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Il Sud nella narrativa |
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Anita
Chemin Palma
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Negli anni del "boom",
cioè nei sorprendenti e drogati anni '60, alcuni elementi intervennero
a sconvolgere le coordinate dell'attività letteraria italiana.
Del mutamento nell'ambiente provocato dallo sviluppo industriale, si è
già detto: le cose, la realtà tutta evolvevano rapidamente
verso esiti che non di rado sembravano ostili e refrattari ai tentativi
di interpretazione secondo le abituali categorie ideologiche, politiche
ed estetiche. La stessa diffusione degli strumenti creati per rispondere
a tali esigenze conoscitive, le cosiddette "scienze sociali",
se pure apriva orizzonti inediti alle possibilità espressive, contribuiva
tuttavia ad approfondire il senso di complessità e di enigmaticità
del reale. Un secondo fattore di cambiamento fu il fenomeno, del tutto
nuovo e proprio delle società moderne, della cultura di massa,
nel duplice aspetto della cultura come industria e della diffusione standardizzata
di determinati modelli di comportamento, di ideologia e di linguaggio.
Da un lato, la crescente importanza dei mass-media e il nascere dell'industria
culturale, configurano un uso diverso della cultura, che da coscienza
critica della società, si fa addirittura strumento di orientamento
della società medesima, nel caso della cultura distribuita attraverso
i mezzi di comunicazione di massa, o che, nel caso della cultura come
industria, da momento di crescita spirituale diventa, né più
né meno, merce. Dall'altro, i nuovi paradigmi che si impongono
sulle precedenti realtà, e che sono tanto funzionali allo sviluppo
industriale quanto banalmente uniformi, pur configurandosi come un sistema
compiuto di valori, mancano dell'essenza stessa di ciascuna cultura, che
sta nell'essere originale e nel caratterizzare e differenziare se stessa
e la comunità che ne è portatrice rispetto al diverso. E'
chiaro che una simile impostazione del problema coinvolgeva aspetti di
fondo dell'attività letteraria e si poneva come nodo centrale nella
definizione del ruolo dell'intellettuale negli anni '60. Le soluzioni
proposte furono molto diverse, dagli sperimentalismi dell'avanguardia
al ritorno alla narrativa tradizionale. L'intento dichiarato di recuperare
l'immediatezza de "le persone, le cose, il dolore, i problemi non
risolti" e la genuinità d'espressione di un linguaggio ancora
non devitalizzato dagli stereotipi sta all'origine dei "Racconti
siciliani" di Danilo Dolci, caleidoscopica galleria di personaggi,
a metà strada tra la documentazione sociologica e la ricerca delle
figure se non perdute almeno in via di estinzione:
"Il tracoma
viene da una botta di sangue o da collera, quando è forte, ci
può scattare l'occhio, il sangue ci si leva di dentro e viene
fuori. Se una donna è incinta, con una collera si rovina. E'
la collera che rovina tutte le cose. Per guarire gli occhi si usa l'acqua
del bevaio dove nasce l'erba verde, oppure si mette l'erba verde negli
occhi, e, strofinare, e ci passa, ci guarisce, perché nel bevaio
ci bevono, mucche, muli, e la bava di queste bestie ci fa bene alla
vista. Ci si può mettere la bava di mulo e di mucca, sciolta
nell'acqua. Tutti i mali svolgono o dalla collera o dal mangiare. E
con una collera forte si può anche morire. Suo fratello dormiva
in campagna, poi si sveglia e era diventato rosso, gonfio e gli si stringeva
la voce, la voce l'aveva stracambiata. Tornato a casa non riusciva a
chiamare, picchiò la porta che non poteva chiamare, tanto che
sua moglie non si fidava a aprire il catenaccio, sua moglie diceva:
- Chi è ... ? - Gli venne la febbre; che ci aveva una mangiacinedda
al braccio, ci guardò e era una zecca attaccata. Le zecche sono
velenose quelle cammarate, basta che va addosso a una persona, è
velenoso. E senza tirarla da una persona: si tagliano con le forbici,
perché se la tira si rompe e lascia il veleno dentro. Invece
