§ RAPPORTO CENSIS, SOCIETA', STATO

L'Italia che vive alla giornata




Geno Pampaloni



Se dicessi di avere capito proprio tutto del XV Rapporto del Censis, direi una bugia. Giuseppe De Rita, come la maggior parte degli specialisti e dei sociologi in particolare, scrive in una prosa che ha spesso bisogno di essere interpretata , volgarizzata e tradotta, almeno per i bipedi comuni ai quali appartengo. Tuttavia agli amici del Censis bisogna dare atto che la forza delle argomentazioni e tale da arrivarci validamente anche attraverso le difficoltà della lettura; e che, se pure la lettura del "Rapporto" sia faticosa, ne vale la pena. Il ritratto che essi ci offrono dell'Italia all'aprirsi del decennio '80 e un ritratto vigorosamente stimolante, non conformista, degno di riflessione e, a mio parere, veritiero.
E' un'Italia in cui siamo costretti a riconoscerci: un Italia che ha imparato a vivere alla giornata, e ha fatto del disordine una occasione per esprimere la propria vitalità e un modo per non arrendersi. Siamo molto lontani da quella "Italia della ragione" che piace a Spadolini (e a noi); che ha accantonato i grandi ideali (le "spinte a trangolare in alto", secondo il linguaggio di De Rita); che ha silenziosamente espresso il proprio scetticismo per ogni tipo di rigenerazione totale (del tipo "é tempo di cambiare, è finito il tempo di ... "), ritrovando nella propria saggezza (cattolica?) "la semplice verità che la vita e fenomeno continuato". Affolla ancora le piazze dei grandi tribuni o le coloratissime platee dell'"effimero" e degli spettacoli. Ma i suoi comportamenti sui fatti essenziali del vivere sono molto diversi.
I tratti fondamentali del profilo Italia, secondo il Censis, sono due. Il primo e "d'individualismo protetto": gli italiani chiedono, e talora pretendono, insieme "autonomia e sicurezza", il massimo dell'individualismo con il massimo di protezione" da parte dello Stato e in genere da parte del sistema. La nostra e una società che aspira ad avere piene tutte e due le tasche della bisaccia: nel lavoro come nell'assistenza, non rinunciamo alla "personalizzazione" sia delle nostre capacita sia dei nostri bisogni, ma al tempo stesso vogliamo essere ferreamente garantiti dalla collettività nel nostro diritto alla sicurezza. Di qui il vorticoso carosello, il girotondo senza fine delle rivendicazioni che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi: per cui si sciopera nel ruolo di ferroviere e si protesta nel ruolo di viaggiatore, si sciopera nel ruolo di infermieri e se ne soffre nel ruolo di degenti.
De Rita non si nasconde i pericoli di un simile atteggiamento: perdita del senso di responsabilità, tendenza "a vivere in orizzontale", caduta delle tensioni morali, e facilità "a riconoscersi in una qualsiasi autorità sovraordinata". Né si nasconde la crisi politica da ciò provocata, che colpisce partiti, sindacati, movimenti (e, aggiungerci, Istituzioni) in quanto incapaci di interpretare, e quindi di guidare, le esigenze reali dei cittadini reali. Ma non si sofferma a moraleggiare: non ama la retorica o (con preziosa definizione di un potere che attribuiva a se stesso nientemeno che Zoroastro) "l'archimagia dei termini generali".
Dà per scontato, con ragione, che "il riflusso nel privato non e stata una causa, ma un effetto della crisi delle identità collettive". E passa subito al secondo tratto del profilo Italia, che e singolarmente positivo. Se la nostra e "una società che cambia più per evoluzione che per progetto", se si dimostra allergica ai programmi, ciò non significa necessariamente scetticismo: ma significa una profonda, radicata fiducia nelle capacità dei singoli, significa la volontà di rendere creativa la vitalità; e significa anche, il che mi sembra importante, una scelta del campo occidentale e il rifiuto di perdere il contatto con le società industriali avanzate e il rifiuto di perdere il contatto le società industriali avanzate. La realtà sociale italiana, conclude De Rita, "è una realtà con un cuore serio", che non si sottrae alle responsabilità individuali, esalta i vincoli con le vecchie culture locali, sa manifestare concreta solidarietà nei momenti di emergenza.
Un simile tipo di diagnosi non e certo tale da far piacere alla generalità della nostra dirigenza politica. Non solo si afferma che "la crisi (di oggi) e più culturale che economica e sociale"; ma si dichiara il tramonto delle varie "centralità" ivi compresi la centralità e il primato della politica; e ciò non per orientamento ideologico, ma per la natura stessa, articolata, complessa, diversificata, e incline alla personalizzazione, della società italiana. La nostra democrazia ha soprattutto bisogno non di indirizzi, finalità, obbiettivi da raggiungere: ma ha bisogno di essere garantita da sicure regole del gioco. Così, per altra via, De Rita arriva al tema della "stabilità" che oggi, sotto varie denominazioni, e al centro del dibattito politico.
A questo punto si impone, osservo io, il problema dello Stato, che, nella prospettiva sociocentrica propria del Rapporto, e assente. Tutti d'accordo nel rifiutare lo Stato etico. Ma come "Stato di servizi" il nostro e ormai quasi inesistente O, peggio, confusionario. E per garantire le "regole del gioco democratico", come chiede De alta, la moralità, e naturalmente l'efficienza, delle istituzione e un elemento fondamentale. Per fare un solo esempio: in tutto il rapporto, se non sbaglio, non compare il fenomeno "lottizzaztone", che, se non rientra nelle "turbolenze" più volte registrate come costanze della vita sociale , e certamente uno scandaloso incentivo sia alla immoralità generale sia al rassegnarsi ad essa. La regola della lottizzazione e un fatto partitico (e delle correnti di partito), un fatto sociale o un aspetto della crisi dello Stato? I confini tra politico, sociale e istituzionale in questo caso sono incerti. Escluderei comunque che il fenomeno lottizzazione diffuso a tutti i livelli (e in periferia più odioso ancora che al centro, anche se meno dirimente), sia da iscriversi nelle categorie del vitalismo, localismo, iniziativa, che giustamente De Rita rivendica come positive. Può rientrare nelle categorie della "protezione" e "sicurezza": ma in modo perverso, o distorto.
Mi piacerebbe dunque che l'analisi spregiudicata e attenta degli amici del Censis dedicasse nel prossimo Rapporto un pò di attenzione a qualche aspetto rilevante delle relazioni che corrono, in Italia, tra A società e lo Stato.

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