LA SITUAZIONE GENERALE
ITALIANA
La società
italiana degli Anni '70 ha visto affermarsi un insieme di fenomeni che
ne hanno mutato le caratteristiche di fondo. Crescita di soggettività
(nel lavoro e nei consumi), sviluppo di piccole imprenditorialità,
crescente modularizzazione della partecipazione al lavoro, forte riprivatizzazione
e ripersonalizzazione della soddisfazione dei bisogni sociali, graduale
imborghesimento di massa, crescita di peso della dimensione locale:
tutto ciò ha prodotto una società dallo sviluppo molecolare
e diffuso, fatta di tante realtà differenziate. Questa società
cambia non seguendo un progetto generale e complessivo, ma secondo la
risultante delle direzioni dei vari soggetti; ha però una sua
dimensione intelligente e avanzata, dato che sa adattarsi assai bene
alle crisi e non presenta più quegli antagonismi sociali semplificati
che affliggono ancora società più avanzate della nostra.
Questo quadro, consegnatoci dal decennio scorso, va integrato con tre
novità del 1981, strettamente collegate fra loro:
- la società italiana è fin troppo una "società
dei comportamenti ": le appartenenze, le strutture, le istituzioni
sono ogni giorno messe in grave crisi dalla forza dei comportamenti
individuali e collettivi (nell'organizzazione del lavoro, nella macchina
dello Stato, nella vita sindacale, ecc ... );
- si sta affermando una filosofia di "Individualismo protetto":
da un lato si vuole la più ampia libertà nei comportamenti
individuali e collettivi, dall'altro si chiede una totale protezione
pubblica. Ad esempio, si vuole la libertà del secondo lavoro,
ma garantiti dalla Cassa Integrazione e dalla non licenziabilità;
- la società tende a "vivere in orizzontale", senza
alcuna spinta a riconoscersi in una qualunque autorità sovraordinata.
i grandi processi di mobilità sociale passano sempre meno attraverso
i grandi antagonismi e le grandi appartenenze.
Queste tre caratteristiche rischiano di rendere sempre più difficile
l'individuazione e il perseguimento di interessi ed obiettivi collettivi
e generali. Ma la responsabilità di una tale pericolosa prospettiva
è soprattutto nell'incapacità dei soggetti intermedi (partiti,
istituzioni, sindacati, associazioni) che dovrebbero condurre i soggetti
elementari (individui, famiglie, imprese, comunità locali) a
riconoscersi in impegni più generali:
La crisi italiana di questo periodo è appunto crisi dei soggetti
intermedi: di fronte alla caduta delle identità legate alla pura
appartenenza collettiva, essi hanno risposto irrigidendosi nella riaffermazione
delle loro identità originarie, troppo semplificate per società
complesse come la nostra. Nel vuoto lasciato dalla crisi dei soggetti
intermedi sta avvenendo la rivincita di un modo poco moderno di governare
la società: ci sono segni del rilancio di una maniera oligarchica
di far politica, vecchio vizio delle classi dirigenti italiane.
Dimensione particolaristica dello sviluppo, crisi dei soggetti intermedi,
ripresa di una politica elitaria: questi tre fenomeni rischiano di condannarci
ad una fase debole del nostro progresso civile. Per uscire dalla crisi
- più culturale che economica e sociale - è necessaria
una forte maturazione culturale: se nei soggetti intermedi deve diffondersi
la consapevolezza che l'unica strada è non rinchiudersi in sè,
la classe dirigente deve capire che una società complessa ed
articolata - cioè occidentale avanzata - va governata non concentrando
il potere, ma fornendo regole del gioco e procedure sulle quali i tanti
soggetti possano sviluppare i loro rapporti di scambio. Governare vuol
dire stare nei rapporti, e non imporre programmi alla realtà
dall'esterno.
Fenomeni di spicco
del 1981
Dopo l'esaurimento
di due grandi cicli (gli Anni '70 caratterizzati dall'insorgere del
vitalismo e del localismo, e gli Anni 1978-80 segnati da un intenso
sviluppo dei soggetti "micro", cioè famiglie e imprese
private), la società italiana si trova ora in una fase di sospensione:
non si riesce a capire se l'attuale periodo si risolverà in una
regressione o in un ulteriore avanzamento.