la taglia e resta com'è. Con queste bestie in casa, sempre zecche
c'è. Nascono dal fetore degli animali. Le bestie hanno vermi
sopra la carne. La capra ha tanti vermi addosso. Ci si spreme la carne
e esce il verme, un pezzo di spaghetto, capre e pecore. Le zecche si
appizzano nei cani, nelle bestie. Dormono le bestie con noi, e le zecche
passano dagli animali ai cristiani. C'è la qualità bianca,
grossa e quella caffé, che si attaccano con le zampette. Avvelenano
il sangue.". Ne "L'amara scienza" di Luigi Compagnone la guerra breve e velleitaria dei quattro componenti della famiglia Alinei contro lo sfratto che li butterà sul lastrico si combatte in una Napoli che s'è fatta più grande e moderna, ma nella qual e è ancora indispensabile scaltrirsi nell'amara scienza della "conservazione della vita come scopo a se stante" per non soccombere: "No, Egidio
Alinei non va in giro come un automa. Ha un problema preciso, che investe
tutt'intera la sua famiglia; un problema, al quale cerca, sì,
di trovare una soluzione utile e responsabile. Poiché non si
può rispondere alla crisi can la crisi, all'infelicità
con la coscienza infelice. Charles Wright Milis. Appunto, distinguere
tra difficoltà e problemi. Le prime si producono nei limiti del
carattere dell'individuo e dei suoi immediati rapporti col prossimo;
i problemi si riferiscono invece a questioni che trascendono l'ambiente
particolare dell'individuo e i confini della sua vita interiore. Sorriso,
anzi smorfia, alla propria faccia incontrata in una vetrina. Bella faccia.
Da conferenziere. O faccia da monologo interiore? Conferenza e monologo
interiore, due in uno. Ancora con Wright Mills, considerare sotto questi
due diversi angoli visuali, difficoltà e problemi cioè,
il fenomeno della disoccupazione. Quando in una città di centomila
abitanti, lui dice, c'è un solo disoccupato, ci si trova dinanzi
a una difficoltà personale, e per eliminarla si esaminano il
carattere dell'uomo, le sue capacità, le sue immediate possibilità.
Se invece in un paese di cinquanta milioni di abitanti, vi sono quindici
milioni di disoccupati, si tratta allora di un problema, la cui soluzione
non si può necessariamente trovare nell'ambito delle possibilità
che si offrono ai singoli individui, eccetera. Eccetera e vivissimi
applausi. A questo punto: il qui deambulante Egidio Alinei costituisce
una difficoltà personale o un problema generale? Non è
il solo disoccupato in questa bella e popolosa città, verissimo,
esistono però anche occupati, medio-impiegati, sotto-occupati,
et coetera. Esiste altresì una ricchezza; papà, ad esempio,
la valuta addizionando il numero delle automobili che circolano, dei
palazzi che crescono, dei negozi strapieni, e bisogna riconoscere che
Napoli è già Megalopoli, già elefantiasi e ipertrofia.
Allora: perché, lui, appartiene alla Napoli ipotrofica? Drammatica
domanda, che merita applausi, strette di mano, fiori al conferenziere." Ancora Napoli è lo scenario di "Una spirale di nebbia" di Michele Prisco, una Napoli inconsueta, bigia e perfino fredda, nella cui plumbea atmosfera si involvono i personaggi trascinando senza capacità di riscatto le loro ipocrisie e le loro disillusioni: "C'era il circo?
Lì a due passi, attendato a due passi dall'uscita del casello:
non avevano visto i grossi manifesti sui muri venendo, e la scritta
luminosa in piazza? Ma già, erano venuti per l'autostrada. Si
trovava lì da una settimana, il circo, e i bambini c'erano già
stati un paio di volte a vederlo e adesso ci andavano loro giusto per
fare qualcosa, e chi propose, allora, del gruppo: "Andiamo anche
noi?". Le ragazze riluttavano: "Ma lo sapete che dopo dobbiamo
arrivare a Napoli?" e qualche altro non voleva rinunciare al tacchino.
Valeria si muoveva lì in mezzo come se fosse di casa, perfettamente
a suo agio: suggerì, con la più mondana naturalezza che
le si potesse supporre, di comprare dei panini o farsi preparare dei
panini, alla buona, con la porzione di tacchino in mezzo, e andare a
mangiarseli al circo, ma sì, in prima fila, tra il pubblico.
