La "spagnola"




R. T.



Nell'autunno del 1918 il primo conflitto mondiale fu sul punto di finire non perché una delle due parti prevalesse sull'altra in battaglia, ma perché una devastante epidemia falcidiava a centinaia di migliaia le forze in campo. Era una forma influenzale, venne chiamata "spagnola", e fu uno dei più tremendi flagelli che avessero mai colpito il mondo. In pochissimi mesi uccise ventidue milioni di uomini: biblica calamità superata soltanto dalla "Peste di Giustiniano", che ebbe inizio nel 542 dopo Cristo intorno a Bisanzio e in cinquant'anni fece ben cento milioni di vittime, e dalla "Morte Nera", che tra il 1347 e il 1350 si portò via sessantadue milioni di persone.
Sui vari fronti europei i soldati cadevano come le mosche. Vi fu un momento in cui sia i tedesco-austroungarici che gli alleati parvero sul punto di arrendersi, perché le loro divisioni si disfacevano non sotto l'attacco nemico, ma sotto quello influenzale. A decidere il principe Ma di Baden, Cancelliere del Reich, a chiedere l'armistizio senza discutere, accettando tutti i quattordici punti del presidente Wilson, fu soprattutto la spaventosa mortalità che infieriva nelle file germaniche e nelle città tedesche; e come ebbe dato il suo consenso alla resa, il Cancelliere di mise a letto d'urgenza, a sua volta sconfitto da un morbo che sembrava inarrestabile.
Fu un avvenimento che sconvolse il mondo, e la cui memoria non si è ancora affievolita, a sessanta e più anni di distanza. Un lugubre incubo parve destinato a cancellare dalla Terra la razza umana. Contro di esso non esisteva difesa scientificamente valida, sicché si adottarono le terapie più strampalate e avventurose, riportando di colpo una medicina totalmente impreparata ai rituali magici e alle pratiche tribali. E poiché, come spesso accade, non si era prestata alcuna attenzione alla sua comparsa, la malattia colse di sorpresa il mondo quando deflagrò, nell'ottobre 1918; così come nessuno, quando la pandemia sembrava ancora infuriare, riuscì a spiegarsene l'improvvisa sparizione proprio nella notte del 31 dicembre di quell'anno, dopo centoventi giorni di assoluto e incontrastato dominio della morte.
La "spagnola". La chiamarono in questo modo, probabilmente, perché in origine si era manifestata in Spagna, in forma all'inizio benigna. Nel mese di febbraio del 1918 un flash alla "Reuter" dell'Agenzia Iberica "Fabra" diceva: "Una strana forma di malattia a carattere epidemico ècomparsa a Madrid". Non so dove sia finito quel messaggio. Non è escluso che sia stato buttato in un cestino. In piena guerra mondiale, che gli spagnoli avessero "una strana malattia a carattere epidemico" non faceva certo notizia. Che a Madrid un terzo della popolazione stesse a letto, e che lo stesso re Alfonso XIII fosse malato, costituiva al massimo una curiosità. Si sapeva in modo generico di che si trattava: il termine "influenza" con il quale si definiva quel tipo di affezione era antico, glielo avevano dato gli italiani Domenico e Pietro Buoninsegni nel 1580, quando si erano persuasi dell'"influsso" delle stelle sulla salute dell'uomo. Di solito si guariva presto. Dunque assolutamente nulla di straordinario.
E così non ci si preoccupò, perché il mondo aveva ben altro a cui pensare. I sintomi della malattia erano tosse, dolore agli occhi e alle orecchie, indolenzimento alla regione lombare. Poi torpore, brividi di febbre a quaranta. L'incubazione durava due giorni, con mal di gola e di testa. Al terzo giorno i sintomi sparivano. Una forma benigna.
Il dramma cominciò trai mesi di aprile e di maggio, quando si constatò che il morbo si diffondeva senza riparo: in Francia, in Scozia, in Grecia, in Macedonia, in Egitto, in Italia, in Germania, in Austria, in Norvegia, in India... E poi giunse fino a Canton, a Lima, in Costa Rica. A settembre, lo spettro della morte già si allungava sul mondo intero, seminando terrore e lutto. Mentre la gente moriva, i medici non sapevano dove batter di capo. Alcuni credettero che il morbo fosse dovuto solo ed esclusivamente allo stato di generale denutrizione dei popoli, causato dalle privazioni di una terribile guerra; altri lo curavano con impacchi freddi, altri col caldo, altri ancora segregando nelle case i malati, altri infine facendoli vivere all'aperto, esposti alle intemperie.