Motivi strutturali possono essere addotti a sostegno di entrambe le
previsioni. Chi teme la regressione pensa al peso che hanno l'inflazione,
la crisi della grande impresa, i conti passivi con l'estero, la situazione
della finanza pubblica e dell'apparato burocratico, i fenomeni di devianza
(terrorismo, droga e violenza), le insufficienze dei servizi pubblici.
Chi spera in un avanzamento pensa alla vitalità di tante situazioni
locali, alla forza della piccola e media industria, alle notevoli capacità
di adattamento alle crisi.
Anche i fenomeni congiunturali sono ambivalenti, di difficile lettura:
è da escludere, comunque, un giudizio di crisi generalizzata.
Segno particolarmente positivo è la tenuta - superiore alle previsioni,
perfino rispetto alle aree di più antica tradizione industriale
- delle zone emergenti del Mezzogiorno (come mostrano l'aumento delle
esportazioni e del consumo di energia). Al contrario, in altre realtà
territoriali (particolarmente al Nord) vi sono sintomi preoccupanti
di deindustrializzazione, di scivolamento nella terziarizzazione non
vitale. Il processo di riconversione industriale è in effetti
molto lento e differenziato: alcuni settori sono in grave crisi, altri
sembrano reggere bene; alcune grandi imprese sembrano aver superato
le difficoltà, altre (in specie pubbliche) continuano a peggiorare.
Inoltre i meccanismi messi in opera negli anni scorsi per resistere
alla crisi continuano a dar frutti, ma creano anche distorsioni gravi:
ad esempio, l'aumento del prezzo del denaro ha creato il banchiere occulto,
che però in alcune regioni è costituito da mafia e camorra.
Insomma, dall'attuale fase di sospensione si può uscire in avanti
o all'indietro. Alcune dinamiche sociali possono condizionare in misura
considerevole la direzione di uscita e meritano dunque particolare attenzione.
Quale internazionalizzazione
dell'economia italiana
L'aumentata apertura
del nostro sistema produttivo verso l'estero ha dato un contributo determinante
al superamento della crisi del 1975. La crescita delle esportazioni,
che nel periodo 1973-78 è di poco inferiore solo a quella giapponese,
si è prodotta mediante l'accentuazione della specializzazione
produttiva italiana in quel settori nei quali era già consolidata:
soprattutto mobilio, pelli e calzature, tessile, abbigliamento. Dopo
il 1975 la composizione dell'export italiano si irrigidisce e all'interno
di ciascun settore di merci va aumentando la quota di prodotti tecnologicamente
più sofisticati. Da sottolineare il ruolo che in questa dinamica
ha avuto la piccola e media impresa, capace di adeguarsi, assai meglio
della grande, alle nuove e continuamente variabili esigenze della domanda
mondiale.
Accanto a tali elementi positivi emergono peraltro le preoccupazioni
connesse alla crescente concorrenzialità di alcuni Paesi in via
di sviluppo avanzato (Brasile, Messico, Hong Kong, Corea, ecc...) proprio
nei settori in cui l'Italia si e specializzata.
La struttura delle nostre esportazioni si va dunque allontanando da
quella degli altri Paesi industrializzati. La nostra specializzazione
in certi settori è dovuta anche al fatto che gli altri Paesi
della CEE hanno ridotto il loro impegno in tali comparti, sul quali
si stanno invece orientano i Paesi in via di sviluppo avanzato. L'Italia
si trova ora nella necessità di riequilibrare le distanze.
Il nuovo assistenzialismo:
tra sociale e produttivo
Negli ultimi anni
l'intervento assistenziale pubblico è venuto assumendo nuove
forme. La spesa sociale in senso stretto - destinata a previdenza, sanità
e assistenza - e passata, fra il 1976 e il 1980, da circa 35.000 a quasi
77.000 miliardi in termini reali è pero cresciuta in misura ridotta,
ad un tasso annuo del 4,1%, Di conseguenza, il rapporto tra spesa sociale
e Prodotto Interno Lordo è rimasto pressochè invariato
nel quinquennio: la spesa sociale incideva per il 22,6% nel 1976 e per
il 22,8% nel 1980.
