L'immagine è
"media", nel senso che le cifre dell'Istituto Centrale di
Statistica, quali risultano dal censimento che si è svolto nell'ottobre
1981, tracciano un modello di "italiano standard", punto di
riferimento per dati percentuali di raffronto, tra quello che era e
quello che è. In realtà è l'immagine di un "album
di famiglia", che riguarda l'Italia più che gli italiani
singolarmente presi. Viene fuori un Paese che ha ridotto la natalità
e il numero dei componenti familiari, che emigra di meno, che si rifugia
lontano dalle metropoli e dai grossi agglomerati urbani, che vive meglio
e che lavora di più , che conserva antichi squilibri, che ama
la seconda casa.
L'immagine, se osservata da un'ottica generale, è passabile.
Ma può essere deformata, se non viene disaggregata e decodificata
in tutte le sfaccettature. Perciò, incominciamo dalle cifre.
Faremo subito dopo un'analisi, tenendo conto che l'Istat non ha ancora
elaborato serie di dati di estremo interesse, quali quelli riguardanti
la Pubblica Amministrazione, gli studi professionali e settore affrontato
per la prima volta - i servizi sanitari. Lo sta facendo, e ritorneremo
sull'argomento quando le rimanenti cifre saranno disponibili.
La popolazione. Al 25 ottobre 1981, gli italiani erano esattamente 56.243.000.
In base ai controlli in corso, si Può attendibilmente prevedere
che si raggiungerà la cifra di 56 milioni e mezzo di persone.
Un milione sotto le cifre ufficiali. Sotto questo profilo, gli Anni
Settanta si aggiudicano più di un record. Prima di tutto, il
tasso di incremento della popolazione è stato il più basso
tra quelli registrati a partire dalla costituzione del Regno d'Italia
(con l'eccezione del decennio 1911-1921, condizionato dalla grande guerra).
La natalità è scesa all'11 per Mille, contro il 17 per
mille rilevato nel censimento precedente. Inoltre, si è ribaltato
il rapporto tra maschi e femmine: nel 18611 primi erano il 50,9; ora
sono passati al 48,7.
Quindi, meno nati (seicentomila bambini invece del milione del 1964),
ma anche diversamente distribuiti. La riduzione del flusso migratorio,
che comunque non è cessato, ha messo in rilievo la diversa prolificità
delle varie regioni. Al Nord la popolazione è aumentata del 2,6
per cento; nelle regioni centrali del 4,4 per cento; in quelle meridionali
e nelle isole del 5,3 per cento. Nel decennio precedente, le percentuali
erano rispettivamente di oltre il dieci per cento, del dieci per cento
e del due per cento.
Se incomincia a prender piede il rifiuto del lungo viaggio alla ricerca
della fortuna, se si vuole sempre meno passare anche sul "ramo
dell'albero", come viene definito un qualsiasi Paese della Comunità
Economica Europea, non per questo la gente ha rinunciato a spostarsi.
Molti hanno mostrato di preferire la "dimensione uomo", assicurata
dal piccolo centro, alle convulse possibilità offerte dalle città:
infatti, i residenti nei capoluoghi di provincia sono passati dal 34,1
per cento al 32,8 per cento. Dall'altra parte ci sono le crescenti difficoltà
dei centri montani, il cui spopolamento, da quanto risulta, non riesce
ad essere arrestato da nessuno dei piani speciali predisposti nel decennio
da quasi tutte le comunità interessate.
Altri dati: i diciotto milioni e mezzo di famiglie italiane continuano
a riprodursi per scissione (la famiglia media ha tre componenti, contro
i 3,3 del 1971), generando un crescente bisogno di alloggi.
Nel Paese ci sono 21 milioni e 800 mila case, per un totale di 86 milioni
e mezzo di stanze. Rispetto a dieci anni fa, ci troviamo di fronte a
una crescita del 25,3 per cento in termini di alloggi e del 35,6 per
cento in termini di camere. Secondo i dati, dunque, staremmo più
larghi: nel '71 gli italiani dovevano arrangiarsi in 3,7 stanze ad appartamento;
ora ne hanno quattro.

