Narratori del sud nel dopoguerra




Anita Chemin Palma



L'estetica del realismo, che seguendo vie diverse si andava definendo negli anni del dopoguerra, poneva necessariamente il problema di forme linguistiche conformi alla sensibilità dei nuovi autori. La lingua letteraria ereditata dalla cultura precedente, o peggio ancora la retorica improbabile della cultura ufficiale fascista, sembravano incapaci di riprodurre l'immediatezza del parlato e la espressività del dialetto, ed erano quindi largamente insufficienti per l'attività letteraria neorealista. Più che di disquisizioni teoriche, la questione della lingua fu oggetto di soluzioni empiriche, dal tentativo di far rivivere nell'italiano forme idiomatiche e paradigmi tipici della letteratura americana, che tanto fascino esercitava su alcuni autori, alla commistione più o meno sapiente di lingua e dialetto, che per gli autori meridionali significava, in definitiva, immettersi nel solco tracciato dalla tradizione verista. In questo senso, rilevante è l'impegno di Domenico Rea: nella sua opera, strutture e cadenze proprie del vernacolo si ibridizzano con la lingua, e ne nasce una prosa luminosa, talora ricercata ma al tempo stesso sempre vitale, ricca, quasi pittorica. Nella sua Napoli brulicante di figure, la miseria e la disperazione si esprimono in toni sommessi, più simili al canto degli spirituals che agli accenti vibranti del dramma, e la speranza di riscatto abortisce nell'angustia e nella stolidità del vivere alla giornata:

"Il giorno prima della calata degli americani, Nofi aveva ancora la piazza coperta di carogne di cavalli e muli del fu quartiere militare. Qualcuno vi aveva gettato un giornale sopra. C'era un cavallo rosso con gli occhi neri, con la criniera disfatta e la bava divenuta di gesso sulla bocca. Un altro era nero, coi denti in fuori. Rassomigliava ai vecchi di novanta anni appena morti. Per la prima volta i nofinesi avevano l'occasione di osservare a piacere una testa putrefatta di cavallo. Gli occhi sembravano uova fritte in padella. Qualcuno alzava le zampe di un cavallo e le lasciava ricadere. Qualche altro scopriva la coda. Poveri cavalli, distesi e in pace, non avevano proprio colpa di nulla. A decine, per giorni, avevano percorso le strade di Nofi, se ne sentivano i passi sopra i ricoveri. Vedevano un uomo, si fermavano, chissà con quali speranze, e l'uomo, giocoforza, per mangiare, ne uccideva qualcuno. Gli altri squagliavano. E i cadaveri stavano per tutte le strade, persino nei fiumi. Il prete che andava sulla carretta, trascinata da due ragazzi, benedisse anche loro. Benediceva tutti quel prete:
"Siete vivi per combinazione" diceva "anzi, oggi si celebra la resurrezione dei morti".
Le tubazioni erano scoppiate, i basoli divelti. Motociclette tedesche abbandonate. La gente che ne capiva di motori se le portava a casa. Altra gente trasportava i morti della sua famiglia al camposanto, anch'esso bombardato, e sembrava, dalle tombe scoperchiate, che i morti fossero usciti spezzando le lastre a capate."
(D. REA, BREVE STORIA DEL CONTRABBANDO, IN "GESU' FATE LUCE", 1950)

Un posto a sé occupa la produzione di Rocco Scotellaro. Parlare di realismo èpersino banale di fronte ad un'ispirazione tanto intimamente ed esclusivamente radicata nell'humus contadino qual'è quella di Scotellaro. I due incompiuti che ci sono rimasti, il romanzo autobiografico "L'uva puttanella" e l'inchiesta "Contadini del Sud", nonostante le differenti impostazioni di partenza, saggistica l'uno, narrativa l'altro, sono complementari nel delineare una dimensione territoriale e contadina da un punto di vista estremamente interessante e rivelatore: in "Contadini del Sud" gli intervistati si narrano in prima persona e l'intervento esterno è limitato a rendere intelligibile il discorso senza perderne la ricchezza descrittiva e il colore: ne "L'uva puttanella" la breve storia di Rocco si intreccia alla storia della sua gente e dei suoi contadini, con una partecipazione e una consapevolezza che fanno di Scotellaro una figura unica nel panorama non solo letterario ma anche politico di quegli anni:

"Successe il fatto prima che queste parole fossero scritte. Pasquale portava una mantellina inverno ed estate, non doveva possedere più la sua giacca.
Camminava pauroso tra la gente. Un onesto artigiano che non si fidava più avrebbe avuto bisogno di figli e nipoti secondo la regola. Invece era solo, non serviva più; gli ultimi fuochi pirotecnici li preparò per la festa del Primo Maggio, scelsero lui che aveva la tessera e passava le sere seduto nella Camera del Lavoro, aveva chiesto di lavorare e proposto un prezzo amichevole confacente con la somma esigua della sottoscrizione. Aveva fatto scoppiare comuni mortaretti nei punti dove il corteo si fermava e una piccola festa gli fecero, dopo gli ultimi colpi in piazza, quelli del Comitato dicendogli un bravo e consegnandogli la somma contata a lungo, in cinque lire, nelle mani che gli fremevano: - "Andrò a comprare il pane alcuni giorni."
Si vedeva la sua festa, la mantellina avvolta al collo, gli occhi guardavano attorno, ingoiava saliva, parlava: "Un'altra volta pensateci a tempo, spareremo di più, preparo dei giuochi e in ultimo faccio uscire la bandiera.".
.....( ).....
Andò per essere ricoverato all'ospizio di mendicità, i vestiti erano sporchi e logori, lì ti lavano, magari ritorni bambino e stai in chiesa e vai in fila con gli altri vecchi a due a due, ma stai comodo e c'è il letto buono e la pulizia. Gli chiesero se dava la casetta in cambio del ricovero. Doveva pensarci. La casetta era a pianterreno, sotto la chiesa madre: il letto e una cassa vecchia avevano lo stesso colore di unto e di fumo, la carta per i mortaretti, un ripostiglio per la polvere e lo spago e le stecche di legno per le girandole alla rinfusa qua e là. Un contadino dei vicinato andò a trovarlo: - "Perché non me la vendi questa casa?" Si accordarono e fecero l'atto, ma lui doveva restare nella casa, fino a che si trovava un bugigattolo di affitto. E con i soldi che si vide, malgrado il freddo che si sentiva addosso e gli anni, comprò materiale per concorrere alle feste e contrattare i fuochi."
R. SCOTELLARO, L'UVA PUTTANELLA, 1956)

Il risultato più alto della letteratura meridionale di quegli anni, per completezza e maturità di concezione poetica e per felicità d'espressione, è il romanzo della maturità di Francesco Jovine, "Le terre del Sacramento". Gran parte dei temi propri del neorealismo convergono qui, in una sintesi che bene esprime le promesse di riscatto di cui fu gravida quella esperienza letteraria: le miserie dei contadini diseredati del Sud sotto il regime fascista; il ruolo dell'intellettuale, non più passivo spettatore dello svolgersi della storia ma impegnato in prima persona a determinarne l'indirizzo politico; l'attenzione per una realtà colta nel compiersi di un mutamento e di una crescita collettiva. Il linguaggio si modella duttilmente sul materiale narrativo, èforma elementare, talvolta rozza, ma essenziale nel dialogare tra contadini, quando tra antiche sottomissioni e vecchi proverbi si fanno strada i primi bagliori di coscienza e di ribellione, ed è canto collettivo spontaneo, primigenio, e nel contempo uscito dagli antri più bui della tradizione nel lamento funebre delle donne sull'assassinio del protagonista, Luca Marano. La profonda congruenza tra poetica del neorealismo ed esperienza umana e politica, in Jovine, la sua adesione alle ragioni dei suoi personaggi, alle loro speranze e alla loro umanità, la sua "pulizia" da residui di sensibilità intimistico-decadente, fanno de "Le terre del Sacramento" un'opera quanto mai convincente e significativa:

"Un giorno Seppe Marano, voltando la coppia di asini che tiravano l'aratro, aveva superato i confini.
"Sei andato un'altra volta più in là del termine", disse Immacolata, quando vide la pietra scura di confine spiccare sulla terra smossa.
"Non faccio niente di male", rispose Seppe. "C'è ancora buona terra prima che incomincino le pietre. Che faccio di male se l'aro e la semino?"
"E' terra di Dio, Seppe. Dove incominciano i terreni del Sacramento non si può lavorare".
"Dove c'è terra buona, Iddio la benedice, Immacolata", disse Seppe. "Questo èfiore di terra, e non si può lasciarla così, senza ararla".
"Nella piana le hanno arate, la primavera scorsa, le terre ei Pavoncelli. Sono stati i contadini di Fadena. Volevano seminarla senza pagare il fitto al padrone". Parlava Arduino Maranca, un bracciante di trent'anni, che aiutava i Marano.
"Lo so; lo hanno raccontato anche a me", disse Seppe, "ma poi è finita male. Non si può prendere la terra ai padroni. Vedi, io ho arato, ma non prendo niente a nessuno. Se Felice Protto se ne accorge, io sono pronto a pagare. lo faccio una cosa buona. Sono pronto a pagare, se me lo dicono. Ma quelli che erano nella Piana non volevano pagare niente".
"E facevano bene, sangue di Giuda", disse Arduino. "Quella era terra che da trecento anni non lavorava nessuno. Se non la lavorava nessuno non apparteneva a nessuno".
"Non c'è la legge, secondo te?" disse Seppe Marano. "Il padrone ci pagava le tasse su quelle terre, e ne faceva quello che voleva".
"Fregava i soldi agli altri cafoni che gli lavoravano la terra buona, e pagava le tasse anche per quella cattiva. Questa è una buona legge? Quando eravamo al fronte", continuò Arduino, "eravamo sette paesani nello stesso reggimento: quattro di Motruri e tre di Pietrafolca, e dicevano che quando finiva la guerra ci sarebbero state leggi nuove".
"E invece c'è sempre la legge vecchia", disse Immacolata Marano, puntando il sarchio sul solco e appoggiando le mani sulla punta del manico con attitudine guerriera. "Zappa, se vuoi mangiare", aggiunse.
"lo voglio zappare, ma non c'è terra, zia", disse docile Arduino. "Voi parlate così perché avete terra al Calandro. Ma qui, a Morutri, a Pietrafolca, a Samanna siamo centinaia senza un pugno di terra e andiamo a giornata come pezzenti". "E che vuoi fare?" disse Immacolata. "Noi abbiamo tre fazzoletti di terra al Calandro, e siamo sette persone a lavorare. Non ci basta la terra. A nessuno basta la terra. Ma non vogliamo fare peccato".
"Tu dici che noi faremmo peccato se coltivassimo le terre del Sacramento?" disse Arduino Maranca. "Ho parlato con i compagni di Pietrafolca, e molti dicono che con la legge nuova noi dovremmo coltivare le terre del Sacramento".
"Terra rubata alla Chiesa", disse Immacolata Marano. "Tutte le volte che si zappa, un fulmine colpisce la Cappella. Questo lo sappiamo tutti".
Arduino scuoteva la testa per dire che non era persuaso.
….( ).....
Immacolata scendeva lentamente seguita dalle altre donne, mugolando. Da tutti i lati delle Terre venivano le donne e si raccoglievano intorno alla maceria.
Luca, Gesualdo e Marco Cece furono adagiati sulle pietre. Gesualdo si era svuotato di tutto il suo sangue ed era compatto come un sasso. Luca aveva la ombra della giovane barba sul viso e ancora un debole incarnato sulle gote; Marco, le orbite profonde dei cadaveri antichi.
Davanti alla maceria c'era la pozza del loro sangue, che la terra fradicia non riusciva a bere.
Immacolata Marano alzò le mani al cielo con un urlo e s'inginocchiò nel fango; poi tacque, con la testa bassa, e fissava la pozza di sangue. Le donne la presero sotto le ascelle e la trassero indietro. Poi fecero siepe dei loro corpi, ai congiunti degli uccisi. Rimasero mute a guardare i morti finché la cima del Timbrone non cancellò l'ultima luce. Quando la notte divenne buia, i vecchi accesero i fuochi alle spalle dei morti. A un tratto Immacolata Marano urlò:
"Luca, oh Luca!" e si mise le mani intrecciate sul capo dondolando sul busto.
"Luca, spada brillante", gridò una voce giovanile.
"Spada brillante", ripeterono in coro le altre.
"Stai sulla terra sanguinante".
Via via le donne si misero le mani intrecciate sulle teste, altre presero le cocche dei fazzoletti nei pugni chiusi e li percuotevano facendo:
"Oh oh! Spada brillante, stai sulla terra sanguinante!".
"T'hanno ammazzato, Luca Marano".
"A tradimento, Luca Marano".
"Non lo vuole la terra il tuo sangue cristiano".
"Difendevi le terre del Sacramento".
"Erano nostre, nostre le terre".
"Avevamo le ossa per testamento".
"Le avevamo scavate con le nostre mani".
"T'hanno ucciso, Luca Marano".
(F. JOVINE, LE TERRE DEL SACRAMENTO, 1950)