Il professor Pittaluga, docente di Medicina Tropicale all'Università di Madrid, luminare della scienza, se la cavò dicendo che si trattava di una malattia del tutto nuova, e quindi praticamente sconosciuta. Il Comandante in Capo della Sanità Militare Inglese, dopo molti studi, si limitò ad allargare le braccia: non ne capiva nulla. Sembravano i dottori di Pinocchio.
Intanto, uomini e donne continuavano a morire come in un'ecatombe. A Roma si registrò una media di cinquecento decessi al giorno. Richard Collier, nel recentissimo libro "La malattia che atterrì il mondo", racconta episodi che oggi sembrano appena credibili. Come quello del tramviere Charles Lewis, di Città del Capo, il quale si trovava fuori servizio su un tram, diretto a casa, quando vide cadere stecchito l'addetto alla vendita dei biglietti. Ne prese subito il posto, ma uno dopo l'altro cinque passeggeri si accasciarono fulminati dalla "spagnola". La vettura si fermava, i cadaveri venivano deposti ai lati della strada, quindi proseguiva. Gli spazzini provvedevano a raccogliere i colpi. Poi Lewis corse a sostituire il manovratore, crollato anche lui. Gli altri passeggeri sembravano indifferenti o rassegnati. Lewis guidò il tram per un pò, staccò la manovella e scese. Riuscì, tra brividi violenti, a raggiungere a piedi la sua casa. Era salvo.
A mano a mano che il male avanzava, nelle città si chiudevano i teatri, i cinema, i ristoranti, i locali pubblici. Nelle caserme e nelle trincee l'epidemia colpiva peggio dei bombardamenti. Si diffondevano voci pazzesche: per esempio, che in un campo militare degli Stati Uniti d'America fossero stati fucilati ufficiali e soldati perché non si era creduto alla loro malattia e li si era giudicati, invece, dei ribelli. Le navi venivano bloccate in quarantena nei porti, ma spesso, quando la quarantena era tolta, si scopriva che a bordo vi erano soltanto cadaveri. Nelle strade si distribuivano, da parte di personale col volto coperto da maschere di garza, minestre calde per impedire che la gente morisse di fame, incapace com'era di procurarsi il cibo e priva di forza a causa del male.
Non c'erano medicine efficaci. Non esistevano né gli antibiotici né i più che nel 1957 avrebbero debellato l'"asiatica". Non si trovavano dottori in numero sufficiente, perché la maggior parte di essi erano richiamati alle armi. Gli ospedali erano ridotti a depositi di infelici abbandonati nelle corsie, i vivi accanto ai morti, spesso dimenticati e mai visitati dai sanitari. Insomma, qualche cosa di simile, tanto per intenderci, agli odierni ospedali del Terzo Mondo. Si somministravano delle purghe, del latte spruzzato di seltz, del chinino, della fenacetina. Soprattutto si raccomandavano i malati alla Provvidenza.
Naturalmente, pochi governi si segnalarono per un'azione organica contro questo flagello. In genere, e come al solito, essi lasciarono che ciascuno provvedesse per sé, limitandosi a impiegare gli uffici sanitari, a fornire tende e disinfettanti e ad annunciare piani e progetti di difesa che restavano regolarmente sulla carta. L'importante era fare la guerra e cadere eroicamente al fronte: quelli che venivano uccisi dalla "spagnola" si potevano perfino considerare morti importuni.
In parecchi Paesi parve tornato il Medio Evo. Le case delle vittime dell'epidemia venivano contrassegnate con una croce rossa e con la scritta "Dio, abbi pietà di noi!", oppure con una bandiera gialla recante la lettera "I" (influenza). Nessuno vi entrava. I garzoni lasciavano le provviste sull'uscio e scappavano; si intravedeva una mano scheletrita ritirare i pacchi e richiudere. Collier non dice se circolassero i monatti, come al tempo della peste di manzoniana memoria. Probabilmente sì, solo che non si chiamavano più con quel nome. Erano coloro che caricavano sui carri, a decine, i cadaveri e li trasportavano nelle fosse comuni. Disse William Davies, facoltoso industriale appena dimesso dall'ospedale di Groote Schuur, più tardi reso celebre da Barnard e dal primo trapianto cardiaco: "Stiamo forse per essere spazzati via?". "Per la prima volta in vita mia ho paura, credo proprio che stiamo per esserlo", fu la risposta del clinico Frederik Willmot.
