La ripresa nell'estate '82




Ulrico Buttini



Abbiamo davanti a noi ancora alcuni mesi di stagnazione-recessione: questa, la previsione degli esperti e degli operatori che tentano di delineare il profilo del 1982. C'è una diffusa sensazione di stallo. Anche i rinnovi dei contratti di lavoro attendono: l'appuntamento per metalmeccanici, tessili e altri, cioé per tre milioni di addetti all'industria, era per fine ' 81, ma e slittato ben al di là. Si attendeva la definizione del famoso "netto" del 16 per cento all'inflazione, ma anche altre cause ne consigliavano il rinvio. L'ultimo rapporto di "Prometeia", il più qualificato centro di previsione italiano sulla congiuntura, spiega: la recessione in atto nel nostro paese, come all'estero, si rivela meno lieve del previsto e soprattutto si stanno consolidando aspettative di una fase abbastanza prolungata di stagnazione. A ciò si aggiunge un calo tendenziale dell'occupazione. La propensione al consumo, alla spesa, ha invertito la tendenza. Si sono ridimensionate le aspettative di inflazione e poiché non esistono elementi per ritenere probabile un allentamento della politica monetaria, ciò dà luogo ad un ritorno dei tassi di rendimento reali delle attività finanziarie su valori positivi, dopo dieci anni di esiti negativi.
Operatori e famiglie, dunque, come suol dirsi, "tirano i remi in barca".
Si pone a questo punto un interrogativo di fondo: come possiamo superare il "buco" che ci separa dalla ripresa (o dalla "ripresina", viste le precedenti evoluzioni del ciclo economico) che dovrebbe essere spinta, a partire dell'estate, dalla domanda mondiale, cioè da un risveglio delle economie forti, degli Stati Uniti e della Germania Federale?
Rispondere all'interrogativo significa non solo fare una diagnosi del momento economico-congiunturale, ma anche individuare le terapie più opportune perché il sistema possa cogliere le occasioni che si dovessero presentare nel corso del 1982. Il basso profilo del 1981 si e caratterizzato con una flessione produttiva che ha coinvolto tutti i settori. Il prodotto dell'industria e stato realmente inferiore di un buon 4 per cento rispetto a quello registrato nell'anno precedente. Anche l'agricoltura ha segnalato flessioni, intorno al 2 per cento. Non c'è da stupirsi dei risultati, hanno detto gli esperti. Le autorità di governo hanno imposto una stretta all'economia, agendo sulla leva monetaria, in assenza di altri e più qualificati strumenti che però richiedono consenso politico e prontezza amministrativa. Le conseguenze erano scontate. Anzi, il sistema economico ha reagito, dimostrando notevoli capacità di adattamento:
Il giudizio merita qualche verifica. L'economia e stata "raffreddata" come antitesi all'inflazione. Il prezzo, pero e stato "salato". L'inflazione è scesa di un buon paio di punti (dal 20 al 18 per cento), ma la disoccupazione e fortemente aumentata, la cassa integrazione e stata, ed e tuttora, utilizzata ai limiti delle possibilità. Gli investimenti hanno registrato un calo di oltre il 14 per cento rispetto all'anno precedente, con previsioni tutt'altro che favorevoli per il prossimo periodo, alla luce della contrazione degli ordini. Nello stesso tempo, si sono ridotte notevolemente le scorte: le hanno ridotte i produttori primari, le hanno ridotte gli utilizzatori industriali, i grossisti. I magazzini, all'inizio dell'82, erano quasi vuoti.