Sembrerebbe quindi essersi arrestata la tendenza della spesa sociale
ad assorbire quote sempre maggiori delle risorse nazionali. Significativo
e , al riguardo, il confronto (sia pure limitato al 1978) con gli altri
paesi delle CEE: mentre nel 1970 il 20% di risorse che l'Italia destinava
alle spese sociali era uno degli indici più elevati, nel 1978
il nostro 23,3% si colloca al terzultimo posto. La spesa sociale, dunque,
è cresciuta all'estero ben più che in Italia.
Se questo è l'andamento della spesa sociale in senso stretto,
bisogna però tener presente anche l'evoluzione di quella componente
di spesa pubblica che consiste in trasferimenti alle imprese, pubbliche
(in gran parte) o private. Questa voce è passata dal nemmeno
10.000 miliardi del 1976 agli oltre 23.000 del 1980, con un incremento
medio annuo del 6,2% a prezzi costanti, di gran lunga maggiore del tasso
di crescita della spesa sociale. La quasi totalità di questi
trasferimenti viene elargita alle imprese per assicurarne la gestione
corrente (compreso il pagamento dei salari) e ripianare i deficit di
bilancio; solo una minima quota ha fini di sviluppo economico.
In complesso, dunque, è vero che sono state contenute le spese
dirette per servizi sociali, ma contemporaneamente i trasferimenti alle
imprese sono diventati, in sostanza, trasferimenti alle famiglie, in
quanto sono usati per fornire sia il salarlo "garantito" ai
dipendenti, sia beni e servizi a prezzi politici inferiori al costo.
Il processo di
terziarizzazione
Il terziario si
va caratterizzando da tempo sia come settore di supporto ai processi
di innovazione industriale, sia come ambito autonomo di nuove attività
produttive; in ogni caso, dalla sua efficienza dipendono oggi molti
dei problemi di sviluppo e competitività dell'apparato produttivo.
Qualche dato, innanzitutto, sulla consistenza della terziarizzazione
italiana rispetto al contesto europeo. Tra il 1975 e il 1980 l'occupazione
terziaria si è molto avvicinata alle medie europee, passando
dal 41,3% al 49,3% nei Paesi CEE, complessivamente, si è saliti
dal 49,8% al 55,0%). L'Italia si differenzia pero ancora molto sensibilmente
per quanto riguarda la quota dei lavoratori dipendenti sul totale degli
occupati nel terziario: nel 1980, a fronte di una media CEE del 87,8%,
la percentuale italiana, pressoché immutata rispetto al 1975
- è stata del 72,4%.
Se il settore terziario italiano si sta allargando, non per tutti i
suoi comparti si può parlare di una crescita di efficienza: in
alcuni permangono sovraccarichi ed esigenze di modernizzazione. L'analisi
del rapporto domanda-offerta di servizi fornisce al riguardo dati significativi.
Siamo agli ultimi posti delle graduatorie CEE per consumo di energia,
per grado di autonomia energetica, per diffusione di apparecchi telefonici.
La rete ferroviaria, paragonata alle medie europee, risulta sovrasviluppata
per il trasporto passeggeri e carente per il trasporto merci; si aggiunga
che, nel 1979, solo una metà ne era elettrificata (al Sud il
30,3%).
In complesso, le nostre reti terziarie presentano ritardi e squilibri,
che dipendono sia dalla difficoltà di individuare soggetti istituzionali
capaci di interpretare le domande del sistema produttivo, sia dal divario
ancora molto elevato tra sviluppo tecnologico e diffusa accessibilità
ai servizi. Questi problemi emergono anche dall'analisi di due settori
decisivi per lo sviluppo dei servizi: - il sistema creditizio-finanziario
non sempre riesce a far incontrare in modo adeguato domanda e offerta
(molto evidente al riguardo lo svantaggio della situazione meridionale).
