§ SCRITTORI SALENTINI FRA LE DUE GUERRE

Michelangelo La Sorte




Enzo Panareo



La Murgia dei Trulli diventa presenza nella topografia letteraria del salento attraverso la narrativa, in particolare, di Michelangelo La Sorte, (1) di Martina Franca. Una presenza viva, aspra e forte di violente e generose passioni, che risponde ai nomi di località come Martina Franca fiera e barocca, Alberobello fiabesca e industriosa, Locorotondo eminente e fertile, Cisternino bianca e irreale, stili non solo di una geografia struggente nella stupefacente suggestività dei suoi richiami paesistici, ma di una storia anche - umana, civile e sentimentale - nel cui svolgersi si stempera, per diventare nozione e valore spirituale, un ciclo storico cui ancora oggi si torna, con lo scopo di riudirne le profonde risonanze e di tesaurizzarne i preziosi insegnamenti. Infatti, il fulcro ideologico intorno al quale ruota organicamente tutta l'operazione narrativa del La Sorte è la prima guerra mondiale, alla quale lo scrittore partecipò da volontario meritando promozioni sul campo e decorazioni con lusinghiere motivazioni per compiuti atti di eroismo; ma è, soprattutto, il combattentismo, ed in particolare, il combattentismo deluso, nel quadro delle cruente lotte politiche succedute al conflitto nel clima acceso delle rivendicazioni combattentistiche ed operaie del 1919. Anno cruciale fu, com'è noto, questo, nel corso del quale tutte le componenti della società italiana, da quelle combattentistiche - che cominciavano a maturare i primi, inevitabili, disinganni per la situazione nella quale avevano trovato il Paese - a quelle operaie (che si ponevano in posizione antagonistica rispetto a quelle imprenditoriali in virtù degli elementi di novità che il conflitto aveva fatto emergere) a quelle intellettuali (che aspiravano a gestire, per la parte che loro sembrava dovesse competere, il corso tumultuoso del dopoguerra) si agitavano con istanze che la classe politica non riusciva a convogliare verso una soluzione in grado di affermare, nella precaria pace restituita alle popolazioni, quei valori di giustizia sociale e di tranquilli là economica cui la gran massa dei combattenti aveva aspirato nel fondo fangoso delle trincee e sotto l'imperversare della mitraglia micidiale.
Svariate furono, nel quadro delle diverse sensibilità, culture e istituzioni, sociali ed economiche, le prospettive tumultuosamente avanzate dai reduci alla classe dirigente, che stancamente si dibatteva tra una politica estera evidentemente rinunciataria ed una politica interna, sul piano dell'economia, di assoggettamento alla grande borghesia industriale e finanziaria che, con la riconversione produttiva, si accingeva a recuperare le leve della gestione economica, e dunque anche politica, dello Stato. Le cui pessime condizioni finanziarie, conseguenza delle pesanti spese di guerra, impedivano di soddisfare le richieste, pur legittime che, provenendo dal basso, dai ceti popolari, organizzati nelle formazioni socialiste e cattoliche, davano alla borghesia produttiva, esponente del vecchio ceto liberale, il senso di una minaccia incombente che, più che attentare alla proprietà privata, attentava, in realtà, alle istituzioni dello Stato.
Furono queste ultime a denunciare, coni loro tentennamenti ed in qualche caso con la loro resa assoluta, la crisi profonda del vecchio sistema liberale che, a sua volta, si rifiutava, dopo aver scatenato la guerra, di pagare il prezzo, alto senza dubbio, che le conseguenze, forse imprevedute, della guerra, imponevano. Tra queste, la messa in discussione di un assetto sociale nel quale al proletariato era sottratto ogni strumento rappresentativo nella gestione di uno Stato che di giorno in giorno minacciava di franare. Da tutto ciò, una impressionante serie di scioperi, che rendevano difficile la vita quotidiana del Paese e - ciò che più atterrì i conservatori ad oltranza - un colpo al latifondo assenteista, che le classi contadine reclamarono con il diritto che veniva loro dalle promesse ricevute dopo l'episodio di Caporetto.
Emergeva così, da un dopoguerra convulso nel quale le frustrazioni di carattere storico alimentavano una dialettica politica accesa e, ancor più, uno scontro di classe di giorno in giorno sempre più cruento ed, in qualche caso, portato a livelli preinsurrezionali, una problematica sociale estremamente complessa e, in molti casi, anche assurdamente contraddittoria, nella cui trama gli spiriti pensosi della vigilia, indipendentemente dalle collocazioni ideologiche rispettive, tentavano degli eventi quotidiani di cogliere il nesso con la tradizione politica italiana. Una tradizione che già nel cinquantennio postunitario, ed in particolare tra gli ultimi anni dell'Ottocento ed i primi del Novecento, s'era delineata con le sue, non esaltanti, specificità. Non fosse stato per il socialismo, che già alla fine dell'Ottocento cominciava ad amalgamare le masse, si può dire che soltanto la prima guerra mondiale aveva fuso, sui fronti di combattimento, un proletariato disgregato e, tutto sommato, quasi indifferente ed a tratti anche ostile alle istanze democratiche da una parte e nazionaliste dall'altra con le quali la piccola e media borghesia degli intellettuali, ufficiali di complemento per lo più che avevano diviso con i fanti i sacrifici della trincea, era andato al fronte. E' opinione, legittima, del Carocci che "Moltissimi di questi ufficiali erano dei piccolo-borghesi che il ritorno alla vita civile faceva scendere di rango e che non erano più disposti a tollerare la grigia routine quotidiana dopo anni di vita esaltante". (2)
Il dopoguerra, con le sue agghiaccianti realtà, non poteva non segnare, nella dinamica della situazione tipicamente italiana, la vanificazione di quelle istanze e l'inevitabile reazione delle masse combattenti le quali, a loro volta, si scontravano con il reazionarismo della classe dirigente, da quella politica pavida e incerta a quella economica sempre più esosa, quella classe dirigente che nel 1922, con la fine dello scontro di classe e la sconfitta del movimento operaio, determinava una svolta drammatica nella storia d'Italia.
Tanto più nel Mezzogiorno agrario lo scontro fu drammatico, funesto, dove la politica di marca giolittiana delle camarille e delle fazioni ad arte messa in moto andava ulteriormente deteriorando il già frammentato tessuto sociale, ponendo la politica municipalistica in termini di scontro di persone, sottraendola alle visioni storiche dettate dalle ideologie. Che pur operavano, ma secondo una chiave mistificata che in molti casi le rendeva irriconoscibili e, dunque, inefficaci. E fu dunque scontro, questo che si sviluppò nei Comuni del Mezzogiorno, brutale e privo di qualsiasi tensione ideale in quanto non sorretto da quelle convinzioni di fondo che determinano la legittimazione culturale, di pensiero, di ogni lotta politica. Che restava, allora, così impostata, depauperata delle spinte e delle motivazioni essenziali, provocando in chi vi s'impegnava, sia nell'effimero successo che nella sconfitta bruciante, quel senso di sfiducia e d'inanità cui qualsiasi classe dirigente, a livello amministrativo come a livello nazionale, non può affidare i propri destini.