Drammatica la condizione del Mezzogiorno italiano, dove case di cura e ospedali erano scienza d'un altro pianeta. I morti mescolati agli ammalati dentro le case, dentro i tuguri; ammucchiati per le strade; o trasferiti nei "lazzaretti", in centri di raccolta che, in moltissimi casi, hanno dato un nome a un intero quartiere, sono un preciso punto di riferimento topografico e urbanistico. Partiti i giovani per la grande guerra, le popolazioni residenti vennero falcidiate. Era tale la moria, che in alcuni casi neanche i cimiteri bastarono più, e spesso si fu costretti a far ricorso alle fosse comuni o anche a sepolture sovrapposte, fino a quelle superficiali, a un massimo di cinquanta centimetri dalla superficie. Non pochi di questi cimiteri, dopo la fine dell'epidemia, vennero chiusi e sigillati, e immediatamente sostituiti con altri, quasi sempre recintati in aree extraurbane diametralmente opposte.
Poiché l'ecatombe continuava e non c'era la più pallida idea di che cosa la provocasse (un virus? un bacillo? i maiali?), fu necessario - dopo i medici - mobilitare i dentisti, e alla fine anche i veterinari, e persino gli studenti in medicina. Dai farmaci classici si passò a quelli empirici: il tabacco, il vino caldo con lo zucchero, il sidro, una sbronza, succhi di limone. L'aspirina era una scoperta nuova e veniva guardata con sospetto: sarà vero che fa male al cuore e favorisce la polmonite? Non si sapeva nulla di nulla. Un certo dottor Roland Burkitt, di Nairobi, significativamente chiamato "ammazza o cura", faceva sistemare i pazienti tra lenzuola bagnate e ordinava ai servitori di 'continuare a innaffiarli, come fossero piante. Chi non moriva era guarito. Una delle due.
Perì anche molta gente celebre. Tra gli altri, il commediografo Edmond Rostand, il poeta Guillame Apollinaire, il Primo Ministro del Sud Africa, il principe Erik di Svezia, il principe Torlonia, la figlia di Buffalo Bill, l'eroe dell'aereonautica britannica Leefe Robinson, che era sopravvissuto perfino a un combattimento nel corso del quale era stato abbattuto dall'asso tedesco Von Richthofen, il Barone Rosso. Si salvarono, ma per un pelo, Franklin Roosevelt, Walt Disney, Mary Pickford, la regina Alessandra di Danimarca, il Presidente del Brasile, il Maresciallo Joffre, il Generale Pershing che comandava le forze americane in Europa, il Kaiser, Lloyd George. In realtà, la "spagnola" non faceva distinzioni tra reggia e tugurio. Ma furono le genti contadine a contare il più gran numero di morti. Insieme con quelle artigiane. Non un verso, non una canzone popolare rimasta a ricordo di quei terribili giorni: lutto e terrore, dolore e morte lasciano ben altre memorie. Desolante lo spettacolo delle campagne pugliesi, lucane, calabresi, isolane: sfoltite dalle chiamate alle armi, rimasero deserte durante e anche molto tempo dopo il flagello.
Un'economia di per sé asfittica, e in gran parte destinata all'autoconsumo, finì sul lastrico. Atti di eroismo ed episodi di saccheggio quasi si equivalsero. Le associazioni di volontari salvarono il salvabile, in giorni in cui il mestiere di vivere si era trasformato in quello di poter in qualche modo, e disperatamente, sopravvivere. Languirono i commerci: gli scarsi raccolti diedero un nome alla crisi che non risparmiò nessuno. Bande di predatori scorazzavano dappertutto, in particolare nel Mezzogiorno centro-occidentale.
L'unico posto che rimase immune dal morbo, a livello terracqueo, fu l'isola di Sant'Elena, dov'era stato prigioniero Napoleone. E non si è mai riusciti a capire perché. Quando tutto, come per magia, finì, e vennero fornite le statistiche dei morti di "spagnola" nel nostro Paese, si ebbe la dimensione esatta della catastrofe: le vittime erano state 3 75 mila, in tre mesi. Nessuna regione della Penisola risparmiata. Particolarmente colpite le aree del Sud, continentale e insulare.
375 mila: in tre anni di guerra mondiale, con i massacri del Carso e dell'Isonzo, si era giunti a seicentomila. Nemmeno il doppio.

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