A questi squilibri si cerca di rispondere con nuove strategie: significativa
soprattutto l'introduzione del "parabancario", che attraverso
sistemi finalizzati nell'erogazione dei crediti e nella raccolta dei
risparmi realizza la maggiore aderenza alla domanda emergente. Pur dimostrando
eccezionali capacità di cambiare i rapporti tra banca e impresa,
i servizi parabancari sono ancora marginali; permane inoltre una situazione
di incertezza normativa. L'affermarsi del banchiereimprenditore, che
si esprime nel settore parabancario, sarà il nodo decisivo per
misurare la capacità del sistema creditizio di promuovere lo
sviluppo;
- l'introduzione sempre più massiccia dell'informatica in Italia
presenta anch'essa quel caratteri di ambiguità e frammentazioni
che distinguono la nostra terziarizzazione. La domanda di informatica
è ancora dominata dalle caratteristiche dell'offerta, il che
significa che il sistema socioeconomico non ha sufficiente consapevolezza
degli impieghi possibili: mancano inoltre indirizzi comuni nell'acquisizione
di queste innovazioni. Per il futuro del settore, due questione sembrano
di importanza strategica: la produzione di software, che ci vede in
grave ritardo; l'intervento di cooridinamento, programmazione e impiego
di risorse da parte del potere pubblico, in mancanza del quale non può
essere elaborato alcun piano serio di sviluppo.
In definitiva le nostre reti di servizi sono ancora inadeguate per rispondere
a bisogni diffusi in modo capillare: i loro problemi rinviano alla definizione
di strategie di programmazione e di intervento.
Riemergono i
quadri intermedi
La vertenza FIAT
ha portato alla ribalta un nuovo soggetto collettivo: i quadri intermedi,
cioè quella fascia che ricopre nelle aziende posizioni di coordinamento
e di responsabilità gerarchica o professionale. Pur essendo ancora
difficile delimitare con precisione la categoria, essa è certamente
in continua espansione. Molti sono i fattori alla base del fenomeno:
il bisogno di dominare la complessità propria dei moderni apparati
produttivi; le trasformazioni tecnologiche ed organizzative, che danno
un peso sempre maggiore all'attività di ricerca, progettazione,
marketing, controllo; l'esigenza di dare risposte flessibili alle rapide
sollecitazioni del mercato, esigenza che impone il decentramento di
conoscenze e di funzioni.
Oggi i quadri intermedi chiedono il riconoscimento per se e un diverso
governo delle strutture produttive. Le risposte che riceveranno contribuiranno
a definire l'evoluzione di questo nuovo soggetto, che potrà diventare
una nuova corporazione oppure arricchire il sistema sociale italiano.
La ripresa della
mobilità territoriale
Dal 1968 in poi
la popolazione italiana aveva progressivamente ridotto i suoi flussi
migratori sia verso l'estero (al punto che anche nel Sud i rientri avevano
superato gli espatri) sia all'interno. Con la fine degli Anni '70, invece,
essa riprende a spostarsi in maniera consistente, soprattutto sul territorio
nazionale.
Parallelamente si sono anche modificati i poli di attrazione. Negli
Anni '60 e - pur se in misura minore - negli Anni '70 era sempre l'Italia
Settentrionale ad attrarre l'emigrazione. Nell'ultimo periodo invece:
- è calato il saldo positivo nel Nord;
- è aumentato il saldo positivo nel Centro, che nel 1980 ha perfino
superato il Nord;
- il saldo negativo del Mezzogiorno si sta attenuando.
Questi significativi cambiamenti sono da mettere in relazione alla nascita,
nell'Italia Centrale, di nuove aree di vitalità economica; lo
prova anche l'aumento della migrazione verso i Comuni medi, centro della
crescita produttiva di questi anni. Le grandi città attirano
ancora un flusso consistente, ma più rilevante è il numero
di coloro che le abbandonano. Le osservazioni fatte sul grandi centri
valgono anche per l'Italia del Nord: situazione molto dinamica, ma propensione
sempre minore alla permanenza duratura.
Una mobilità
notevole c'è anche al Sud, pur se diminuisce la tendenza all'emigrazione
verso il Centro-Nord. Quanto alle zone colpite dal terremoto del 1980,
i primi quattro mesi del 1981 segnalano un netto aumento della mobilità,
che però non ha incrementato sensibilmente l'emigrazione: gli
spostamenti, evidentemente, si sono diretti in prevalenza verso i Comuni
vicini alle zone terremotate.