A restarne sconfitta è, comunque, sempre la parte economicamente più debole e più indifesa. In questo caso fu il bracciantato agrario ed urbano che esprimeva rancori secolari aderendo - nei Comuni dove la lotta amministrativa più era personalizzata e dunque meno era posta nel solco delle scelte di classe - alle fazioni, facendosene anzi fagocitare e contribuendo così, anche inconsapevolmente, alla crescita di quella borghesia agraria che, una volta visti in pericolo i suoi privilegi, si sarebbe affidata al fascismo. Andrebbero, a questo punto, anche analizzati i sistemi di persuasione messi in opera dalla borghesia agraria per fagocitare il consenso atipico del proletariato sedotto da astratti motivi ideali o da falsi motivi reali. In ogni caso, una classe vide tutelati del tutto dal fascismo nel Mezzogiorno i propri interessi e del regime si fece sostenitrice strenua: la categoria dei grossi agrari, irritati ed intimoriti dalle crescenti occupazioni di terre e dagli scioperi agricoli, dalle "crescenti" pretese dei "cafoni". Per i quali, in realtà, malgrado tanta demagogia, l'avvento del fascismo significò la perdita delle conquiste parziali ottenute nell'immediato dopoguerra dalle organizzazioni contadine: i contratti collettivi che sopprimevano le prestazioni supplementari e gli iniqui privilegi padronali; i miglioramenti per ciò che riguardava il trattamento economico, ed infine le leggi che riconoscevano ai contadini poveri, organizzati in cooperativa, il diritto di occupare le terre incolte o mal coltivate. Questi nuovi diritti, che avrebbero consentito alle masse rurali migliori condizioni di vita, ma che intaccavano i profitti ed i privilegi dei proprietari, vennero dunque soppressi dal fascismo.
Nel solco della problematica dello scontro delle fazioni in un Comune del Mezzogiorno subito dopo la fine della guerra, nel 1919 appunto, si pone la narrativa di Michelangelo La Sorte.
Aveva esordito come narratore nel 1909, con qualche breve racconto, tra questi Annina e San Martino, d'ambiente pugliese. In essi "sono già presenti temi e forme linguistiche di quel realismo provinciale che trova migliore compiutezza nei due romanzi del ciclo murgese, Il Caporizzo e E se ne vanno ... " (3): così di recente un conterraneo del La Sorte, il quale ne ha tracciato un profilo sul piano culturale abbastanza informato.
E' di scena, in entrambi i racconti citati, la Puglia delle Murge con l'amaro destino d'amore e di morte della sua gente. Annina è una giovanissima contadina, che emigra da Martina Franca verso la mal sana marina tarantina per la raccolta delle olive. Al ritorno in paese la ragazza, aggredita dalla malattia, muore mentre intorno le stanno i contadini in pena per i parenti e gli amici che nella piana micidiale continuano a travagliare. (4) In San Martino (5) invece il rito della festa del vino nuovo si trasforma in tragedia allorché, nel corso di un ballo Gianni, un leale contadino, mentre bacia Laura, la ragazza alla quale è promesso sposo, è ucciso a tradimento da una pugnalata vibratagli da un giovane il quale, avendo chiesto ed ottenuto il permesso di partecipare al ballo, secondo il costume rusticano, ed avendo offeso Laura, è cacciato dal padre di questa.
I racconti sono esili, ma rivelano subito, pur nella loro esilità, e nei confini di un cordiale bozzettismo, specialmente il secondo, la capacità, da parte del loro autore, di allestire, nell'alveo di sentimenti genuini, di quelli che rivelano nella primordialità la generosa spontaneità delle genti contadine, una scena di massa, quella del trattenimento e del ballo, nella quale gli attori sono in grado di esprimersi compiutamente, esprimendo, di rimando, un mondo etico nella cui complessa dinamica i sentimenti assumono il valore dell'eterno.
Ma è nel primo decennio del Novecento che Michelangelo La Sorte a Genova, dove lo ha portato il suo impegno professionale nella scuola elementare, realizza anche un suo impegno di organizzatore e di diffusore di cultura, operando nell'Università Popolare genovese. Infaticabile conferenziere, si sposta continuamente da un Comune all'altro, tenendo conferenze sui più svariati argomenti e così tracciando nel vivo di una prassi intensa una propria, democratica visione da trasmettere alle classi popolari. D'altro canto, la pratica dell'educatore pone il La Sorte a contatto con i problemi, numerosissimi in una città a forte densità di popolazione come Genova, dei giovani.
Impegno, d'altra parte, che lo vede attivo anche sui fronti di guerra, una volta scoppiato il conflitto, e nel dopoguerra anche, quando molti intellettuali attraverso una fattiva operosità culturale tentano di rendere chiari alle masse i termini delle motivazioni e delle soluzioni del conflitto. Attraverso questi interventi, sempre calibrati sul piano delle problematiche dibattute, il La Sorte si definisce come un democratico il quale riconosce nel nazionalismo il momento morale di una grave questione italiana, quella dell'unità del Paese, che, all'interno, con la fine del conflitto, è stata posta sul tappeto dalla massa dei reduci.
Molto più tardi, negli anni che vanno dalla caduta del fascismo alla fine della seconda guerra mondiale, nel corso di un lucido ripensamento dei mesi che vedono il crollo del Paese e delle sue istituzioni, il La Sorte, attraverso le parole di un suo pittoresco personaggio, tornerà agli anni che preceddettero la prima guerra mondiale ed enumererà, sul filo dell'ideologia nazionalista, le forze "antinazionali" che all'interno del Paese hanno contribuito alla disgregazione del tessuto sociale: socialismo, massoneria, alta banca, esponenti, tutti, di un vasto complotto ebraico a livello internazionale, che ha aggredito tutti i gangli della vita italiana. Altri momenti disgreganti l'unità del Paese sono per il La Sorte, che ha una visione risorgimentale della storia socio-politica italiana, il regionalismo e l'emigrazione, spinte alla depauperazione spirituale, ed anche economica, del Paese. (6)
Inevitabilmente, in una tal situazione ideologica, il pensiero torna alla terra d'origine, alla piccola patria, alla Murgia dei Trulli - Martina Franca ed Alberobello remote della Puglia dei fanti della Brigata Regina - , la piccola patria ch'è nucleo sentimentale della grande patria la quale, nel dopoguerra con l'abnegazione che è tipica del costume morale meridionale, s'impegna a sanare le ferite prodotte dal conflitto.
Nascono così, tra il 1919 ed il 1933 i primi articoli che illustrano gli aspetti paesistici di Alberobello e di Martina Franca e quelli che propongono qualche soluzione a problemi urbanistici e tecnici degli stessi paesi e del capoluogo pugliese. In un articolo del 1933 su Il selvese di Alberobello, (7) in un clima narrativo sviluppato in chiave di favola, è idealizzato il tipo forte e generoso del selvese che vive, opera e costruisce con la pietra aspra della regione, emblema della fatica cui i braccianti murgesi s'assoggettano per realizzarsi.
