberanza, a dimostrazione della salda nervatura dei cittadini, nessuno ha finora sporto lamentele. Invano si cercherebbe un legame tra strumento e fine; invano si rinverrà nel paese e nei dintorni una qualche industria, un reparto artigianale, una cooperativa, un consorzio, una segheria, cui spezzettare razionalmente le ore della giornata; ma la sirena esiste.
Il primo fiotto scaturisce come da una bocca ciclopica alle 7 e fa tremare i vetri più delicati del comprensorio. Poi, due ore d'intervallo, ed eccola alle 9 squarciare come una scimitarra le ben avviate faccende dei rodiesi. Anche in questo caso risorgono, perentorie e un tantino irritate, le perplessità. Per chi l'annuncio? Le scuole aprono alle 8,30; avvocati, cancellieri e pretori sono nell'aula giudiziaria alle 8,30; i barbieri e i bottegai hanno tirato su i bandoni da una, due ore; il panificio non conosce soste; gli impiegati osservano l'orario unico e sono in ufficio chi alle 8 chi alle 8,30. Per chi, dunque?
Di nuovo stasi - con tutti i minuscoli rumori di un paese sì "ellenico" ma terribilmente rimbombante nelle sue basole - e rieccola alle 12 con tre furiose incornate contro il muro del suono. Per chi?
Una spiegazione è forse possibile se si fa riferimento alla politica locale. Il Comune da trent'anni è governato dai socialisti, col sindaco - ormai a vita, pare - votato per il suo interclassismo, anche da molti democristiani e perciò ideologicamente svuotato di vivacità dialettica. Qualcuno deve aver rilevato e criticato la collusione con "le lacrime e le preci" dei conservatori, e dunque nulla di più comprensibile che l'istituzione progressista della sirena. Questa, in sostanza, tenderebbe a rappresentare il tempo "laico" così come le campane delle quattro chiese rappresentano il tempo "confessionale".
Se pertanto si accetta il sottofondo polemico della sirena (del resto il Quagliarulo narra che tra il 1898 e il 1910 a Rodi facevano faville due bande musicali: una del popolo minuto, "la rossa", e un'altra del ceto abbiente, "la gialla", e a suon di brani d'opera si scontravano liste, eletti ed elettori) anche il suo funzionamento apparirà meno cervellotico. Alle 7, alle 9 e alle 12 non farebbe che ribattere per allusioni e simboli la chiamata delle tre messe.
Solo una campana resta senza contraddittorio: quella delle 11,30. In tal caso èproprio il batacchio ad agire sconsideratamente, non corrispondendo né ad un ufficio né ad un avviso di pubblico pericolo. Se si domanda il perché al sagrestano, costui risponde che ha suonato così da quarant'anni, alle 11,30, e non si sa chi diavolo l'abbia inventata la regola; se ci si rivolge al parroco, anche il parroco tentenna e rimanda a una generica tradizione; se si consulta il Vaccaro e il Rotunno, quel batacchio si dissolve nel delirio delle incursioni turche o indietreggia fino al paleocristiano. Solo il Quagliarulo, da quella voce impersonale che tiene ad essere, scrive in una sua "Appendice" che l'uso della campana alle 11,30 antimeridiane "devesi intendere come annuncio alle massaie che è ora di mettere a soffriggere cipolla e pomodori e di mettere altresì sul fuoco la pentola per i tagliolini, i fusilli e gli strascinati (orecchiette)".
Non dichiara esplicitamente, il Quagliarulo, il nome di colui che introdusse o legittimò l'usanza; ma tra le righe s'indovina quel Troiano Canaviglia, epigono dei feudatari rivieraschi, che risplende come un Lawrence d'Arabia nella storia di Rodi junior.
Dal che si sarebbe indotti a credere che il cittadino rodiano-rodiese voglia raccomandarsi per le sue particolari ghiottonerie; ciò che in verità risulta improprio. Rodi junior non può esibire alcun primato gastronomico; diremmo anzi che il rituale del desinare si svolge con esasperante monotonia a base di "linguine", zuppa di scorfani, cetrioli e melanzane. Al cibo terrebbero con parsimonia e semmai abbondano nel vestiario. Le contraddizioni, però, ugualmente si susseguono. Va bene, non tengono al cibo, ma Rodi junior è il paese garganico di maggior consumo di latte, formaggi, carni bovine. Non solo, ma mentre il rodiano non ha nulla da esportare, tranne, s'intende, gli agrumi all'ingrosso e il fascino del paesaggio, i terragni dei paesi vicini scendono tutte le mattine come gastaldi incontro al castellano, con furgoni carichi di verdura, patate, melloni del Lago Varano, capperi dei tenimenti di Peschici, indivia e zucca di Vieste, latte di mucca di Canneto, latte di capra di Ischitella, provoloni e mozzarelle di Sannicandro. Inoltre, pur dimezzato dall'esodo, le botteghe di alimentari da trentaquattro son salite a quarantuno e tendono ad aumentare. Quarantuno negozi per tremila abitanti, e forniti di tutti i prodotti nazionali ed esteri, compreso il prosciutto di Praga. Se quarantuno sono i negozi di alimentari, undici sono quelli di tessuti e mercerie, tre le boutiques, due i panifici elettrici e tre i forni a legna, otto i bar, sette i negozi di elettrodomestici, quattro di mobilia, sei le cantine, otto le pizzerie, e un cinema per mille posti, con l'arena estiva nel patio.
Accertato, come è stato accertato, che Rodi junior è atavicamente povera, negata alle grosse fatiche fisiche, e la sua fisionomia tradisce quel tanto di fragile, pittoresco e scettico che è nel carattere delle civiltà decadenti, essa vanta qualcosa che i paesi garganici della mezza montagna non possono assolutamente eguagliare: la nessuna inclinazione al crimine, alla rissosità.
I registri della Pretura permettono di riscontrare come sia inequivoco questo aspetto sociale: contro la ridda dei delitti consumati, nel giro di trent'anni, in agro di Carpino, Cagnano, Sannicandro, San Marco, San Giovanni, il rapporto e di uno a mille. II furto più frequente a Rodi junior avrebbe fatto impazzire di tenerezza Goethe, se quegli fosse venuto sullo "Sperone d'Italia" (vedi il Quagliarulo, ibidem) "anziché perdere tanto tempo a Napoli": l'innocente e davvero omerica concupiscenza di fichi che trova appagamento nelle uccelline", nelle "verdesche", nelle "cipressuole", nei "faraoni". Per i cinque mesi in cui matura e si moltiplica questo frutto prodigioso, chi non ne possiede in proprio non resiste alla tentazione d'intrufolarsi nelle altrui campagne, arrampicarsi sulle piante, allentarsi la cinta e star lì accovacciato come uno scoiattolo fino all'estinzione del desiderio. Non a caso, volendo dire nel gergo rodiano fare scempio di qualcosa, si dice comunemente: "E' stato conciato a pedafico" (cioè ad albero di fico follemente strapazzato). Metastasi espressiva in cui è da leggere a un tempo il piacere della trasgressione e il trionfo della sensualità.

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