Già verso la fine degli anni '50 la forza delle idee trainanti della poetica neorealista sembrava appannarsi. Alla base della crisi stava il maturarsi delle contraddizioni e delle inadeguatezze proprie di quella proposta, un ideologismo spesso eccessivo, certe soluzioni estetiche semplicistiche e poco meditate, ma stavano soprattutto le mutate condizioni ambientali e storiche: le grandi speranze della Resistenza erano ampiamente disattese dal mantenimento delle leggi e della struttura statuale del fascismo, se pure con qualche ripulitura negli aspetti più macroscopicamente discordanti con la Costituzione Repubblicana; la crisi politica e propositiva della sinistra lasciava spazio alla gestione moderata del Paese; lo sviluppo economico prendeva velocità, ma restavano uguali, o addirittura si approfondivano, il divario tra le classi e le differenze tra Nord e Sud, e soprattutto al benessere incipiente non si accompagnava un equivalente progresso sociale. Una delusione storica, in definitiva, per quanti avevano visto nella Liberazione l'inizio di una palingenesi sotto il segno della crescita civile.
Allo stesso tempo, se la società italiana non si rinnovava, di certo, però, mutava, assumendo le forme enigmatiche, spesso inquietanti, della civiltà ad alto tasso di industrializzazione e creava modi di vita, culture, valori radicalmente nuovi. Si pensi al fenomeno della cultura di massa o al repentino sconvolgimento provocato in sistemi familiari o comunitari, rimasti immutati per decenni, dall'inurbamento massiccio al seguito delle grandi industrie.
Stanchezza e disorientamento si ritrovano anche nella produzione letteraria di quegli anni: si sconta il militantismo della narrativa post-bellica con un doloroso ripiegamento interiore, che ripropone le domande angosciose del "chi siamo, dove andiamo", si esplorano nuove vie per definire la condizione umana nell'era delle macchine disumanizzanti; si raccolgono le sollecitazioni provenienti dalle scienze sociali o dalla psicologia per analizzare l'alienazione individuale. Segno dei tempi, fu emblematicamente, il successo de "II Gattopardo", opera postuma di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Tomasi sembra qui rifarsi agli illustri precedenti di romanzo storico a sfondo risorgimentale che si erano avuti nella letteratura meridionale, e nel ricreare l'ambiente della Sicilia, non più borbonica e non ancora sabauda, consegue non di rado notevoli risultati di affresco. Il nucleo del romanzo, tuttavia, sta nella narrazione disincantata dell'abilità politica con cui i ceti nobiliari siciliani seppero, all'unità d'Italia, mutar pelle allo scopo di perpetuare se stessi al potere, e "cambiar tutto per non cambiare niente". Questa pratica "Gattopardesca" diventa però in Tomasi una categoria storica, una sorta di istinto di conservazione delle classi dominanti, cui si contrappone solo la fatalistica acquiescenza dei dominati, e che porta dopo ogni rivolgimento politico all'elusione sostanziale delle istanze di rinnovamento in nome delle quali gli uomini lottano e muoiono. Al di là del pessimismo storico di Tomasi, che fece inorridire più di un critico, la sintonia dell'assunto con quanto avveniva sulla scena politica italiana in quegli anni era indubbiamente notevole.
Infine, come nelle scatole cinesi, che sempre più piccole stanno una dentro l'altra, fino all'incredibile, nel "Gattopardo" c'è un terzo livello, dopo l'affresco storico e la riflessione politica, ed è l'accorato senso del disfarsi di una classe e della sua cultura, nonostante il trasformismo dei suoi membri più abili o forse propri o a causa della prontezza, che costoro dimostrano, nell'abbandonare i valori in cui sono cresciuti per abbracciare quelli che li manterranno al potere. In una raffinata, personalissima prosa, a cui non è estranea la grande lezione del romanzo europeo moderno, Tomasi minia la figura del principe Fabrizio Salina, uomo del suo tempo e della sua classe, partecipe dell'istinto di conservazione della nobiltà siciliana e pure sicilianamente scettico e fatalista, perennemente in bilico tra l'impulso ad agire e la coscienza dell'inutilità di ogni azione, consapevole del "male del tempo", ineluttabile e cosmico:

"Adesso aveva penetrato tutti i riposti sensi: le parole enigmatiche di Tancredi, quelle enfatiche di Ferrara, quelle false ma rivelatrici di Russo, avevano ceduto il loro rassicurante segreto. Molte cose sarebbero avvenute, ma tutto sarebbe stato una commedia, una rumorosa, romantica commedia con qualche macchia di sangue sulla veste buffonesca. Questo era il paese degli accomodamenti, non c'era la furia francese; anche in Francia d'altronde, se si eccettua il Giugno del Quarantotto, quando mai era successo qualcosa di serio? Aveva voglia di dire a Russo, ma la innata cortesia lo trattenne: "Ho capito benissimo: voi non volete distruggere noi, i vostri "padri"; volete soltanto prendere il nostro posto. Con dolcezza, con buone maniere, mettendoci magari in tasca qualche migliaio di ducati. P così? Tuo nipote, caro Russo, crederà sinceramente di essere barone; e tu diventerai, che so io, il discendente di un boiardo di Moscovia, mercé il tuo nome, anziché il figlio di un cafone di pelo rosso, come proprio quel nome rivela. Tua figlia già prima avrà sposato uno di noi, magari anche questo stesso Tancredi, con i suoi occhi azzurri e le sue mani dinoccolate. Del resto è bella, e una volta che avrà imparato a lavarsi ... "Perché tutto resti com'è". Come è, nel fondo: soltanto una lenta sostituzione di ceti. Le mie chiavi dorate di gentiluomo di camera, il cordone ciliegia di S. Gennaro dovranno restare nel cassetto, e poi finiranno in una vetrina del figlio di Paolo, ma i Salina rimarranno i Salina; e magari qualche compenso lo avranno: il Senato di Sardegna, il nastro pistacchio di S. Maurizio. Ciondoli questi, ciondoli quelli".
.....( )......
C'erano anche i nipoti: Fabrizietto, il più giovane del Salina, così bello, così vivace, tanto caro.
Tanto odioso. Con la sua doppia dose di sangue Màlvica, con gli istinti goderecci, con le sue tendenze verso un'eleganza borghese. Era inutile sforzarsi a credere il contrario, l'ultimo Salina era lui, il gigante sparuto che adesso agonizzava sul balcone di un albergo. Perché il significato di un casato nobile è tutto nelle tradizioni, nei ricordi vitali; e lui era l'ultimo a possedere dei ricordi inconsueti, distinti da quelli delle altre famiglie. Fabrizietto avrebbe avuto dei ricordi banali, uguali a quelli dei suoi compagni di ginnasio, ricordi di merende economiche, di scherzucci malvagetti agli insegnanti, di cavalli acquistati avendo l'occhio al loro prezzo più che ai loro pregi; ed il senso del nome si sarebbe mutato in vuota pompa sempre amareggiata dall'assillo che altri potessero pompeggiare più di lui. Si sarebbe svolta la caccia al matrimonio ricco quando questa sarebbe divenuta una routine consueta e non più un'avventura audace e predatoria come era stato quello di Tancredi. Gli arazzi di Donnafugata, i mandorleti di Ragattisi, magari, chissà, la fontana di Anfitrite avrebbero avuto la sorte grottesca di esser metamorfizzati in terrine di foie-gras presto digerite, in donnine da Ba-ta-clan più labili del loro belletto, da quelle delicate e sfumate cose che erano. E di lui sarebbe rimasto soltanto il ricordo di un vecchio e collerico nonno che era schiattato in un pomeriggio di Luglio proprio a tempo per impedire al ragazzo di andare a fare i bagni a Livorno. Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L'ultimo era lui. Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto."
(G. TOMASI DI LAMPEDUSA, IL GATTOPARDO, 1958)