Questi dati grezzi vanno peraltro scomposti, analizzati. Una caduta degli investimenti era scontata e prevista. Avevamo avuto un "boom" nel 1979-80. Ma gli esperti segnalavano che al calo degli investimenti, indotto dalla contrazione della domanda, si era aggiunta una riduzione degli investimenti per l'innovazione tecnologica: era, questo, un pericolo segnalato soprattutto delle cadute di produzione in vari comparti della meccanica e dell'elettronica. Si poteva iniettare così un pericoloso "tarlo" nel sistema. Sarebbe estremamente negativo - precisò uno studioso di problemi strutturali del sistema industriale - se l'industria italiana arrestasse il processo di aggiornamento tecnologico, proprio in un momento in cui le applicazioni dell'elettronica e dell'informatica in officina si avviano a costituire l'elemento di maggior evidenza nel panorama industriale dei Paesi avanzati. Non bisogna drammatizzare, - avevano replicato gli esperti del Ministero del Tesoro - le imprese hanno bruciato le scorte, hanno utilizzato al massimo le riserve, hanno dimostrato con questi comportamenti di reagire alle difficoltà, fin dove e stato possibile.
E i risultati sono: incremento delle esportazioni, registrato dall'andamento della bilancia dei pagamenti correnti (si e passati da un deficit destagionalizzato sui settemila miliari nel primo periodo dell'anno a un deficit dimezzato nell'ultimo trimestre); incremento della produttività, registrato (ed e un fatto nuovo) in presenza di una flessione della produzione. E ancora: le imprese (o almeno alcune imprese, meno imbrigliate dai lacci politici nella ricerca di equilibri produttivi) hanno avviato processi di ristrutturazione, riducendo mano d'opera esuberante, ponendo in essere nuove tecniche di gestione, puntando sull'efficienza ed ottenendo risultati, come i consuntivi aziendali dell'81 hanno dimostrato.
Spiega un esperto del Centro Ricerche di Economia Aziendale della Bocconi e consulente del Ministero del Tesoro: "Con vari sacrifici, le imprese hanno superato i primi sei mesi di recessione, la prima parte del lungo "buco" di crisi. Per aumentare l'export, in presenza di un calo della domanda interna, hanno sopportato crescenti sacrifici, hanno eroso gli ultimi margini di manovra. Le scorte sono state assottigliate di fronte al caro-denaro. Ma e impossibile che si possa giungere alla sperata ripresa del settembre-ottobre '82 senza fare nulla, cullandosi nell'illusione del "galleggiamento". I fattori che non sono risultati stretti in questi mesi, per varie ragioni, possono diventarlo, ed in maniera pericolosa, nei prossimi.
L'economia italiana, dunque, ha chiuso il 1981 con molto dati negativi e anche con flessioni che, se sono più marcate rispetto alle previsioni che venivano formulate nello scorso settembre (la crescita non sarà "zero", ma negativa dell'uno per cento circa), risultano tuttavia contenute proprio perché il sistema delle imprese ha utilizzato le disponibilità residue. Oggi ci troviamo veramente al "dunque", tenendo conto del fattore più importante, quello della competitività, corroso dai costi del lavoro e dagli effetti perversi dell'inflazione.
Si innestano su questo scenario molteplici incognite. Se vogliamo esser sinceri, il tetto del 16 per cento dell'inflazione, disegnato dal Governo, attende ancora di essere tradotto in realtà. Il Sindacato ha accettato il principio, ma la base ha risposto in modo ambiguo, e la trattativa tra Confindustria e forze sindacali sul costo del lavoro si preannuncia tutt'altro che semplice. C'è il rischio che, in questa alternanza di fatti e di propositi, si perda di vista l'obiettivo del recupero di competitività e si alimentino ulteriori incertezze, in un quadro già confuso e contraddittorio. E tutti sanno che l'incertezza e il maggiore alleato dell'inflazione. Punti fermi, dunque, si impongono, se non si vogliono vanificare i sacrifici compiuti e quelli annunciati nell'immediato futuro con ulteriori potature fiscali e tariffarie.