Si tratta, in realtà, di articoli brevi, a carattere divulgativo, elaborati nella forma, mediante i quali Michelangelo La Sorte edifica, per così dire, la piattaforma strutturale e mette insieme i materiali ideologici ed umani con i quali costruire i due romanzi del ciclo murgese.
I quali, tuttavia, sono preceduti, nel 1932, da un romanzo, Il sogno e l'uomo, (8) ambientato, come per un omaggio dovuto, sul golfo del Tigullio. Si tratta della prima prova organica di narrativa del La Sorte, la quale ha come sfondo la prima guerra mondiale. Ma, pur permeata dalla tragedia che incombe sul Paese, l'atmosfera del romanzo finisce col riflettere tutta una tragedia d'anime, a riscontro della quale sta quella, immane, che nelle zone di guerra diffonde morte e lutti.
Protagonista del racconto è l'architetto Fiorenzo D'Albaro - che strutturalmente rappresenterà il momento di raccordo con Il Caporizzo - esponente della grossa borghesia genovese, ufficiale del genio - anche il La Sorte in guerra fu ufficiale del genio - , il quale, per una ferita riportata al fronte, trascorre a casa, a Genova, un periodo di convalescenza. Partendo per la guerra il D'Albaro, uomo di elevato sentire, di vasta e raffinata cultura, ha conservato a Genova un amore tutto spirituale per la bella donna Nympha, una splendida signora del patriziato genovese, colta e fine, la quale non ha esitato ad allontanarsi spiritualmente ed anche fisicamente dal marito, il ricco marchese Balbi, con il quale tuttavia continua dignitosamente a vivere, per conservarsi fedele all'amore di Fiorenzo. Costui, tenendo fede ai principi impartitigli dalla madre, allora farà sua Nympha, quando costei gli potrà dare un figlio. Quel figlio che Nympha non ha dato al marito. Ma di Fiorenzo è innamorata anche la giovanissima Arlesia, sorella di Nympha, la quale, a sua volta, è consapevole di quest'amore, pur sicura di tenere a sé legato Fiorenzo.
Il giorno stesso in cui deve ripartire per il fronte - ed il racconto è tutto concluso in questa giornata - Fiorenzo va a trovare Nympha la quale, angosciata per la destinazione di Fiorenzo, come per un monito del destino ha deciso di darsi a lui, malgrado ogni prevedibile conseguenza.
Ma a contrastare l'impresa di Fiorenzo s'avvia anche Lorenzo Pensa, amico di casa Balbi, uomo ambiguo, privo di principi etici, anch'egli innamorato della bella donna Nympha. Malgrado una tempesta di pioggia che infuria sul golfo del Tigullio, dove ha sede la villa del Balbi, Fiorenzo riesce ad arrivare a S. Michele di Pagana dove, ansiosa, l'aspetta Nympha. La quale, dopo aver tenuto a pranzo Fiorenzo, l'invita a star con lei. Ma Fiorenzo è trattenuto sia pur brevemente ed all'insaputa della sorella che momentaneamente s'è allontanata, da Arlesia, giunta inaspettata. Contemporaneamente è giunto anche il Pensa, il quale s'introduce nella camera di Nympha in attesa, dal Pensa presa, nella penombra, con uno stratagemma che meglio mette in luce la natura perversa dell'uomo. Quando la donna s'accorge dell'equivoco ha orrore di se stessa e dell'uomo che in attegiamento inequivocabile è sorpreso dal buon Fiorenzo, intanto liberatosi di Arlesia, il quale, profondamente avvilito, fugge dalla villa. Dove giunge Gio Batta Casassa, un vecchio impiegato, fedelissimo, del Balbi. Il Casassa, avendo intuito gli ignobili propositi, talvolta manifestati, del Pensa, ha viaggiato con lui, quasi fino a S. Michele di Pagana dove, però, il diluvio li ha divisi. Entrato in casa di Nympha, il Casassa intuisce che il Pensa ha conseguito il suo ignobile scopo e l'uccide con un pugnale. La donna, stremata dalle emozioni, si accusa dell'omicidio.
Fiorenzo in fuga, dopo un rapido incontro con una procace prostituta, si riduce a casa dove fa testamento e scrive una lettera a Nympha, da aprirsi, però, cinque anni dopo l'eventuale sua morte in guerra. Dopo di che s'avvia verso il fronte, incontro al suo destino, dalla cui rinnovata esperienza, al contatto con le sofferenze e la morte, attende un ripristino di energie spirituali.
Rigorosamente tenuta entro l'unità di tempo, la narrazione nell'impostazione dell'intreccio, non è priva di una certa macchinosità, affidata com'è alle situazioni forti, alle soluzioni imprevedute e violente, ai colpi di scena che ad un certo momento si susseguono con una repentinità che toglie il respiro. Non manca, inoltre, qua e là, un certo, e caricato, intimismo di sapore tutto crepuscolare: elementi che rivelano nel La Sorte il gusto per il racconto a carattere popolare. I cui ingredienti, se si vuole, sono qui tutti presenti e denunciano, peraltro, anche il gusto di un'epoca.
In quest'ottica assumono risalto i momenti salienti del racconto - la tempesta di pioggia, le drammatiche riflessioni di Nympha, il dramma verginale di Arlesia che ama l'uomo del quale èinnamorata la sorella, l'angoscia interiore di Fiorenzo sconfitto nel suo ideale d'amore, l'omicidio compiuto dal Casassa senza premeditazione, l'autoaccusa di Nympha - che si propongono, nell'economia strutturale del racconto, come il nucleo tragico individuale nell'immane tragedia che affligge il Paese, partecipando alla quale Fiorenzo si attende la purificazione e la pacificazione interiore.
Malgrado tutto, proprio per la sua conclusione, che, comunque, non poteva essere diversa, il romanzo esprime fiducia, la fiducia in quei valori spirituali che ogni guerra sembra demolire e che l'uomo, con la forza del suo pensiero e della sua volontà, è in grado di recuperare, intatti, proprio passando, sapendosi mantenere indenne, attraverso le brutalità della guerra. Della quale il La Sorte non mostra alcuna scena, essendogli sufficiente esibire, nello sviluppo di una dialettica implacabile, quella che si combatte, con esito cruento anche questa, nelle anime dei protagonisti del romanzo.
Pubblicato nel 1934, Il Caporizzo, (9) racconto di vasto, anche se non di omogeneo, impianto e dai molteplici risvolti culturali, per un certo suo taglio narrativo può essere senz'altro considerato come un romanzo storico nel senso che comunemente si attribuisce all'accezione.
In realtà, storico, di una storia, come tessuto generale, realmente vissuta nelle contrade - la Murgia dei Trulli - nelle quali l'azione è posta, è lo sfondo della narrazione e storico, d'altra parte, è, come s'è detto - sul piano dei significati morali -, l'anno, il 1919, nel quale l'azione si svolge. Beninteso, ogni romanzo può essere considerato, visto sotto un certo aspetto, storico ed anche ogni anno può essere considerato storico, ma è altresì vero che alcune vicende, vissute o narrate, ed alcuni anni portano in sé elementi che allo sviluppo della storia civile attribuiscono particolari significati per la loro incidenza nel vasto tessuto della civiltà di un Paese o in quello, immenso, della storia dell'umanità.