Le abitazione non occupate sono 4.343.000, pari a una quindicina di
milioni di stanze inoccupate: una cifra esattamente doppia rispetto
a dieci anni fa. L'84,6 per cento si trova nei piccoli comuni. Vi sono
comprese le case invendute e quelle degli emigrati. Disaggregando il
dato, si ha una specie di mappa della ricchezza: 1.819.000 abitazioni
inutilizzate sono nell'Italia Settentrionale (953.000 nel 1971), pari
al 90,7 per cento in più; nell'Italia Centrale 809.000 (451.000
dieci anni fa), pari al 79,3 per cento in più; nell'Italia Meridionale
1.714.000 (727.000 nel '71), pari al 135,8 per cento in più.
Dati dell'Industria e del Commercio: 33 5 8 per cento gli impianti in
più, e 11, 1 per cento gli addetti in più nel settore
industriale; 11,8 per cento imprese e 18,6 per cento addetti in più
nel Commercio. Al Nord c'è stata una notevole riduzione del numero
medio di addetti per impianto, mentre nelle regioni meridionali si è
verificato il fenomeno opposto. Mancano, come dicevano, dati rilevanti.
Per saperne di più sulla nostra economia e per avere un'immagine
appena un pò meno sfocata dell'economia sommersa (sembra che
il censimento sia riuscito a stanarla dalla sua nebulosa vaghezza: ma
il segreto delle rilevazioni per singole famiglie dovrebbe essere comunque
assicurato) occorrerà aspettare che i 140 milioni di informazioni
vengano elaborati dall'Istat.
Disaggreghiamo alcuni dati. Vi scorgeremo l'Italia pigra e quella operosa.
L'Italia ricca e quella povera. La famiglia patriarcale e quella mononucleare.
Il Paese delle vacanze e quello dei senzatetto. Il censimento 1981,
alla resa dei conti e pur nella incompletezza dei dati, conferma l'esistenza,
o la coesistenza, di due Paesi in uno.
Si è costruita una casa nuova ogni quattro esistenti: eppure,
nelle grandi città - dove trovare un appartamento e come prendere
un terno al lotto - ci sono 667.944 appartamenti inabitati, centomila
nella sola capitale. La stragrande maggioranza delle abitazioni vuote
e nei piccoli centri: si tratta, prevalentemente, di doppie case, le
"case delle vacanze".
Per la prima volta da che esistono i censimenti, la "popolazione
presente" ha superato quella residente: ciò vuol dire che
nel nostro Paese vivono e lavorano molte persone che non vi si sono
stabilite in via definitiva. Sono circa novantamila, ovviamente stranieri.
Altre decine di migliaia di immigrati (dall'Africa del Nord e dal Medio
Oriente) sono presenti in Italia, si arrangiano come possono, ma non
risultano (anche perché molti sono immigrati clandestinamente),
nel novero degli stranieri.
Unite dagli stessi problemi (case introvabili, esplosione del centro
verso la periferia, violenza, terrorismo, crescita dagli indici di criminalità,
e dunque sicurezza personale), le grandi città assistono alla
crisi. La scoperta delle metropoli, l'urbanesimo, erano degli Anni Settanta.
Eppure, non si può dire che ci sia fuga. Semmai, c'è una
grande indecisione di chi sopporta quotidianamente gli aspetti peggiori
del degrado urbano: piuttosto che vivere al centro, in case Piccole,
assediati dal rumore, intossicati dallo smog, ci si rassegna ad uno
spostamento verso l'esterno. Chi ha deciso in tempo, all'inizio degli
Anni Settanta, ha trovato una sistemazione accettabile nell'immediata
periferia o nella prima fascia di comuni limitrofi. Più tardi,
a distanze sempre maggiori dai luoghi di lavoro, sono nati quartieri
dormitorio, o altri paesi hanno perduto l'aspetto originario per essere
stravolti dalle necessità. Delle sei maggiori città italiane
(Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova e Palermo), quattro registrano
una diminuzione di abitanti nel territorio del comune e un corrispondente
rigonfiamento delle province. A Roma e a Palermo c'è invece aumento
sia al centro che in periferia.
Facciamo l'esempio di una città-terminale degli emigranti meridionali,
e città industriale per eccellenza: Torino. Dalla metropoli se
ne sono andate 64.448 persone (il 5,5 per cento) e la periferia - da
sola - ha avuto una crescita di 37.357 unità (l'1,6 per cento).
Però l'aumento complessivo in provincia è stato di 101.805
cittadini: cioè la somma di quelli che hanno lasciato Torino
e dei naturali abitanti dei paesi. Lo stesso fenomeno si ripete a Milano:
meno 97.362 abitanti in città, più 232.379 all'esterno,
compresi i 135.017 nati e cresciuti nei paesi. E a Genova: meno 56.572,
più 7.214, a dimostrazione che qui il forte calo delle nascite
gioca a contenere l'espansione.