Dice il Presidente della Confindustria, Merloni: "Trent'anni fa, fu la ricostruzione che catalizzò il sistema in uno sforzo comune. Negli anni successivi, il Paese si impegnò nell'espansione delle nostre produzioni: fu il cosiddetto miracolo economico. Oggi e necessario realizzare un nuovo "progetto" di sistema di tutte le energie, progetto che tenda a dare finalmente un volto moderno al nostro paese: moderno nelle sue strutture tecnologiche, scientifiche, organizzative, sociali, territoriali".

Per quanto riguarda l'industria, sottolinea, il primo compito che ci attende e quello di allontanarci, quanto più in fretta possibile, dal rischio che le nostre produzioni siano sostituite sul mercato mondiale dalle produzioni dei nuovi sistemi industriali ("New comers"). Ciò richiede uno sforzo formidabile nel campo dell'innovazione tecnologica e soprattutto del trasferimento dell'innovazione in tutte le nostre industrie. Ma la realizzazione di questa strategia deve partire da alcune premesse realistiche:
- siamo un Paese industriale, ma le nostre produzioni sono tecnologicamente più basse di quelle dei nostri concorrenti; e questo divario non colmabile in tempi brevi;
- non disponiamo di adeguate infrastrutture esterne all'apparato industriale;
-abbiamo un cronico ritardo nello sviluppo della cultura industriale, che rende difficile il funzionamento delle organizzazioni complesse;
- abbiamo scarsità di risorse finanziarie, che non consente la proliferazione delle linee di investimento.
Da tutti questi fatti segue che nel nostro Paese e difficilmente proponibile una strategia di attacco verso i nuovi settori fortemente innovativi, che richiedono massicci investimenti in ricerca e in strutture specifiche. Per contro, il Paese dispone di un vasto apparato produttivo in settori che impropriamente vengono definiti "maturi", i quali assorbono, in termini relativi, una larga quota di occupazione. Appare quindi irrealistico ogni piano che non tenga conto di questa situazione e che si prefigga per l'Italia una riconversione tecnologica che richiederebbe tempi, come afferma l'economista Fuà, "Misurabili in generazioni con il rischio di attivare tensioni sociali dalle conseguenze imprevedibili.
Ma se ciò è vero, il ruolo del nostro Paese nella nuova divisione internazionale del lavoro va ricercato, almeno nel medio periodo, nel potenziamento dei settori esistenti, mettendoli in grado di combattere ad armi pari, se non migliori, con la concorrenza internazionale, vecchia e nuova. Sul piano interno, questa strategia deve però necessariamente collegarsi con quella dello sviluppo delle aree arretrate. Diversamente, ogni discorso resterà o puramente teorico o puramente punitivo per il Mezzogiorno.
"Orbene," aggiunge Ettore Massacesi, Presidente dell'Intersind, "la società italiana - in tutti i suoi aspetti, quelli politici, quelli amministrativi, quelli economici, quelli civili - potrà ridiventare efficiente - e quindi capace di nuovo sviluppo e di nuove accumulazioni di risorse - solo se sarà rivalutato il significato positivo del rischio, cioe' delle capacità delle persone e delle organizzazioni di muoversi in tutte le direzioni possibili, al di fuori dei confini del garantito".
Ci sono dati significativi, mentre la crisi sembra essere al suo punto più alto, che confermano lo spazio esistente per una politica di austerità, finalizzata al mutamento e all'evoluzione del nostro modo di produrre.
I consumi privati delle famiglie e dei beni di servizio sono aumentati nel corso dell'ultimo anno del 25% in termini monetari, del 4,4% in termini reali. i consumi alimentari sono aumentati in termini reali del 2,8%; i consumi non alimentari del 28,5% in termini monetari e del 5% in termini reali; le vendite di automobili danno un + 17% in termini reali e un + 36% in dati monetari. "La mia speranza - dice il Ministro dell'Industria, Marcora - sta proprio in questo: nel constatare che il Paese ha in sé energie tali e forze inespresse che, se sapranno misurarsi con i sacrifici che sono ancora da farsi, non potranno che portare a definire un fine positivo, perché somma di comportamenti responsabili ed opportuni".