Una riflessione più matura dei rapporti che legano realtà e letteratura e un taglio narrativo decisamente moderno caratterizzano la produzione di Leonardo Sciascia, che spazia in una vasta gamma di moduli espressivi, dal romanzo-inchiesta della sua prima prova, ai molti lavori di genere poliziesco, dalla rievocazione storica, al saggio. Anche se Sciascia è stato spesso considerato uno dei più diretti eredi del neorealismo, il diverso rapporto con la materia narrativa, più completo dal punto di vista dell'indagine sociologica e più approfondito nella visione politica, lo pone in effetti molto "oltre" quella esperienza. Sciascia analizza l'intrecciarsi di eredità antropologiche, errori storici, deviazioni politiche attuali nel comporre le storture e le iniquità della società contemporanea, italiana ma soprattutto siciliana, testimoniando sempre un profondo impegno civile e una quasi illuministica fiducia nella ragione:

"II confidente di S. rischiava la vita: una cosca o l'altra, con un colpo doppio a lupara o con una falciata di mitra (anche nell'uso delle armi le due cosche facevano differenza), un giorno lo avrebbero liquidato. Ma tra mafia e Carabinieri, le due parti tra cui muoveva il suo azzardo, la morte poteva venirgli da una sola parte. Da questa parte non c'era la morte, c'era quest'uomo biondo e ben rasato, elegante nella divisa; quest'uomo che parlava mangiandosi le esse, che non alzava la voce e non gli faceva pesare disprezzo: e pure era la legge, quanto la morte paurosa; non, per il confidente, la legge che nasce dalla ragione ed è ragione, ma la legge di un uomo che nasce dai pensieri e dagli umori di quest'uomo, dal graffio che si può fare sbarbandosi o dal buon caffè che ha bevuto, l'assoluta irrazionalità della legge, ad ogni momento creata da colui che comanda, dalla guardia municipale o dal maresciallo, dal questore o dal giudice; da chi ha la forza insomma. Che la legge fosse immutabilmente scritta ed uguale per tutti, il confidente non aveva mai creduto, né poteva: tra i ricchi e i poveri, tra i sapienti e gli ignoranti, c'erano gli uomini della legge; e potevano, questi uomini, allungare da una parte sola il braccio dell'arbitrio, l'altra parte dovevano proteggere e difendere. Un filo spinato, un muro. E' l'uomo che aveva rubato e scontata una condanna, che stava coi mafiosi e mediava prestiti ad usura e faceva la spia, cercava soltanto una breccia nel muro, uno slargo nel filo spinato. Presto avrebbe avuto in mano un piccolo capitale e aperto negozio; e il figlio più grande teneva in seminario, ché si facesse prete o ne uscisse prima di prendere gli Ordini per diventare, meglio che prete, avvocato. Varcato il muro, non poteva più far paura la legge: e bello sarebbe stato guardare quelli rimasti di là dal muro, del filo spinato. Così, lacerato dalla paura, a vagheggiare la sua pace futura, fondata sulla miseria e l'ingiustizia, un pò si consolava: e il piombo della sua morte intanto colava."
(L. SCIASCIA, IL GIORNO DELLA CIVETTA, 1961)