"II pubblico!" soggiunse con un sorriso un po' fatuo. "Siamo
noi altri, sapete: campagnards: non dovete formalizzarvi troppo se è
per questo.". E lui la guardava con una specie di freddo stupore:
come se non la riconoscesse, così padrona di sé e così
giovanilmente graziosa: perfetta, nella nuova parte che a un tratto
le piaceva recitare innanzi a loro, non l'avesse tradita il battito
un po' nervoso delle palpebre che scopriva il patetico desiderio di
trattenerli e vivere questa inaspettata parentesi di svago (si contentava
di poco), prima di ritornare sotto la pioggia a casa, in piena campagna,
in quella villa troppo grande e isolata anche per il loro nucleo familiare
abbastanza nutrito ... E per la prima volta lui aveva avvertito come
un'ombra di rimorso, una specie di puntura leggera e insofferente ...
o lo stava provando adesso qui, nello studio del nonno, a furia di fissare
quella tendina alla finestra che per un attimo gli aveva fatto pensare
al fantasma di Valeria? Tra le proposte che erano state avanzate rispetto alla questione del ruolo della letteratura nella società neocapitalista, un posto a sé occupa il cosiddetto sperimentalismo linguistico Dalla constatazione del totale disfacimento della significatività del linguaggio nell'età contemporanea, dell'impossibilità di comunicare tra individui, dell'inutilità, al limite, della comunicazione stessa, in quanto ogni rappresentazione del reale ne è già in qualche modo una deformazione, si arriva alla conclusione che l'unica possibile via che si apre alla letteratura consiste nell'alchimia verbale, nel tentativo di rendere con la suggestione dei suoni la farraginosità e l'immediatezza dell'esperienza vissuta. Gli esiti più radicali di tale posizione si sono avuti nella poesia, mentre per la prosa il risultato forse più interessante è "Vogliamo tutto", di Nanni Balestrini: la storia della rabbia operaia di un ragazzo meridionale immigrato al Nord si snoda attraverso l'accostamento di parti narrative in prima persona, di resoconti di assemblee, di brani di volantini: "Come in tante
fabbriche alla Fiat per mangiare ci portavamo il baracchino. E io dicevo
che la mezz'ora del mangiare ce la dovevano pagare perché anche
quella mezz'ora lavoravamo. Perché mentre stai lavorando suona
la sirena, uuuhhh, e allora tu ti metti a correre, fai le scale, arrivi
nel tuo corridoio, arrivi nel tuo spogliatoio, arrivi al tuo armadietto,
prendi la forchetta, il cucchiaio, il pane, corri, vai dove sta il tuo
baracchino che ce ne stanno duemila, prendi il tuo baracchino, arrivi
al tavolo, parli, tatatatatatatatatata mangi, giù, uuuhhh, salti
su, scappi, corridoio, spogliatoio, armadietto, posi un'altra voltala
roba, corri giù, mezz'ora, eccoti un'altra volta nell'officina.
Tutto di corsa, mentre vai e mentre torni in officina, se no non ce
la fai. Questo è lavoro, mica è intervallo. E' produttivo
sto fatto. Oggetto dell'ironia raffinata e caustica di Giuseppe Cassieri ne "Le caste pareti" è la tranquillante ideologia del "senso comune" cui imprevisto e irrazionalità sono ignoti. Esempio, anzi, capolavoro realizzato di buon senso è la convivenza dei due protagonisti, piattamente incanalata nelle regole del vivere in due, tanto serena da sfiorare la banalità, nella quale tuttavia si insinua, dapprima impercettibilmente, poi con effetti sempre più evidenti, una oscura nota d'inquietudine. L'impiego protratto fino quasi al paradosso del linguaggio mondano e amabile con punte di raffinata modernità, tipico dei rotocalchi, in particolare dei rotocalchi cosiddetti femminili, finisce per evidenziarne tutta l'intima vacuità: "Talvolta mi
domando se sia un bene o un male che tra noi sussista qualche divergenza
nella cosiddetta visione della vita. Forse non è un male, se
ci amiamo. Serve a rendere più folto di emozioni il campo privato;
senza spostarci dall'abitacolo riusciamo a incarnare il sì e
il no del nostro mondo nel mondo in grande mantenendoci in equilibrio.
Si può, dunque. Si può se ciascuno bussa con discrezione
alla porta del compagno, e in determinate circostanze accetta che si
risponda di no. Liberissimo lui di preferire la linea ondulata al rettifilo,
ma non mi accusi per favore di esagerata fedeltà al planning.