E l'agricoltura? Il settore primario deve anzitutto superare il difficile momento che sta vivendo. In un quadro di pesanti condizionamenti strutturali e di forti spinte congiunturali, la produzione lorda vendibile ha subito una flessione dovuta all'andamento sfavorevole delle produzioni vegetali ed arboree, rimaste quasi tutte al di sotto dei risultati del 1980. Nel corso del 1981 il rapporto prezzi-costi, che già l'anno precedente aveva fatto registrare un forte deterioramento, ha subito nuove tensioni.


"La cosa più preoccupante - sostiene il Ministro dell'Agricoltura, Bartolomei - e l'ulteriore riduzione dei consumi intermedi e degli investimenti. Ove la tendenza dovesse consolidarsi, ne potrebbe avere un grave pregiudizio il potenziamento produttivo per i prossimi anni. Questo e il punto che ci conduce a considerare con molta attenzione due nodi fondamentali: uno e quello comunitario (non è pensabile che l'Italia voglia fare a meno dell'Europa); l'altro è quello congiunturale (occorre ricostituire, con la fiducia del risparmiatore, le basi del sistema, altrimenti la limitazione degli investimenti sarà spietatamente operata dalla svalutazione monetaria)".
C'è poi il problema del cosiddetto "capitale invisibile", quello della ricerca scientifica. Obiettivo è dotare il Paese di un sistema unitario di ricerca, nel quale siano integrate e qualificate le non poche risorse di cui disponiamo. Senza questo supporto essenziale, saremo fatalmente relegati ad una parte subalterna sulla scena europea e mondiale, dove invece possiamo essere presenti in modo originale. Un coordinato rilancio della Scienza e anche una componente imprescindibile della strategia di rinnovamento della società. E non solo nel senso del progresso delle condizioni materiali di vita, sempre più dipendenti dal "fattore ricerca". La rivoluzione scientifica alla quale stiamo assistendo, e che comporta cambiamenti forse più pregnanti della stessa rivoluzione industriale, va posta al servizio della promozione integrale dell'uomo, della crescita equilibrata dei popoli, della pace. "Se il cristiano - avvertiva di recente il papa - non si lascia guidare, nella sua attività sociale, dalla sua visione dell'uomo, egli potrà anche elaborare soluzioni parziali e tecniche di singoli problemi. Ma, in ultima analisi, non avrà reso più umana la società, ma solo, al massimo, tecnicamente più efficiente l'organizzazione sociale".
Il problema del Mezzogiorno. Rispetto al Sud del 1950, le risorse pro-capite sono triplicate; il reddito agricolo e quadruplicato, come i consumi individuali in alcuni settori indicativi; la distribuzione della popolazione si e equilibrata verso le attività extra-agricole; il grado di istruzione complessiva ha, raggiunto un sostanziale equilibrio con il Centro-Nord; i modelli culturali e sociologici fanno registrare una progressiva omologazione allo standard nazionale.
Per contro, oltre il 60% della disoccupazione italiana è concentrata nelle regioni meridionali; l'industria meridionale partecipa solo col 5% all'esportazione nazionale; la componente estera nel turismo meridionale supera di poco il 12% del peso complessivo nel Paese; gli investimenti industriali sono calati del 25% nell'ultimo quinquennio; la crisi nazionale della grande industria rende precario il tessuto industriale di base creato nel Sud.
Questi indicatori sono la risultante di una geografia economica molto articolata. Accanto a punti di accumulo di significativa intensità, permangono smagliature strutturali altrettanto significative. Si tratta, quindi, di un tessuto economico che non conosce più la drammaticità delle esigenze di rottura della stagnazione, ma che e idoneo ad avviarsi verso uno stadio di sviluppo autopropulsivo. Rispetto al tessuto economico nuovo si e prodotta la crescita sociale e istituzionale, sia degli strumenti costituzionali di autonomia sia delle soggettività imprenditive.
