Diventeremo un Paese di pensionati?




Libero Lenti



Ancora non molto tempo fa, quando si facevano previsioni sul futuro della nostra popolazione, s'era abbastanza sicuri d'azzeccarla giusta. Si conosceva già il numero di coloro che per motivi d'età erano in grado di mettere al mondo i futuri italiani. Pertanto, con qualche proiezione dei saggi di fecondità e di mortalità, non si poteva sbagliare di molto. Ma oggi, anche in campo demografico, tutto sta cambiando. Particolarmente i saggi di fecondità presentano una sostanziale riduzione. Anche nelle regioni meridionali la limitazione delle nascite e all'ordine del giorno. Ovunque il numero medio dei componenti per famiglia sta diminuendo, ma nelle regioni meridionali più che altrove.
Per questo non deve stupire se i risultati dell'ultimo censimento della popolazione, eseguito nell'ottobre scorso, e pubblicato con encomiabile rapidità dall'Istat, pongono in evidenza un deciso rallentamento nell'incremento della popolazione. Tra il '71 ed l'81 l'aumento e stato pari al 3,9 per cento. Ma nel decennio precedente era ancora del 6,9 per cento. Ed anche prima gli incrementi di popolazione intercensuali s'aggiravano attorno al 6-7 per cento. Qualcuno, naturalmente, se ne rallegra. Ma altri, tenendo conto che questo rallentamento s'accompagna ad un progressivo invecchiamento della popolazione, non possono fare a meno di domandarsi come potranno essere risolti alcuni problemi economici. Per esempio, quello del trasferimento d'una crescente quota del reddito nazionale per soddisfare bisogni assistenziali, ed in particolare pensionistici. Per trasferire reddito, bisogna che la popolazione in età attiva lo produca. Certo non lo producono, se non in minima parte, i pensionati.
Non è ancora possibile, in base ai dati sommari disponibili in questo momento, eseguire calcoli molto sofisticati sulla capacità di riproduzione della popolazione. Ma non credo d'esser molto lontano dal vero se dico che oggi questa capacità e inferiore all'unità, mentre una capacità pari all'unità sarebbe appena sufficiente. In altri termini, la popolazione aumenta ancora, sia pure in base ad un saggio d'incremento sempre più modesto, ma solo perché sono in vita donne in età feconda nate quando il saggio era assai più elevato.
Non e qui il caso d'esaminare in modo particolareggiato i dati appena pubblicati. Solo qualche assaggio significativo. La popolazione settentrionale, e proporzionalmente diminuita rispetto a quella complessiva. E' rimasta, invece, stazionaria quella delle regioni centrali, anche per la convergenza verso la capitale, mentre e aumentata quella delle regioni meridionali ed insulari. Ma aumentata in misura inferiore a quella che si poteva supporre. Agisce, in queste regioni, la componente demografica, ma non più corretta, come in passato, da un ingente flusso emigratorio.
Ecco un altro dato interessante. L'incidenza delle nascite sulle morti avrebbe dovuto determinare, nel decennio, un aumento della popolazione di 2,4 milioni d' abitanti. L'aumento, invece, e stato solo di 2,1 milioni. La differenza misura l'eccedenza degli emigrati sugli immigrati.
Un'eccedenza assai inferiore a quella accertata in passato. S'è ridotto il numero degli emigrati. E' aumentato quello dei rientri. Ma in particolare e aumentato il numero degli stranieri che nel nostro paese alimentano in notevole misura il mercato nero del lavoro. Come sempre capita nei sistemi economici abbastanza sviluppati, vi sono lavori che gli italiani non vogliono più effettuare.
Ecco infine dati che pongono in evidenza una diversa sistemazione della popolazione a seconda della grandezza dei centri abitati, nonché della loro altitudine. Nell'81 la popolazione che abitava nei comuni capoluoghi di provincia era pari al 32,8 per cento di quella totale, rispetto al 34,1 per cento nel '71. Tenendo conto dell'aumento complessivo della popolazione, risulta dunque, che in assoluto, la popolazione abitante in questi centri e rimasta press'a poco uguale. Invece e fortemente aumentata, sia in percentuale che in assoluto, quella residente agli altri comuni. Analogamente e diminuita la popolazione che abitava in montagna, mentre e aumentata quella abitante in collina e soprattutto in pianura.
Questi spostamenti di popolazione, dal grandi, ai piccoli centri, dalla montagna verso la pianura, si spiegano probabilmente con alcune deficienze riguardanti l'offerta di abitazioni. Difatti, mentre nei capoluoghi di provincia il numero delle stanze disponibili (occupate e non occupate) e aumentato nel corso del decennio del 22,8 per cento, negli altri comuni e aumentato e 42,0 per cento.
A questo proposito, tuttavia, e appena il caso di sottolineare che la seconda casa e stata costruita in questi ultimi comuni e non certo nei capoluoghi di provincia. Ciò pone pure in evidenza' il significato teorico della disponibilità d'abitazioni. Nel '71 ogni abitante poteva disporre di 1,17 stanze e nell'81 di 1,54 stanze. Ma nessuno s'è accorto di questa maggior disponibilità. Abitazioni lasciate sfitte per sfuggire ai vincoli edilizi, ma anche perché l'equo canone non sempre consente di pagare la manutenzione ordinaria; lo sviluppo della seconda casa per motivi di villeggiatura, ma anche perché queste case non sono sottoposte all'equo canone; gli spostamenti di popolazione, sia in senso orizzontale che verticale: sono tutti fatti che, adesso, in base a edilizia, ma anche di politica economica in senso lato, se e vero, coni e vero, che la componente demografica è sempre stata, ed e tuttora, una variabile di notevole importanza per il funzionamento del nostro sistema economico.

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