Mi spiego meglio. Io ho una filosofia da mettere in pratica nel corso
della giornata. Ogni donna, soprattutto una razionale padrona di casa,
dovrebbe averne una. Mi alzo un quarto d'ora prima del mio uomo e dopo
breve transito in bagno mi ritiro nel mio studiolo, siedo allo scrittoio
e rifletto sulla ripartizione delle faccende interne, delle faccende
esterne, degli imprevisti da calcolare nell'arco delle ventiquattro
ore. Giungo ad affermare che una morte subitanea non mi troverebbe impreparata.
Ignoro cosa significhi poltrire tra le lenzuola col cervello sveglio,
pronto ad assumersi le sue responsabilità. Nel riflettere e coordinare
non cedo mai per pigrizia ai doni della memoria: un alibi da vecchia
massaia che consiglio di sotterrare. Mi munisco di due armi leggere
e infallibili, da portare legate al collo, alla cintura, a vostro criterio,
purché in servizio permanente: biro e agendina, e grazie ad esse
evito quelle ulcerate esclamazioni delle nostre conoscenti allorché
si accorgono che il bilancio previsionale è saltato. Come mai
siamo fuori di tanto? Come mai! Occorre, si capisce, affidarsi a un
metodo di gestione che comprenda finanze, governo della casa, rapporti
intimi col proprio compagno; ciascuna di voi può elaborarne uno,
ma quel che importa è che non lo molliate se non per provata
indegnità. Io trovo eccellente il Drucker-Constance articolato
in cinque punti capitali: definizione del problema; analisi del problema;
ricerca delle diverse soluzioni del problema; decisione a valle del
problema; trasformazione della decisione in azione e sorpasso del problema."
Del 1975 è
"Padre padrone: l'educazione di un pastore", di Gavino Ledda.
E' un testo complesso, nel quale sembrano confluire motivazioni ed impulsi
diversi: vi è sempre l'intento di denuncia delle condizioni di
vita dei più dimenticati tra i lavoratori agricoli, i pastori,
diseredati in modo colpevole da uno stato che se ne ricorda solo per
farne dei soldati o dei poliziotti, o per braccarli quando hanno scelto
la via del brigantaggio, ma è anche costante lo sforzo di razionalizzare
l'arcaico sistema di valori che contribuiscono fortemente a mantenere
i pastori della campagna sarda in un ruolo di totale subalternità,
e di recuperare per superarla, attraverso l'analisi della figura del
padre quale tramite interno al sistema stesso e della diversità
linguistica come limite che impedisce di uscire dall'emarginazione,
una realtà che pure, per l'impressionante autobiografismo del
libro, è sentita come parte essenziale del proprio presente:"Giunti
al bivio, si attese il pullman in un imbarazzo reciproco che ci allacciava
come un giogo dispaiato alla fiera. Nei suoi confronti mi ero sentito
sempre come un capo di bestiame, come Pacifico. Mi aveva sempre dovuto
imbastare ed usarmi come un attrezzo nel lavoro. Ma nell'attesa mi stavo
preparando ad uscire dalla proprietà di mio padre e stavo incominciando
ad immaginarmi diverso dalle altre bestie domestiche. Non ci riuscivo
del tutto. Il tempo stringeva e la circostanza mi stava strappando dal
peculio e ci stava imponendo di recitare, almeno per un attimo, una
parte mai vissuta. Dentro il nostro timido silenzio, tutti e due ci
si preparava ad essere quello che non eravamo mai potuti essere: padre
e figlio. Impalati lì, l'unica arma cui ognuno ricorreva per
rimanere ancora dentro il nostro rapporto gerarchico era il silenzio.
Avevo quasi vergogna di divenire figlio davanti al, mio padrone che
mi aveva sempre dominato. Lui nel suo imbarazzo tradiva più o
meno lo stesso sentimento: la soggezione di divenire padre. E' come
se ognuno si fosse abituato al proprio ruolo, ora nessuno voleva rinunciarvi.
Gli attimi però correvano. E di tanto in tanto ci si stiracchiava
il collo per vedere se il pullman si stesse snodando lungo la strada.