Come si è invertita la tendenza negativa della mobilità
territoriale, così è probabile che stia esaurendosi anche
il calo delle nascite in atto dal 1964. Diversi sintomi i fanno intravedere
questa possibilità: ci sono tendenze alla crescita in varie regioni
(tra cui Abruzzi e Molise), anche se in altre zone, in particolare meridionali,
le nascite continuano a decrescere.
ISTRUZIONE
I fenomeni emergenti
e le implicazione politiche
La situazione attuale
è caratterizzata da due fenomeni di fondo:
- consolidamento dell'offerta istituzionale, per quanto riguarda spese,
personale, procedure d'azione;
- mutamento delle caratteristiche della domanda, manifestatosi attraverso
un sensibile calo degli iscritti a causa della contrazione demografica,
ma anche mediante un crescente interesse per la formazione: aumentano
le domande di sperimentazione; si consolidano i corsi extrascolastici
privati; sia imprenditori che studenti sembrano interessati ad un più
stretto rapporto scuola-lavoro.
In complesso, ad una domanda di formazione sempre più articolata
vengono date risposte sostanzialmente rigide dall'istituzione-scuola,
oppure confuse, di qualità non controllata, da parte della non-scuola.
Ciò definisce per creare i presupposti per un tipo di discriminazione
sociale, legata alle capacità - soprattutto culturali - di scegliere
le occasioni formative giuste.
Per uscire da questa situazione, occorre giungere a concepire la formazione
come un sistema di opportunità comprendente diversi percorsi
possibili (secondo le richieste dell'utenza) e diversi "formtori"
(Stato, Regioni, Enti Locali, privati, mass-media) che agiscano in modo
coordinato. In tale quadro il ruolo pubblico non viene ridimensionato,
ma piuttosto inserito in una rete, cui dovrebbe dare in maniera determinante
- proprio per il suo peso - impulsi, coordinamento, qualità.
Le condizioni attuali sono propizie ad un salto di qualità della
scuola pubblica, poichè il calo degli studenti mette a disposizione
un surplus di risorse (sia di insegnanti - che in questi ultimi anni
hanno continuato ad aumentare sia di edifici) utilizzabile per sanare
squilibri ancora forti: basti ricordare il problema dei doppi turni,
che al Nord è praticamente risolto, mentre nelle elementari del
Sud riguarda ancora il 15,6% dei bambini.
Le dinamiche
della formazione
1. - La partecipazione
all'istruzione.
Continua a diminuire
il numero degli studenti (soprattutto nella Scuola Materna e nella fascia
dell'obbligo), principalmente a causa della contrazione demografica.
Ciò nonostante, nella Scuola Materna cresce ancora la mole dell'intervento
statale: le scuole statali assorbono il 41,0% dell'utenza reale (+ 4,5%
rispetto al 1979-80) e nel Sud giungono ad accogliere più della
metà degli alunni. Tuttavia il Mezzogiorno rimane sfavorito:
mentre nel Centro Nord va a scuola più dell'80% dell'utenza potenziale,
al Sud la percentuale scende al 72,7 (che è pur sempre superiore
del 2,6% al dato dell'anno scolastico precedente).

Continua a calare anche il tasso di passaggio dalla Scuola Media alla
secondaria superiore, che è inoltre molto differente nelle varie
zone d'Italia: 76,5% al Sud e 81,5% al Centro, contro un 68,8% del Nord,
il quale deriva evidentemente da una diversa domanda di lavoro.
Quanto alla distribuzione degli alunni tra i vari tipi di secondaria,
tengono bene Istituti Professionali e Tecnici e incontrano notevoli
preferenze i Corsi di Formazione Professionale (33.000 alunni in più
nel 1979-80). Il fenomeno è particolarmente evidente al Sud,
dove gli iscritti sono aumentati del 39,3%, ma è da ricordare
la tendenza a "parcheggiare" nella Formazione Professionale
da parte di soggetti senza lavoro. Forti aumenti, nel Meridione, anche
tra i partecipanti alle "150 ore" (+ 32,8%).
Infine c'è un consolidamento, più che una forte espansione,
dell'utenza della scuola privata: in particolare essa cresce nelle grandi
città (uniformemente in tutta Italia), ma complessivamente è
più elevata nel Centro-Nord che al Sud.