E il 1919, infatti, l'anno in cui i reduci, dal fronte o dalla prigionia, ufficiali e soldati afflitti da tutta una somma di frustrazioni per le proprie condizioni - per molti non c'è che incombente lo spettro della disoccupazione o della sottoccupazione ed anche quello dell'emigrazione - e per le condizioni nelle quali hanno trovato i paesi dai quali erano partiti, in più casi anche volontariamente, ricchi di speranze e di promesse, cominciano ad esprimere all'esterno la rabbia accumulata negli animi, purtroppo allenati alla violenza, esacerbati dai sacrifici compiuti al fronte, condensando, sul piano dei comportamenti, una miscela esplosiva che non tarda, appena le circostanze sono favorevoli, a deflagrare. Quel che soprattutto alimenta il rancore degli ex combattenti, che rientrati nei loro paesi si sentono - ed, in realtà, lo sono - come emarginati dalla vita sociale (e questo fu un calcolo abilmente realizzato ai loro danni) è lo spettacolo che impudentemente offrono coloro i quali, in diversi modi imboscatisi, non solo hanno messo al riparo la vita, evitando d'andare al fronte, ma hanno speculato sulla pelle di coloro i quali marcivano nelle trincee e, infine, si sono impadroniti in ogni modo, e non sempre con sistemi leciti, dei posti della gestione politica ed amministrativa del Paese.
Sul dato generale - ed il discorso sul combattentismo e sul reducismo è ancora attuale come momento di analisi storica e, ad ogni occasione offerta, sollecita contributi che meglio valgano a definirne la posizione nel vasto e convulso moto politico succeduto in Italia alla fine del primo conflitto mondiale - s'innesta, in Il Caporizzo, quello dello scontro delle fazioni locali che a Martina Franca e nei paesi limitrofi distingue la lotta politico-amministrativa, una lotta che, per essere scontro di camarille, prive di presupposti ideologici, è tutt'altro che leale. Essa è intessuta di scomposte gazzarre, di volgari tenzoni verbali, di corruzioni ad ogni livello, di ipocrisie nauseanti e, alla ne, di violenze fisiche realizzate con ignobili agguati notturni, bastonate - compaiono qui i "mazzieri" di giolittiana memoria, che il fascismo ha riciclato trasferendoli, avendoli verniciati di patriottismo, nelle squadracce-sparatorie ed uccisioni.
In un tal tessuto storico, estremamente articolato per gli spunti che offre, in ogni momento, agli approfondimenti sul piano socio-psicologico, sono poste alcune vicende individuali, svolte tra Martina Franca ed Alberobello - e si tenga conto del fatto che anche l'azione di questo romanzo, com'è accaduto per Il sogno e l'uomo, si svolge in una sola giornata, precisamente nel giorno della festa del Santo Patrono di Alberobello, in settembre - nelle quali gran parte ha l'amore. Ma questo, tutto sommato, pur nella varietà degli atteggiamenti con i quali è esibito - si va dall'amore casto e verginale a quello tutto passionale, peraltro messo, senza ritegno alcuno, al servizio delle ambizioni politiche - , altro non è che pretesto, o tale comunque, di far agire giovani reduci, ottimamente delineati sul piano dei comportamenti, i quali, con la forza che viene loro dalla consapevolezza di sacrifici compiuti senza risarcimento alcuno, si oppongono tutti, all'insegna di una fazione, nell'ambito della politica amministrativa, ad avversari, militanti all'insegna della fazione contraria, i quali si sono sottratti alla guerra, preoccupandosi, restando in paese, di consolidare le proprie posizioni politiche ed economiche. Tutto si traduce, alla fine, in una guerra tra poveri i quali, a guardar bene, si battono senza esclusione di colpi per la difesa della egemonia della borghesia avida e sfruttatrice, gaudente ed imbelle, che s'appresta a realizzare, con il ventennio fascista, un'altra delle sue fiammate post-risorgimentali. Infatti, l'ambiente di entrambe le fazioni, i "cardilli" e i "fanelli", è quello della media e grossa borghesia agraria meridionale, spregiudicata senza dubbio sotto il profilo dei contenuti etici, i quali, tuttavia, si delineano con una certa misura di lealtà, di rispetto del senso della gestione della lotta politica della fazione cui appartengono gli ex combattenti, i quali a lor volta hanno agio, nel procedere della lotta e nella successione dei singoli episodi, di esprimere, non sempre con misurata consapevolezza, tutte le potenzialità rinnovatrici delle quali sentono di disporre in rapporto alla situazione generale del Paese.
D'altronde, ed il riscontro è ormai perfino ovvio, molti di questi esorcizzarono le delusioni entrando nel fascismo che ne strumentalizzò lo spirito ribellistico, e si trattò di medi e grossi borghesi interessati, con la scelta di classe, alla tutela dei propri privilegi economici; gli altri, invece, la massa dei proletari, furono costretti, con il crollo delle formazioni politiche di classe, a soccombere proprio di fronte al fascismo.
Effettivamente, in Il Caporizzo, ai margini resta proprio il proletariato e questo è molto significativo, come significativo, addirittura sintomatico, è il fatto che nell'economia morale del racconto sono i proletari a fornire, in ogni caso, la manovalanza delle violenze commissionate dai borghesi. I quali, pur avversari, s'intrattengono amichevolmente in un ipocrita giuoco di società che sempre meglio ne evidenzia lo scadimento sul piano dei valori morali.
Ma ancor più significativa è un'altra circostanza: a soccombere, unica vittima di un agguato in tutto il racconto, è un lavoratore, un carrettiere, il "caporizzo" Martino De Martino, fante della leva 1888, il quale ha combattuto in Libia e nella prima guerra mondiale ed è finito, una volta smobilitato e tornato a casa, carrettiere, sia pure molto di malavoglia. Il grottesco, in sostanza, è che costui, ex combattente, nella narrazione non ha svolto alcun ruolo, salvo all'inizio quando s'imbatte, per un lieve incidente stradale, nell'architetto D'Albaro - quello de Il sogno e l'uomo - venuto a Martina Franca per la costruzione di un tronco ferroviario. Poco prima d'incamminarsi verso l'agguato mortale il "Caporizzo" esprime, in un dialogo concitato con un vecchio contadino, tutti i rancori di una generazione d'insoddisfatti esclusi dal recupero della realtà politica, i quali dalla guerra hanno tratto soltanto il senso di un'amara violenza, consumata proditoriamente ai loro danni.
Il racconto si chiude con l'appello sul campo del defunto "Caporizzo" ed è, questo particolare, tra tanti altri, che induce a riflettere sulla reale collocazione di esso nel clima politico cui certa narrativa degli anni Trenta si rifece.