Napoli è un caso particolare, perché il terremoto e la
legge speciale per la ricostruzione (che creerà notevoli possibilità
di lavoro) hanno determinato una massiccia immigrazione. Nello stesso
tempo, i crolli avuti con il sisma hanno causato lo spopolamento delle
zone centrali. Così gli abitanti del comune risultano 16.091
in meno, ma complessivamente Napoli ha 238.053 cittadini in più.
E' come se avesse inghiottito una città grande come Modena. La
capitale della Campania, sul piano dei primati, non ha rivali. Con una
superficie urbana pari a un quarto di Perugia (117 chilometri quadrati
di Napoli, contro 449 di Perugia), ha una densità di popolazione
trenta volte maggiore 10.346 abitanti per chilometro quadrato contro
317). Anche Perugia ha i suoi guai per via degli immigrati: vi si sono
trasferiti trentamila stranieri, l'aumento ufficiale e di sole tredicimila
unità, gli iscritti dall'estero 460! Un primato di clandestinità.

Palermo vede i giardini della Conca d'Oro riempirsi di palazzi; qui,
dei 67.124 nuovi cittadini, ben 56.877 (pari all'8 per cento) hanno
trovato casa in città.
Poi ci sono le città medio-grandi e medie, quelle che vivono
- tutto sommato - in una condizione di stabilità, non vedono
cambiamenti macroscopici, non hanno grandissimi problemi: Firenze, Bologna,
Pescara, l'Aquila, Latina. Unite anche loro dal problema-casa, affollate
di abitazioni non occupate. Firenze, 453 mila abitanti, una flessione
contenuta rispetto a dieci anni fa (quattromila in meno), ha 6.465 appartamenti
vuoti. Pescara, 131 mila abitanti (aumento di novemila), ne ha 3.810.
Latina, 92 mila cittadini (quattordicimila in più), 4.790. L'Aquila,
63 mila cittadini (tremila in più), ne ha 4.063. E così
via, con una punta di tredicimila a Bari (370 mila abitanti, tredicimila
in più rispetto a dieci anni fa); 2.541 a Siena (61 mila abitanti),
1.600 a Teramo (50 mila abitanti), 6.706 a Venezia (332.775 cittadini).
Si può leggere in questo la conseguenza della diffidenza dei
proprietari a concedere una casa in affitto: un atteggiamento che si
è consolidato anche dopo l'entrata in vigore dell'equo canone.
Chi ha un casa in città, anche nella sua stessa città,
se non ha stretta necessità di ricavare un reddito, preferisce
tenerla chiusa in attesa di assegnarla ai figli o di decidere di venderla.
I terremotati hanno diritto di essere perplessi. Nella sola Irpinia,
trecentomila persone, un anno e mezzo fa, hanno perso l'unica abitazione
che avevano. Duecentomila sono tornate a vivere fra mura precarie (il
censimento, giustamente, distingue gli abitanti di "case"
da quelli di "altri alloggi"). Centomila sono nei prefabbricati.
E se in Italia una famiglia su quattro ha una seconda casa, a Gibellina,
quattordici anni dopo il terremoto, nella stessa percentuale non posseggono
neanche la prima. A Gemona del Friuli, sei anni dopo Zamberletti e l'inizio
della ricostruzione, un nucleo su due e destinato agli "altri alloggi".
Si potrebbe pensare che "tanto, la gente se ne va" (ventimila
sono emigrati dopo l'ultimo terremoto) e, andandosene, sdrammatizza
il problema. Non e vero. La gente torna.

Sono tornati in
Sicilia: (a. Gibellina, paese distrutto, da un censimento all'altro
la popolazione è diminuita di sole cinquantaquattro unità).
Sono tornati
in, Friuli (a Gemona solo 284 in meno). Tornano sul monti irpini: a
Teora ne mancano 181 e oltre cento sono morti; a Lioni la popolazione
e aumentata di quarantuno cittadini. Continueranno a tornare alle loro
macerie, alle roulottes, ai prefabbricati nuovi, ma non alle case.

