Onesti per disperazione




Cesare Zappulli



Non sappiamo che cosa sia il carburo di tungsteno né a che serva farne "riporti" per l'utensileria di precisione. Voleva spiegarcelo, poco tempo fa, un industriale comasco nelle pause di un incontro indetto dall'Associazione locale dei piccoli imprenditori sulla finanza d'impresa. Della sua esposizione un solo particolare ci colpi: che egli aveva iniziato quell'attività nel 1962, in un'autorimessa e con un credito di due milioni concessogli dal Banco Lariano; adesso ha 60 dipendenti e più di metà del fatturato all'esportazione. Veniva fatto di pensare, ascoltandolo, che cosa sarebbe l'Italia del 1982, se le decine di trilioni (migliaia di miliardi, secondo la numerazione francese e americana), che sono andati e vanno a finanziare le iniziative e i cedimenti del Potere, in campo sociale e in campo industriale, fossero state in parte dirottate verso gl'investimenti dei privati. Avremmo di certo più occupati e meno assistiti; ma ne scapiterebbe la rinomanza di molti politici, infaticabili distributori di pensioni, posti, supposte ed altre provvidenze.
La questione consiste nel sapere fino a quale punto lo Stato, per quelle sue iniziative, ha il diritto di requisire il risparmio della nazione, lasciando le imprese a secco il risorse. Ed essa ha preso forma nella disputa, non priva di scortesie, corsa fra il Ministro del Tesoro e le banche: accusate, quest' ultime, di sparlare, in riservati colloqui con la clientela, della carta di debito che lo Stato emette per far fronte ai suoi inesauribili impegni e persuaderla a disfarsene per riportare il denaro nei depositi.
I Bot, offerti a valanga ogni mese, sono vero e proprio denaro indicizzato; ed e anzi, da stupire che ancora non vengano usati, sbrigativamente, come numerario per le transazioni di qualche importanza. Come può stare in concorrenza la banca con la sua remunerazione del 13, al massimo del 14 per cento, su cui poi si abbatte - ultima prepotenza - l'imposta sostitutiva del 20 per cento, poi elevata al 21,60? Che cosa si è inteso tassare? Un reddito negativo, cioé una perdita, considerato il tasso di inflazione? Oppure la ribellione di non aver conferito i propri soldi allo Stato? Ma e difficile per la banca trovarsi alle prese con un concorrente dotato della duplice possibilità di strapagare il risparmio che attira e di vessare fiscalmente quello che si sottrae.
Il banchiere o bancario, anche se lo volesse, non avrebbe alcun argomento per scoraggiare l'investimento esentasse in titoli pubblici che rendono il 2022 per cento. Né e minimamente da credere che la clientela presterebbe fede alle dicerie di una imminente tassazione di quel rendimenti o di un consolidamento di quel titoli: come potrebbe tentare di siffatti ardimenti una Tesoreria che, se non trova i soldi per le spese della giornata, va in liquidazione coatta? Stiano tranquilli i risparmiatori; fino a quando il disavanzo del settore pubblico starà sui 50 trilioni di lire e il fabbisogno di cassa lo costringerà a sequestrare due terzi del credito totale, lo Stato dovrà essere onesto per disperazione.
I banchieri o bancari potranno spiegare alla clientela che si, certo, la sottoscrizione di Bot rende dieci punti di più del deposito bancario; ma che per questa via il risparmio sceglie un impiego abortivo, perché serviva solo a pagare impiegati, supposte (e clisteri), interessi che si cumulano a piramide, cassa d'integrazione, sprechi regionali e municipali, malefatte dell'industria pubblica. Può darsi che gl'italiani, resi partecipi delle tribolazioni di un nazione che non riesce a finanziare il suo apparato produttivo e cedendo all'antipatia per un governo che tollera una tale condizione di cose, si passino la parola di non dare più soldi allo Stato, riducendolo alla mendicità o alla falsa monetazione. Il segno più significativo dello smarrimento in materia di bilancio e stato il consenso del Governo a trasferire dall'inizio alla coda dell'esame della legge finanziaria l'impegno di tenersi dentro il "tetto" dei 50 mila miliardi di fabbisogno di cassa. E se in seguito non ci si starà, che si farà? Si riaprirà la discussione? Il Governo e il Parlamento - lo ha detto nel novembre scorso il Ministro del tesoro - hanno perso la sovranità e il controllo sulla spesa pubblica. Non pare che siano sulla strada di ritrovarlo.