Quale è, in ogni caso, l'ideologia che scorre lungo tutta la narrazione? E' quella di una palingenesi del Paese che non potrà non venire, tra la fine della guerra e l'avvento del fascismo, dall'esaltazione dei valori del patriottismo maturati, ed inevitabilmente individuati, sui campi di battaglia; è l'ideologia della IV Guerra d'Indipendenza nella quale molti, e con questi anche il La Sorte, generosamente credettero: salvo, una volta attraversato il fascismo, ed anche durante il fascismo, a ricredersi.
Il sentimento della palingenesi, veramente esaltante allora nelle classi intellettuali, comportava quello dell'uomo che tale palingenesi realizzasse, capace di mettersi alla testa delle masse. Dice, ad un certo punto, un anziano maestro ad un ex combattente, auspicando la fine della lotta tra fazioni, la fine, cioè, di una lotta fratricida che sta avvelenando la vita dei paesi:
"Un uomo!
Un uomo ci vuole!
Verrà. C'è. E uscirà da voi. Da voi. E sarà uomo che ha sofferto, che ha combattuto, che ama l'Italia.
Sessant'anni di purgatorio. Tre anni e mezzo di ferro e di fuoco. Perchè avete combattuto?
E l'Italia è fatta?
Sì.
Sì. Verrà l'uomo che vi stritolerà, cardilli e fanelli tutti, senza remissione di peccati. Sarà come S. Michele' "(10). Infatti, l'uomo venne. Afferma lo stesso La Sorte: "... Guardai da quel giorno il fascismo come il male che solo potesse guarire l'altro male, la profonda malattia costituzionale iniziatasi nel 1860-70. Guardai con occhio nuovo cose e persone e fatti, sempre nel dubbio di scoprire di ben peggio. Non amandolo, perché denso di oscurità insondabili, ritenni che Mussolini avrebbe trovato il rimedio contro il morbo letale di questa antichissima nostra Terra incapace di volersi bene". (11) La teoria del fascismo come male minore, che si sarebbe tradotto - furono in molti allora a non accorgersene - nel male maggiore, ottenendo prima il prezzo, altissimo, della libertà e sene - nel male maggiore, ottenendo prima il prezzo, altissimo, della libertà e poi quello della sciagura.
Vanno sottolineate, comunque, al di là del nucleo storico di fondo lungo il quale tutto il racconto si muove, alcune peculiarità che concorrono a rendere suggestivamente interessante la lettura de Il Caporizzo. Innanzi tutto, il senso del paesaggio sul quale il La Sorte, con una descrizione che talvolta ha del sensuale, indugia appassionatamente, un paesaggio come protagonista fervido di stupori scenografici su albe e tramonti di fuoco; poi il senso dell'azione resa con un periodare molto mosso, scattante a volte, affidato all'ellissi e all'onomatopea di gusto futurista e ad altri accorgimenti stilistici che il La Sorte profonde senza risparmio. Da qui anche il ricorso, da parte della critica, al paradigma del futurismo cui lo scrittore, magari senza eccessiva capacità di dosaggio, avrebbe molto attinto.
In una prudente nota di Quadrivio - non è che fossero eccessivamente graditi al regime fascista scrittori, a livello provinciale, problematici come il La Sorte: "... Non si può notare favorevolmente il tentativo di conciliare forme e atteggiamenti assai prossimi al futurismo e maniere convenzionali ed accademiche". (12) Che quasi suona come un invito a saper stare al gioco! Altrove fu attribuito al La Sorte, magari non senza una punta di esagerazione, una sorta di "umorismo quasi dickensiano" (13): l'umorismo certamente c'è, pregnante, ricco anche di spunti di carattere antropologico, ma altra è la temperie.
In fondo, il La Sorte possedeva ottime qualità di scrittore che all'oggetto, affettuosamente circuito, dedicava tutte le sue cure ricavandone momenti descrittivi essenziali e sommamente istruttivi. Si faccia il caso della descrizione della festa paesana - momento folkloristico di estrema bravura - nella quale èsapientemente colta, con un turgore che ha dell'espressionistico e che rivela le ascendenze culturali dello scrittore - si pensa subito a D'Annunzio -, l'assurda misti one tra paganesimo e cattolicesimo, mistione, peraltro, nella quale, nel clima di saga, in un turbinio di luci, volti, colori, suoni, rumori, odori, sensazioni, misticismo e superstizione, le mentalità e le culture si incontrano, ma, il più delle volte si scontrano. Al La Sorte, in sostanza, interessava calare una vicenda storica, quella del combattentismo e dell'unificazione nazionale ancora una volta frustrata, in un clima particolare, quello della terra delle casedde, ricca di umori, fervida di sollecitazioni ambientali, in un affresco quanto più possibile completo. La critica al La Sorte contemporanea, certamente corriva nei riguardi del regime fascista, mise in luce de Il Caporizzo non i reali contenuti storici, dai quali avrebbe potuto trarre conclusioni interessanti, ma i momenti paesistici e folkloristici, che pur sono importanti, e certo patriottismo di maniera, enfaticamente rilevato e privo di conseguenze. Il Pugliese, (14) non privo di capacità interpretative, nel corso di una recensione di tipo espressionistico e gravida di toni foschi e truculenti, parlò di "poema e tragedia", forse esagerando, ma, comunque, cogliendo nel segno con un'affermazione del genere: "... E' la "storia vera" di una diciannovesca vita vissuta in Martina Franca, e stemperata in una cornice faidesca di mazzieri, pescecani e "candidati" dell'analfabetismo prezzolato: ultime fugaci faville del bruciante ceppo nittiano ... ". In anni a noi più vicini il Raya, (15) che con molta probabilità del La Sorte non aveva letto nemmeno un rigo, lo classificò, con discutibile senso critico, tra "Novanta infilzati" - proprio così! -nella Categoria dilettanti.
Scritto nel 1935, cioè subito dopo la pubblicazione de Il Caporizzo, il romanzo E se ne vanno (16) fu pubblicato postumo nel 1977. Cioè, non fu pubblicato dall'autore, che lo scrisse, tuttavia, tenendo presente Il Caporizzo del quale E se ne vanno rappresenta il seguito, e affrontando, se così si può dire, sia pure con mezzi narrativi che non sono più quelli de Il Caporizzo, la problematica dell'emigrazione verso le Americhe.