E parliamo d'un altro aspetto, quello dell'emigrazione. E' diminuita,
ed e maggiore il numero dei rientri rispetto alle partenze. Si preferisce
spostarsi all'interno di una stessa regione o provincia, dalla montagna
alla pianura, dal paese alla città. Malgrado ciò, 768.000
persone sono andate dal Sud al Nord. Erano due milioni e 318 mila al
censimento precedente.
Se già nel '71 il ringonfiamento delle metropoli era insopportabile
e si poneva il problema del riequilibrio del territorio, non si può
dire che ci sia stata un'inversione di tendenza. Lo spopolamento delle
montagne e proseguito in modo inesorabile, molti genitori hanno seguito
in città i figli, molti giovani sono partiti per studiare e difficilmente
torneranno indietro. I paesi montani hanno 143 mila abitanti in meno:
non e poco, se si considera l'esigua percentuale di popolazione che
essi rappresentano.
Nelle isole, lo sviluppo del turismo ha fatto nascere un tipo di abitante
part-time. Uomini e donne vi si recano d'estate e riaprono la vecchia
casa da pescatori, il bar, la trattoria, il negozietto. E a furia d'andarsene,
finiscono col perdere anche la residenza: alle isole Tremiti si e scesi
da 346 a 333 abitanti; a Pantelleria da 8.327 a 7.917; a Ponza da 3.782
a 3.653. Quando un'isola e più piccola, meno attrezzata o semplicemente
sperduta, gli abitanti tendono di più ad andarsene. A Ustica,
mezzora di aliscafo da Palermo, la gente va e viene e la popolazione
e cresciuta (71 in più). A Lipari, quattro paesi, impianto turistico
che funziona estate e inverno, 171 in più.
E veniamo ai risultati del sesto censimento dell'Industria, i cui dati
provvisori sono stati resi noti insieme con quelli riguardanti il settore
demografico.
Alla data del censimento, sono state rilevate 2.715.615 imprese e 3.404.936
unità locali, con 16.005.474 addetti. Per l'industria, sono state
rilevate 950 mila unità locali con oltre sette milioni di addetti,
il che significa una crescita del 33,8 per cento e dell'11, 1 per cento
rispettivamente, nei riguardi del 197 l. La maggior crescita delle unità
locali rispetto agli addetti sembra voler sottintendere, oltre alle
note difficoltà di assorbimento della forza-lavoro, anche una
tendenza a dimensioni più agili, medie, se non addirittura piccole.
Un andamento diametralmente opposto si e invece verificato nel Commercio,
dove un milione e mezzo di unità locali e tre milioni e 600 mila
addetti rappresentano un incremento dell'11,8 e del 18,6 per cento rispettivamente.

Un riferimento allo
sviluppo della concentrazione dei punti di vendita (ipermercati e supermercati)
non sembra fuor di luogo.
Come era prevedibile, la maggioranza delle imprese censite (53,5 per
cento), delle unità locali (53 per cento) e degli addetti (57,2
per cento) e localizzata nell'Italia Settentrionale. All'Italia Centrale
vanno quote di questi aggregati valutate attorno ai venti per cento,
mentre nelle regioni meridionali abbiamo il 26,8 per cento delle imprese,
il 27,1 per cento delle unità locali e il 22,8 per cento degli
addetti. Vi sono comprese nel computo, ovviamente, le isole:
La preponderanza dell'Italia Settentrionale diviene addirittura macroscopica
nell'industria: sei unità locali su dieci, infatti, sono localizzate
nelle regioni dell'area settentrionale.
Per quanto concerne la dimensione media di addetti per unità
locale, c'è da registrare una notevole riduzione al Nord nel
settore industriale (8,1 addetti per unità), mentre nelle regioni
centrali la riduzione e risultata più contenuta. Nel Mezzogiorno,
al contrario, come abbiamo già anticipato, si e avuta una lieve
crescita. Nel settore del commercio si e registrato un certo aumento
in tutte le ripartizioni.
Vediamo, ora, i commenti a caldo. "Sono dati che complessivamente
indicano un Paese che cresce fra grandi contraddizioni, con problemi
che continuano a rimanere sconosciuti alla classe politica che lo governa":
e il giudizio di Franco Ferrarotti , docente di Sociologia all'Università
di Roma.
"La pressione demografica - prosegue - contribuisce ad aggravare
la situazione economica del Mezzogiorno, accentuando lo squilibrio fra
un Nord, dove si concentra la maggior parte dell'attività produttiva
del Paese, e un Sud che, pur avendo sempre meno vedove bianche, cioé
un netto calo dell'emigrazione, continua ad essere serbatolo di mano
d'opera".
Il fenomeno della caduta dell'emigrazione e un dato positivo? "Credevo
di si. Pensavo anche che significasse un aumento delle attività
sommerse decentrate. Questo aumento c'è, in effetti, ma non così
sensibile. Temo, invece (e uno studio che abbiamo condotto ha confermato
questi miei timori), che l'arresto del flusso verso le grandi città
sia soprattutto dovuto al blocco del mercato edilizio e alle difficoltà
di trovare alloggi nei grandi centri. E' nato così , in alcune
regioni, un terribile pendolarismo. Questo fenomeno ha ripercussioni
molto gravi nei trasporti, oltre che sulla vita delle famiglie".
Le seconde case: "Negli Stati Uniti e normale che, chi ha già
la prima abitazione, si costruisca quella delle vacanze. In Italia,
invece, la seconda casa e in realtà spesso la prima, cioè
l'unica di proprietà. Moltissimi italiani che non hanno abbastanza
denaro per comprarsi l'appartamento in un mercato urbano inflazionato,
investono i loro risparmi nella villetta delle vacanze, che e meno costosa
e spesso costituisce anche il rifugio di un'attività edilizia
semisommersa. I provvedimenti presi da Reviglio (che ha dato gran botte
sulla seconda casa) sono proprio l'esempio di come il legislatore abbia
seguito una logica astratta".

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