Il nodo uomo-industri a, coni mutamenti ambientali e soprattutto i mutamenti nella cultura e nella vita sociale dell'individuo determinati dal rapporto di lavoro neocapitalista, è un tema centrale nell'attività letteraria tra la fine dei '50 e i primi anni '60. Uno degli approcci più nuovi alla questione, anche se non estremamente fecondo di risultati, fu lo sperimentalismo linguistico, che tentava di riprodurre, visivamente sulla pagina stampata e foneticamente nella lettura, il disordine nella comunicazione introdotto dal nuovo modello industriale.
Ancora sul piano narrativo si pone invece "Donnarumma all'assalto" di Ottiero Ottieri, romanzo non di autore meridionale ma su una situazione meridionale, abbastanza tipica nel periodo del boom economico, dapprima contadina e poi rapidamente in mutamento, quando cala l'industria dal nord. La contraddittorietà della presenza della fabbrica, corpo estraneo dal cervello settentrionale, attorno al quale finiscono per convergere le speranze di tutto il paesino, è vissuta in modo lacerante dallo psicologo, il cui amaro compito consiste nel selezionare chi è adatto ad approfittare delle potenzialità della fabbrica e chi invece deve restare disoccupato:

"Sono entrato per la prima volta, all'improvviso, nel laboratorio psicotecnico. C'erano i candidati, seduti ai banchi, e hanno alzato il capo dai fogli dei test per osservarmi. Eccone un altro, pensavano, il nuovo, l'ultimo venuto. Che tipo è? Porta bene o male? Lo sanno che il nuovo impiegato arriva sul loro destino. Una luce forte fluiva dalle due pareti di vetro, d'angolo, ma subito mi sono tolto gli occhiali neri; tuttavia mi sono comportato freddamente, da funzionario indecifrabile, senza guardare in faccia nessuno. Infatti non ho veduto nessuno. Ho salutato la signorina S., la mia collega, e mi sono dato da fare a sfogliare le pratiche dei candidati sul tavolo accanto alla lavagna.
Fingevo di esserci ancora immerso dentro, quando ha gracchiato la sveglia sul nostro tavolo. Scadeva il tempo concesso per la prova scritta su cui stavano arrampicandosi. La signorina, alta, settentrionale, vicina a me ha fatto risuonare una voce fatidica: Consegnare! e tutti si sono mossi. Noi abbiamo raccolto dai banchi i fogli riempiti e loro si sono agitati e stirati sulle sedie come se si svegliassero. Subito la signorina S. con voce stentorea ha scandito la spiegazione della prova seguente, dopo aver distribuito i fogli nuovi in fretta e aver ricaricato la sveglia.
Era un "reattivo" per scoprire le attitudini intellettuali non verbali, un classico dei test, chiamato "Incastro": esso richiede che con gli occhi, con la fantasia, soppesandole e rigirandole nella propria testa, si incastrino figure geometriche disegnate a fondo pagina, dentro altre, in cima alla pagina, che hanno appositi spazi bianchi. Non è possibile aiutarsi con le dita, come verrebbe la tentazione; le dita non afferrano i disegni. E' un test complesso, che misura l'intelligenza, e in parte un'attitudine meccanica, dove molti fattori si mischiano. Per quanto ogni test voglia scoprire una faccia dell'uomo, in ogni faccia vi sono tutte le altre. Via! ha detto la S. .
Le teste dei disoccupati, quindici, si sono piegate.
Si poteva notare un grande zelo. Soffrivano, a rigirarsi quelle figure senza potersi aiutare con le mani, in uno sforzo di manipolazione astratta, di forme innate. O si sarebbe potuto assistere alla nascita dell'idea, del processo ideativo, nel punto più profondo e remoto di tutta la mente umana. Ma poco dopo, come a scuola, uno tentava di copiare. Un altro alzava la mano per chiedere una spiegazione inutile: si era dimenticato la sveglia, i tre minuti e mezzo, e, secondo lui, prendeva tempo. Ma il reattivo vive di un acume veloce, istantaneo, non è un giuoco di pazienza. Un altro voleva temperare il lapis. Due mostravano di essere bravissimi, avevano già finito e con occhi vuoti e scaricati contemplavano il soffitto. Invece qualcuno ha lasciato in bianco subito e si è arreso. Nel frattempo abbiamo avvistato un analfabeta che non sapeva tenere il lapis in mano, che non leggeva le lettere A B C ..., i segni indicativi delle figure da mettere negli spazi bianchi, e che invece di incastrare, col brusio interno del cervello al lavoro, arzigogolava una specie di firma in fondo al foglio. La sua materia cerebrale, ignara, taceva del tutto."
(O. OTTIERI, DONNARUMMA ALL'ASSALTO, 1963)


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