Quello dell'emigrazione all'estero da parte di lavoratori italiani è stato, fin dagli anni postunitari, fenomeno che ha mortificato, per cause varie e con conseguenze sul piano morale e finanziario incalcolabili, l'economia italiana. Si calcola che tra il 1901 ed il 1913 circa cinque milioni di persone in massima parte meridionali si siano trasferite nelle Americhe. Questo salasso rappresentò, nella prospettiva delle classi dirigenti del tempo, la cura più efficace per sanare molte delle piaghe che affliggevano le regioni italiane: in realtà si trattò di uno sciopero immenso che spinse i lavoratori italiani verso l'ignoto per cause che andavano dai sistemi arretrati di cultura, i quali peggioravano la già scarsa produttività del suolo, alle ricorrenti crisi agrarie, dai gravi sistemi tributari agli intollerabili sistemi amministrativi che usi ed abusi feudali ancora vigenti rendevano sempre più inaccettabili. Proprio negli anni del primo dopoguerra, ma in particolare nel 1919, il fenomeno subì una flessione più o meno accentuata, ma rappresentò sempre una soluzione, forse l'unica, per i problemi economici e occupazionali che affliggevano le classi lavoratrici italiane, in particolare quelle del Mezzogiorno agrario dove la rendita parassitaria non consentiva soddisfacenti sbocchi in rapporto al mercato del lavoro. Nel 1919, anno della vicenda di E se ne vanno emigrarono dalla Puglia verso i Paesi transoceanici 6.506 unità. Negli Stati Uniti d'America emigrarono 82.492 italiani. Il flusso migratorio, poi, nel decennio 1931-1940 - E se ne vanno fu scritto nel 1935 - si ridusse notevolmente a causa della esasperata politica estera del regime fascista che, peraltro, con la politica dell'autarchia e con quella dell'incremento demografico tendeva a scoraggiare, con limitazioni di ogni tipo, l'emigrazione con la quale il proletariato italiano avrebbe potuto esorcizzare le conseguenze della recessione economica del 1932.
Certo, non fu, questo, decennio in cui si potesse parlare con molta disinvoltura di emigrazione ed il La Sorte, il quale peraltro aveva opinioni personali abbastanza precise intorno alle conseguenze dell'emigrazione sull'unità del Paese, (17) ne era consapevole. Per quanto in E se ne vanno, altrimenti intitolato Fanti in marcia - non è chi non veda la forzatura retorica cui questo secondo titolo si riconduce a tutto danno dei motivi socio-economici che all'emigrazione presiedono -, i motivi patriottici siano presenti, anzi sovrabbondino e rappresentino la struttura ideologica dell'emigrazione stessa.
Protagonista del racconto è un cugino del "caporizzo", il quale, ex combattente pure lui, continua a vedere in sé, emigrante per carenza di lavoro e per insoddisfazione, un fante cui la patria ha ancora una volta affidato il compito di marciare. Dove? Verso il mondo questa volta, a portare la gloria, l'orgoglio della fattività, dell'operosità, dello spirito di sacrificio del lavoratore italiano. Il quale, nel caso di Giovannello Tanzi e di altri suoi commilitoni e compagni di emigrazione, molto più modestamente, va nelle Americhe, affrontando anche il dileggio di altri italiani e di stranieri imbarcati sul bastimento in navigazione nell'Atlantico, per evadere, oltre che dalla disoccupazione, anche dalla malsana atmosfera di lotte intestine che si respira ad Alberobello.
Vittima, dunque, il "caporizzo" di una politica che non lo riguarda, ma vittime anche, mentre lo scontro delle fazioni perdura ed intorbida sempre più la vita del piccolo centro pugliese, i lavoratori ex combattenti i quali alla delusione aggiungono la rabbia mal repressa d'essere diventati strumenti nelle mani di una borghesia che non ne ha saputo comprendere le istanze riportate dal fronte. Anno della vicenda è dunque ancora il 1919 sul quale, nei suoi aspetti socio-politici, il giudizio della storia non può non essere estremamente severo.
Al di là delle numerose prolissità narrative e descrittive, che qua e là dilatano a dismisura il racconto, al di là di certi fatti stilistici, ormai nel 1935 abbastanza datati, è rilevabile in E se ne vanno - titolo che ha un tono di sconsolata rassegnazione, come di cedimento di fronte all'ineluttabilità di un amaro destino di miseria - , sul filo di una narrativa di carattere realistico e regionalistico, con notevoli, anche se incontrollate, aperture su movimenti di carattere decadentistico - il caso di un certo futurismo che emerge dalle pagine de Il Caporizzo ed anche di E se ne vanno, mediante un tipo di prosa incalzante, a scatti lampeggiante - , in un'ottica di tipo antropologico, è rilevabile dunque la cultura delle casedde, cioè di quelle caratteristiche costruzioni in pietra che, documento abitativo d'incomparabile peculiarità, formano il centro storico di alcuni comuni della Murgia dei Trulli e costellano tutta l'ubertosa campagna intorno. Si tratta della cultura di un nucleo umano storicamente sedimentato nei secoli, conservatore nei sentimenti e negli affetti, dunque tradizionalista, gelosamente tradizionalista, a tutela di un tipo di identità antropologica nel cui calore famiglia e religione, certezze sempre verificabili, più che patria in realtà, certezza passata al vaglio di una penosa verifica, rappresentano gli esponenti di una civiltà giunta incorrotta fin quasi ai giorni nostri. Di questa civiltà, al livello di una patriarcalità che è tutela di una cultura attenta custode dei suoi momenti fondanti, topos è la masseria di Reinzano, che diventa la scena di alcuni degli episodi più toccanti di E se ne vanno.
In questo racconto, infatti, tutto l'ambiente è contadino e i borghesi che affollavano le pagine de Il Caporizzo con i loro più o meno chiari maneggi politici ed amministrativi, dopo essersi appena fatti vedere per un ulteriore, grottesco, rito patriottico, scompaiono abbandonando i contadini, quelli che hanno fatto la guerra, che l'hanno sofferta per difendere i loro privilegi, al loro destino. Di emigrazione! Verso terre lontane, dove i proletari della propria cultura, della quale Michelangelo La Sorte si fece cantore appassionato ed obiettivo, porteranno, con l'amarezza per una patria che non ne ha saputo comprendere le esigenze più elementari, il senso fecondo della millenaria civiltà pugliese. Lungo quali direttrici s'è mossa, allora, la narrativa di questo scrittore murgese, anzi "selvese", per lo più trascurato dalla critica, militante ed accademica, il quale, pur vivendo lontano, a Genova, ha sempre tratteggiato con estrema efficacia, frutto di tanto amore, i lineamenti della sua terra? Quali ne sono state le componenti? E, oseremmo chiederci, quali ne sono stati i risultati? E' fuori di dubbio che i tre romanzi, globalmente presi, rappresentano, indipendentemente dalla valutazione in sede di critica letteraria, in rapporto all'intera vocazione creativa del La Sorte - che fu anche poeta oltre che autore di testi nello specifico dell'istruzione elementare, cui egli dedicò energie di intelligenza e di fattività - , un documento abbastanza incisivo per gli esiti che promuove, per gli echi che suscita, per le suggestioni che provoca. Da questo documento emerge, e netta anche, una problematica storico-politica sollecitante più che non appaia, quella della collocazione del combattentismo e del reducismo nel quadro della disgregazione totale dello stato liberale subito dopo la prima guerra mondiale e nel processo di recupero, da parte della borghesia agraria - in una situazione, sociopolitica, che forse non è azzardato definire di prefascismo - delle leve della gestione del potere. Certo, il clima dei due romanzi murgesi è ben lontano dall'ipotesi operativa del reducismo democratico di chiara ispirazione salveminiana. Qui il reducismo non si presenta con un ruolo di protagonismo nelle lotte amministrative egemonizzate dal blocco agrario, violento e sopraffattore, che nella crisi del biennio 1919-1920 realizzò una tenace struttura antagonistica al rivendicazionismo socialista da una parte e cattolico dall'altra. Il reducismo, in chiave ribellistica, abilmente sollecitato, diventa qui, nelle intenzioni, nemmeno tanto celate, degli esponenti del blocco agrario, un elemento prima da impiegare -vera e propria massa di manovra - a scopi personali e poi da esorcizzare senza alcuno scrupolo. Tanto è vero che Giovannello Tanzi, erede della tensione patriottica del "Caporizzo" - dopo essersi fatto anche un periodo di galera per un sospetto infondato, in seguito alla sparizione da casa della fidanzata del defunto Caporizzo, della quale egli crede d'essere innamorato - finisce con l'abbandonare il campo, andando, con altri ex combattenti, all'estero. Subito dopo la fine della guerra: così la patria lo ripaga dei sacrifici compiuti al fronte!