Nessuno, però, voleva cedere a fare la parte che la circostanza
ci imponeva in ogni caso. Il pullman con le sue trombe sbloccò
quello stato d'impaccio. E ognuno pian piano riuscì, sia pure
malamente, a mettersi finalmente nella posizione naturale. Io a risalire
a quella di figlio, lui a retrocedere in quella di padre. Si è detto prima che l'entità "fabbrica" ha modificato radicalmente il sistema dei rapporti dell'individuo con l'ambiente in cui opera, ed ha quindi imposto agli intellettuali nuovi modi di confronto e di approfondimento rispetto alla realtà. Un aspetto particolare di questa tendenza è costituito dal proliferare dei "romanzi-verità" scritti in prima persona da operai: per ricordare alcuni nomi, si pensi a Vincenzo Guerrazzi, a Vincenzo Bonazza, a Tommaso Di Ciaula. L'ispirazione di partenza di Tommaso Di Ciaula può sembrare simile a quella del Balestrini di "Vogliamo tutto", ma del tutto diversi sono gli esiti: la "letteratura operaia" di Balestrini tradisce un approccio molto intellettuale all'oggetto della narrazione, sia nell'uso sapiente della contaminazione della lingua scritta con la concitazione del parlato, sia nel ruolo preminente affidato all'enunciazione ideologica rispetto al racconto; in Di Ciaula, il continuo vagabondare del discorso tra i ricordi dell'infanzia vissuta in campagna e il presente fatto di lavoro in fabbrica sostanzia di una verità più autentica e convincente le riflessioni, che pure sono anche molto politiche, sui guasti e sulle occasioni fallite dello sviluppo economico nel Sud: "Che grande
invenzione la fabbrica. La fabbrica! In poche centinaia di metri quadrati
costringere centinaia e centinaia di persone. Gente che doveva saper
quasi volare. Infine, un'epica dell'emarginazione, "Nero di Puglia", di Antonio Campobasso. Difficile dare una definizione di quest'opera, quanto mai atipica rispetto al panorama letterario contemporaneo: non è solo un romanzo, dal momento che a tratti la "voglia di dire" di Campobasso rompe le linee della prosa per cercare il ritmo dei versi, ed è qualcosa di più di una giustapposizione di brani di prosa e di poesia, perché nella prosa resta la potenza suggestiva e lirica dei versi, e la poesia mantiene la rabbiosa volontà di denuncia della prosa. La narrazione si snoda veloce, appassionata, quasi concitata, con una ricchezza espressiva che va dai toni di indignazione più acuta, alle note di tristezza più dolente, alle poche vibrazioni di tenerezza: "A Triggiano,
in vicolo Buonarroti, vivevo con la vecchia in un basso desolato. Un
letto a due piazze, tre sedie, una catasta di legna secca per fare fuoco,
una lampada a petrolio. Luce, gas, acqua corrente non l'immaginavo manco.
E d'inverno, quando il gelo pungeva (ma chi ha mai incantato la gente
con l'illusione del calore del sud?) dominava il braciere con le carbonelle
semiaccese, ti bruciava le cosce e ti lasciava le spalle al vento. E
che notti! Quando la stanchezza non mi faceva suo prigioniero, mi danzavano
gli incubi nel sogno, mi svegliavano, mi facevano bestia, e lì,
accanto al mio corpo, c'era questa donna cui aggrapparmi per il calore
che mi veniva meno. Cosa mangiavo? Ora lo comprendo. La vecchia usava
una tessera di povertà, bussava all'ente comunale di assistenza,
strappava al mondo del Moro e dei potenti del sud qualche chilo di pane
e di pasta; faceva la serva presso le case dei ricchi, tirando avanti
ora per ora, giorno per giorno, settimana per settimana, in un calendario
della miseria che nessuno conosce, quello che non è il calendario
dell'opulenza e della liturgia: qualche cosa di diverso, in cui ogni
giorno è sangue rosso, attesa, speranza, un tozzo di pane, un
rifiuto che raccogli. E non sempre le davano soldi; bastavano un chilo
di zucchero o un abito smesso che si facevano, nella magia delle sue
mani, una ricchezza inattesa. Si facevano acquietamento di fame, o pantaloni
e mutande per il ragazzo negro che le premeva addosso. E se non trovava
da servire o da lavare panni, girava per le case a pettinare le vecchie,
secondo l'antico mestiere delle pettinatrici che il tempo, anche quello
del sud, ha ingoiato. |
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