NELL'INDUSTRIA' ERA GLACIALE

A New York, a Washington e nelle altre maggiori città degli Stati Uniti, nel 1930,i soli che si sentivano tranquilli e non nutrivano apprensioni per il futuro erano gl'impiegati federali e delle municipalità, non ancora raggiunti (né mai lo furono) dagli effetti della grande crisi. Prese corpo, anzi, in quegli anni la dottrina o semplice credenza che un'abbondante massa di stipendi pubblici, da pagarsi puntualmente senza alcuna dipendenza dagli alti e bassi dell'economia, fosse il migliore antidoto alla caduta della domanda e, quindi, alla depressione. Forse, in Italia, nel 1982, dobbiamo rassegnarci a pensare così Le sole gestioni che reggono, che non chiedono riduzione di personale, né la mobilità esterna, né la sospensione del turn-over, che non ricorrono alla cassa integrazione, sono quelle che appartengono, grazie a un comodo neologismo, al settore pubblico allargato, stipendiatore di un buon numero di consumatori professionali (tre milioni e mezzo) e dispensatore di potere d'acquisto per molte decine di migliaia di miliardi (trasferimenti alle famiglie). Tutto il resto, e come dire l'Italia non pubblica, langue. Non c'è giorno che non porti la notizia di un'altra grande impresa in difficoltà, mentre per le minori e le minime, i cui affari in sé non fanno notizia, si hanno dati globali e desolanti, come quello di un terzo delle aziende che ha chiesto (Piemonte) o s'appresta a chiedere la cassa integrazione. Negli ultimi tempi - ha detto il Ministro dell'Industria, che e l'amministratore di questo asilo di carità - 421 imprese hanno fatto domanda di accedervi; le ore integrate, al consuntivo del 1981, non sono state meno di 500 milioni, equivalenti a 250 mila lavoratori a spasso, in aggiunta ai due milioni censiti dal ministero del lavoro come disoccupati. Il Ministro dell'Industria spiega che, a partire dall'estate '81, le cose vanno di male in peggio. E' in crisi l'automobile (e l'Alfa Romeo vede, infine, crescere la produttività dei suoi due stabilimenti proprio ora che la produzione non trova mercato). Sono in crisi l'acciaio, la chimica, l'elettronica, mentre si aggravano i guai della cantieristica; e l'Enel, privo di fondi, mette alla disperazione centinaia di imprese creditrici per forniture e manutenzione. Ma il segnale più allarmante viene dal settore delle macchine utensili, che ha visto ridursi gli ordinativi del 41 per cento nell'ultimo trimestre '81, rispetto allo stesso periodo del 1980, e la produzione del 7,5 per cento: il che vuol dire che il ciclo degl'investimenti declina, per la riluttanza delle aziende a rinnovare l'equipaggiamento e ampliare gl'impianti.
Il ristagno si propaga, come un'epidemia, in tutti i comparti; e la paura, o come si dice, il clima d'opinione non potrebbe essere peggiore. Ma l'impresa, malauguratamente, non e come la marmotta che si mette in letargo quando gela per aspettare la primavera. Né alcuno può prevedere quando tornerà il tepore, perché a questa glaciazione interna si somma, a partire dagli Stati Uniti, la depressione internazionale (per le macchine utensili la caduta della domanda estera e del 16 per cento, anno su anno). Secondo il sindacalista Giorgio Benvenuto, 400 mila posti di lavoro rischiano di aggiungersi, a breve scadenza, a quelli già perduti.
L'"autorità" non ha strumenti per fronteggiare la situazione che si profila; ma e abituata a dare un nome (e una sede) ai problemi.
Così si continua a parlare di politica industriale, sebbene si abbia la consapevolezza che si tratta di un scatolone vuoto. Vi ha dedicato 200 pagine Luisa Compagna Marchini, funzionario della Ragioneria Generale ("Nel labirito della politica industriale", il Mulino editore), mettendo insieme dodici interviste e un grafico che, se l'attributo non fosse improprio, chiameremmo "delizioso", per illustrare le escogitazioni e le farneticazioni di chi crede di Poter, con i suoi comandi, guidare l'investimento e lo sviluppo.
E Ministro dell'Industria, responsabile ex officio della politica industriale, ha spiegato, in quasi completa consonanza con Franco Mattei, che una politica di quel nome non può essere nella competenza specifica di alcun dicastero. Il malessere delle imprese non dipende da ciò che un ministro fa o non fa, bensì dal fatto che la rivendicazione retributiva ha eroso i margini di autofinanziamento dei bilanci, che gli alti costi del lavoro hanno ridotto la competitività della produzione, che i salari reali non hanno altri spazi da conquistare ma, forse, debbono diminuire. Tutto il resto e pura chiacchera.


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