Che dire delle lotte intestine? Esse si svolgono tra fazioni e suscitano, appunto, quel senso d'instabilità e d'incertezza che inducono ogni fascia sociale che non abbia compiuto una scelta politica meditata a chiedere l'intervento dell'uomo forte che sia in grado di ristabilire l'ordine. Tutto sta ad intendersi sul concetto di ordine! Non si presuppone, in altri termini, l'ipotesi della dialettica politica che non esclude nemmeno quei momenti di violenza, o quanto meno di disordine, che di ogni dialettica politica possono essere peculiari.
D'altronde, appare, nei romanzi del La Sorte, anche il ritratto di una borghesia, di quella settentrionale, tratteggiata e conclusa, tuttavia in chiave di lettura soltanto psicologica, nei suoi vaneggiamenti d'amore - il caso de Il sogno e l'uomo, dove si sottintende, alla fine del libro, che i sogni, quelli vissuti ad occhi aperti, sono soggetti fatalmente alla verifica, talvolta impietosa, della realtà quotidiana, che tutto può, a dispetto di ciò che l'uomo ha potuto architettare, stravolgere - ; ma soprattutto di quella meridionale. i cui tratti, qual più qual meno, s'identificano in ogni area geografica. Di quella meridionale, nei suoi aspetti morali, i tratti sono marcati e, tutto sommato, non sono dei più lusinghieri. Che il La Sorte tratteggia spregiudicatamente nell'ambito della delineazione della società paesana. Dove i valori etici ed esistenziali, oltre che storici, meglio si definiscono in quanto espressi in un microcosmo di affetti e di passioni allo stato originario, non alterati dai processi evolutivi presenti ed operanti nelle città. In questa definizione trovano luogo le descrizioni di quei microcosmi che sono Martina Franca ed Alberobello, fulcri intorno ai quali ruotano, nel bene e nel male, le vicende individuali dei protagonisti. Soggetti ad una sorta di destino che implacabilmente ne regola le convulse esistenze. Infatti, per quanto i reduci esprimano sentimenti forti, decisi, autonomi, si sente che tutto deve passare attraverso quel fatalismo di marca meridionale che senza fallo dispone ed incalza, sotto il cui segno tutto deve avvenire. L'agguato mortale, per fare un caso soltanto, il più clamoroso, non era teso al "Caporizzo", ultimo e trascurabile ingranaggio di un assurdo meccanismo socio-politico che, però, ha risparmiato i borghesi contro cui era stato messo in azione per stritolare un anonimo carrettiere che soltanto così, tuttavia, èassurto all'onore della notorietà, meritando l'omaggio di una borghesia stupefatta di fronte ad una vittima inconsapevole ed incolpevole. Se così non fosse stato, il "Caporizzo" sarebbe rimasto anonimo e sarebbe andato all'estero. Al suo posto è andato il cugino Giovannello Tanzi, imbrancato con altri emigranti, fante "in marcia" la cui unica, inconfessata, aspirazione, malgrado tanto clamore di patriottismo, è di trovare oltre Atlantico una patria la quale gli dia lavoro e qualcuna di quelle certezze che la patria d'origine gli ha fatto perdere in trincea.
Altra direttrice lungo la quale si muove la narrativa del La Sorte è quella tipicamente "selvese" e qui lo scrittore ha agio di esibire, al di là delle numerose contraddizioni di carattere stilistico - le quali, non sembri strano, definiscono, più che una organica coerenza, la personalità creativa del La Sorte - , tutte le sue qualità di descrittore, ma meglio si direbbe di trascrittore, di un mondo etico genuinamente ricco di spunti, fervido di richiami umani, gravido di sollecitazioni sentimentali.
In questa trascrizione meglio si definiscono anche i valori storici - il tessuto generale del documento preso nella sua immediatezza - i quali soltanto in questa sede possono avere il senso che hanno e che proiettano con tanto turgore all'esterno.
Qui la storia è costruzione globale nella quale l'uomo è trasportato con tutte le sue caratteristiche interiori ed esterne, visione ampia nella quale trovano luogo tutti gli aspetti culturali che della storia sono peculiari. Sintesi, dunque: si pensi all'esigenza, da parte del La Sorte, di chiudere nel giro di due giornate due ampi racconti. Concezione, se si vuole, anche ardita, particolarmente per Il Caporizzo, dove la discontinuità stilistica
appare necessitata forse proprio dall'unità di tempo voluta dal La Sorte, il quale si è mosso, per la costruzione del romanzo, come in un mondo magmatico, attraversandolo coraggiosamente. Infatti, sebbene E se ne vanno rappresenti il seguito strutturalmente, ed anche ideologicamente e sul piano ambientale, de Il Caporizzo, tuttavia s'avverte che questo è legato più a Il sogno e l'uomo, che, invece, ha tutt'altra atmosfera de Il Caporizzo.
Infatti, sia Il sogno e l'uomo che Il Caporizzo sono sviluppati - e non soltanto in virtù del dato dell'unità di tempo in un'atmosfera di omogeneità che discende anche da un calcolato dosaggio di mezzi narrativi nel primo romanzo, dove una funzione importante è svolta anche dal recupero della memoria che nel racconto introduce un certo clima di sofferenza e di rimpianto, e da una frenetica vitalità narrativa e da una esuberanza strutturale nel secondo romanzo che al primo si sal da anche mediante quella che è la capacità di analisi psicologica manifestata dallo scrittore, il quale così riesce a trasmettere figure e figurine di tutto rilievo, nelle quali il dato plastico risulta da una sagace rilevazione di singoli elementi. I quali, a loro volta, concorrono a dare, quando sono fusi, anche il senso dell'unità della concezione e dell'elaborazione. Il caso dell'architetto D'Albaro e di donna Nympha, emblemi di una sensibilità desta, vibratile, si direbbe morbosamente desta ed attenta a cogliere ed a trasmettere le minime sfumature del pensiero e della cultura della quale entrambi sono dotati. In Il Caporizzo questo tipo di analisi psicologica si sposta dall'individuo alla massa, pur non trascurando l'individuo, alcuni individui anzi, i quali, da parte loro, rappresentano i diversi momenti della psicologia della massa, nella quale il La Sorte agevolmente s'introduce ricavandone suggerimenti ed indicazioni veramente interessanti. Ed ecco che al carattere intimistico de Il sogno e l'uomo succede, con una contrapposizione netta - eppure lo sfondo storico, quello della prima guerra mondiale, è comune ai due romanzi - , il carattere storico de Il Caporizzo. Che diventa documento di una tragedia collettiva, quella dei reduci, non però consumata del tutto. Della quale, infatti, la morte del "Caporizzo" è soltanto un episodio. La tragedia vera, indubbiamente, è la mancanza di lavoro, è anche l'insoddisfazione, è l'emarginazione, e tale tragedia sarà consumata con l'emigrazione in massa. In E se ne vanno!