Ma gli anni '80 prospettano altre necessità. E, ad esigenze diverse, strategie e mezzi diversi. Se, cioè , sembra fuori discussione che la politica di intervento straordinario debba proseguire, se e pacifico che la sostanza della manovra espressa dall'intervento consiste nel destinare alle regioni del Sud risorse aggiuntive da gestire con straordinarietà di procedure, sembra anche opportuno individuare un criterio-quadro meglio rispondente al bisogni nuovi della questione meridionale, tenendo anche conto che, di fronte ad aree "decollate" - come la Puglia o l'Abruzzo - permangono aree ancora lontane dal take-off, come la Calabria, buona parte della Campania, la Basilicata. Gli elementi richiesti sono:
- la chiara definizione di una fase programmatica che con precisione e con responsabilità di indirizzi e di gestione definisca obiettivi e progetti di azioni di sviluppo cui destinare le risorse aggiuntive;
- la previsione di uno strumento agile il quale assicuri, attraverso la gestione della complessiva manovra finanziaria, che i mezzi vengano destinati con la maggiore economicità e rispondenza programmatica - agli obiettivi previsti;
- la riconduzione delle responsabilità di attuazione dei progetti specifici, così ispirati e finanziati, ai soggetti utilizzatori. Si tratta di una soluzione che fonda la sua efficacia sulla netta distinzione m funzioni di programmazione, gestione finanziaria delle risorse e funzioni A esecuzione. Una soluzione, quindi, idonea a conciliare l'unità di strategia con la molteplicità dei soggetti chiamati ad attuarla, al fine di evitare sovrapposizioni, confusioni e conflitti di cui non è povero, in particolare, l'ultimo periodo della prima fase di intervento straordinario. "Di qui - rileva Manfredi Bosco - la proposta di affidare la ne dell'intervento ad un organo in cui, particolarmente Governo centrale e presidenti delle Regioni co-decidano obiettivi ed azioni di sviluppo. Da ciò la proposta di istituire un "Fondo" finalizzato a canalizzare le risorse, tendo al finanziamento gli interventi corrispondenti alle deliberazioni grammatiche. Da ciò la scelta di affidare la cura esecutiva degli interventi, da finanziare con mezzi aggiuntivi e da realizzare con procedure straordinarie, ai soggetti istituzionalmente competenti; e perciò l'opzione per una Azienda pubblica idonea a realizzare quegli interventi per i quali manchi un'interfaccia istituzionale o si evidenzi la necessità di una gestione unitaria risultante da vincolanti accordi operativi".
Si tratta, in altre parole, di una soluzione che mira a sostenere l'imprenditorialità latente ed emergente - sia pubblica che privata, a valorizzare la produzione, a sviluppare i servizi rari e qualificati per accrescere la produttività del sistema economico meridionale. E tentare di riprendere, per questa via, E strada dello sviluppo del Paese attraverso la crescita del Mezzogiorno.
Da notare, a proposito del Sud, l'assenza, (o la presenza "sfumata"?) dei meridionalisti, del dibattito vivace e creativo, che pure aveva caratterizzato anni di passione e anni di azione. Una caduta di tensione intellettuale e politica sembra si debba registrare tra la fine degli anni '70 e questo primo arco degli anni '80. E non ci sembra un dato positivo.
Il dibattito meridionalista ha rappresentato, in tutte le sue manifestazioni, nelle diverse e, se si vuole, anche contrapposte sfaccettature, un emblematico, un punto di riferimento preciso per generazioni che si affacciavano allo studio e al lavoro. Che si tratti di un "assorbimento" o di un "defilamento" non è problema che ci interessi, almeno in questa occasione. Che sia comunque una perdita netta è fuori discussione.


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