Dove, però, l'andamento del racconto diventa discontinuo ed i rapporti con la realtà storica, della quale il racconto è portatore, appaiono artificiosi e, tutto sommato, allo stato endemico. Quella di Giovannello Tanzi, infatti, è figura tutta spiegata, non priva di sfumature, anche approfondita in alcuni casi, ma non ha la patina, la trasparenza anzi, che sono della figura del "Caporizzo", il cui carattere, pur nell'esiguità della presenza nel libro, emerge in tutte le sue peculiarità psicologiche e culturali. Il "Caporizzo", in fondo, è una presenza autentica, come lo è l'architetto D'Albaro, in Il sogno e l'uomo, Giovannello Tanzi, invece, malgrado i suoi scatti, le sue insorgenze, le sue legittime ribellioni, è una figura la cui funzione è soltanto quella di rappresentare l'emigrazione e l'esorcizzazione, in chiave patriottica, di questa come malessere di una società disgregata. Eppure, sia la polemica del "Caporizzo" che quella di Giovannello Tanzi s'identificano sia nelle matrici storiche che in quelle etiche e personali e s'identificano, almeno nella prospettiva, le soluzioni che Giovannello Tanzi porterà alle estreme conseguenze.
E' anche per questo che Il Caporizzo resta, in tutta la produzione del La Sorte, un libro dal quale c'è tanto ancora da ricavare per una più efficace esplorazione di quel mondo di solenni valori morali e storici che in sé reca la Murgia dei Trulli.


NOTE
1 - Michelangelo La Sorte nacque a Martina Franca il 10 dicembre del 1882. Fin da ragazzo si trasferì con la famiglia ad Alberobello. Conseguì la licenza normale a Bari nel 1901, il diploma del primo corso di pedagogia scientifica a Milano nel 1905, la licenza liceale ed il diploma di calligrafia a Genova nel 1909. A Genova aveva già conseguito nel 1907 il diploma di direttore didattico. Nel biennio 1911-1912 frequentò presso l'Università di Genova i corsi per la laurea in giurisprudenza sostenendo alcuni esami. Nel 1930 ottenne l'abilitazione delle materie letterarie nelle scuole di avviamento. Volontario nella prima guerra mondiale dal 24 maggio 1915 al 7 marzo 1919, meritò due croci di guerra ed una medaglia al valor militare come ufficiale del genio. S'impegnò attivamente nell'Università Popolare Genovese e nelle Biblioteche Popolari di Genova. Sempre in questa città svolse molte altre attività nel settore dell'istruzione elementare.
Vasta, ma discontinua e frammentata, la produzione letteraria, edita e inedita, del La Sorte: questa andrebbe opportunamente studiata, ma prima andrebbe sistemata perché sparsa in fogli e periodici ormai di difficile reperimento. Essa comprende, oltre ai tre romanzi, conferenze, articoli, versi, pezzi teatrali e libretti per musica. Il La Sorte ebbe il merito di diffondere nel Nord d'Italia la conoscenza dei pittoreschi paesi della Murgia dei Trulli.
Morì a Genova il 20 luglio del 1951, ma la sua salma riposa nel cimitero di Alberobello.
2 - G. CAROCCI, Storia d'Italia dall'Unità ad oggi. Milano, Feltrinelli Editore, 1975, p. 241.
3 - G. LIUZZI, La Murgia dei Trulli negli scritti di Michelangelo La Sorte. In "Umanesimo della pietra. Numero unico patrocinato dalla Consulta per le attività culturali". Martina Franca, 1980, p. 44.
4 - In "Tigullio", Rapallo, n° 8 del 1909.
5 - In "Tigullio", Rapallo, n° 11 del 1909.
6 - M. LASORTE, Commentari di Giobatta Mugugno dall'8 settembre 1943 al 5 novembre 1946. Alberobello, 1977. Si tratta di una edizione, postuma in pochi esemplari, fuori commercio, voluta e curata, come tutte le recenti edizioni del La Sorte, dalla sorella Cosma, infaticabile nella diffusione delle opere dello scrittore.
7 - Nel quindicinale "Guerra nostra", Roma, 16 novembre 1933, p. 7. Ristampato come foglio volante nel 98° anniversario della nascita del La Sorte.
8 - M. LA SORTE, Il sogno e l'uomo. Roma, Ed. Sapientia, s. a. (ma 1932).
9 - M. LA SORTE, Il Caporizzo. Genova, Casa Editrice "Apuania", 1934.
10 - M. LA SORTE, Il Coporizzo cit., p. 92.
11 - M. LA SORTE, Commentari cit., p. 42.
12 - Cfr. "Quadrivio", Roma, n' 53, 28 ottobre 1934/XII, p. 10.
13 - G. MODUGNO, rec. a Il Caporizzo in Al Popolo Nuovo", 10/ 1211934.
14 - F. M. PUGLIESE, rec. a Il Caporizzo, in "Voce del Popolo", Taranto, a. 53, no 10, 8 marzo 1936/XIV.
15 - G. RAYA, Il Romanzo. Milano, Ed. F. Vallerdi, 1950, pp. 443 e 460.
16 - M. LA SORTE, E se ne vanno. Romanzo d'ambiente della Murgia dei Trulli (sèguito de Il Caporizzo). Alberobello, 1977.
17 - M. LA SORTE, Commentari cit., p. 31: "... Il secondo fatto, l'emigrazione, fu sommamente deleterio dell'unità. Non si dica che pochi milioni di poveracci andati fuori per lavorare e procacciarsi il pane non abbiano portato un irrimediabile male alla patria, perché han mandato miliardi di risparmi sudati, indice quindi di vivo e forte amore. Sarebbe essere ciechi. I miliardi vennero qui nei primi tempi, ché ogni emigrato sentiva d'essere legato alla casa dei padri. Ma cessarono naturalmente come cominciarono a formarsi oltr'Alpe ed oltre mare le nuove famiglie. L'opera d'antinazionalità la compivano con la forza delle cose i facili o sudati guadagni, i nuovi ambienti, la propaganda d'assimilazione dei Paesi d'immigrazione, l'astio e spesso l'odio contro il Paese d'origine che aveva non maternamente gettato prima nella miseria il giovane o l'anziano o l'intera famiglia e poi cacciato in cerca di fortuna ... ".


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