2. - la selezione
Ripetenze e abbandoni
aumentano, da qualche tempo, nei diversi gradi di istruzione (tranne
che nelle Elementari). I dati relativi alla scuola dell'obbligo mostrano
pero anche notevoli differenze tra Sud e Centro-Nord .
All'inizio della Scuola Media, dunque, si verifica una massiccia selezione,
che colpisce soprattutto gli allievi meridionali.
C'è da appurare se questa rinnovata severità - che riguarda
anche la Secondaria e l'Università - sia un semplice ritorno
al passato oppure tenga conto di esigenze di cambiamento.
3. - Sperimentazione
e innovazione
Nella Scuola Materna
il 37,8% dei bambini frequentanti supera le sette ore di permanenza
a scuola: la media è data però dal 48,2% del Nord e dalle
percentuali notevolmente più basse del Sud (circa il 24%).
Nelle Elementari è cresciuto il numero degli alunni e degli insegnanti
che partecipano alla sperimentazione del tempo pieno; a questo positivo
incremento dà un suo contributo anche il Meridione, che recupera
qualcosa rispetto alle aree settentrionali.
Per quanto riguarda la Scuola Media, va segnalata la notevole diffusione
raggiunta nel Sud dal doposcuola, ma si deve ricordare anche che questa
istituzione non e innovativa, bensì sussidiaria nei confronti
della scuola tradizionale. Nella
Secondaria superiore la sperimentazione registra un'apprezzabile espansione,
di cui però il Sud gode in minima parte: 160 iniziative di sperimentazione
al Nord, 93 al Centro, 48 nel Mezzogiorno.
Infine, sono quasi assenti dall'Italia Meridionale le iniziative tendenti
all'integrazione scuola-lavoro.
IL MERCATO DEL LAVORO
L'evoluzione
delle forze di lavoro
Dal Luglio 1980
al Luglio 1981 si colgono sintomi di deterioramento.
Le "forze di lavoro" (cioè "occupati" più
"in cerca di occupazione") aumentano dello 0,4%; poiché
identico incremento ha avuto la popolazione, il tasso generale di attività
rimane al 40,7% dell'anno precedente. L'aumento delle forze di lavoro
combina una riduzione degli occupati ( - 109.000, pari a 0,5%) e una
crescita delle persone in cerca di occupazione (+ 201.000, cioè
+ 11,1%).
Fra gli occupati, calano gli addetti all'agricoltura (+ 247.000, pari
al - 8,3%) e all'industria (- 157.000, cioè - 2,0%), mentre aumentano
quelli del terziario (+ 295.000, pari a + 2,9%), che assorbe ormai il
49,8% dell'occupazione globale, a fronte del 37,1% dell'industria e
del 13,1% dell'agricoltura.
La voce "persone in cerca di occupazione" va disaggregata
in tre componenti: le persone "in cerca di prima occupazione",
che passano da 902.000 a 1.002.000 unità (ora sono il 49,8% degli
inoccupati);
- i disoccupati, che rimangono stazionari sulle 210.000 unità
(10,4% dell'inoccupazione totale);
- le "altre persone in cerca di occupazione" (cioè
coloro che, pur identificandosi in una condizione professionale, dichiarano
di cercare lavoro), che passano da 699.000 a 801.000: questi "non
occupati non dichiarati" sono ora il 39,8% degli inoccupati.
Complessivamente, il tasso di inoccupazione è salito in un anno
dal 7,9% al 8,3%.
Questo è il quadro italiano generale, ma le situazioni sono ben
diverse per il Mezzogiono e per il Centro-Nord:
- le forze di lavoro nel Sud restano stazionarle (il tasso di attività
cala dal 36,7% al 36,4% perchè è cresciuta la popolazione),
mentre nel CentroNord crescono leggermente (e il tasso di attività
sale dal 42,8% al 43,0%); - gli occupati calano maggiormente, in percentuale,
nel Meridione (- 1,6%) che nel Centro-Nord (---0,7%), anche se in termini
assoluti quest'ultima diminuzione è stata più consistente.
Inoltre c'è un opposta evoluzione del settore industriale: positiva
nel Sud (57.000 addetti in più pari a + 3,4%), negativa nel Centro-Nord
(- 214.000, cioè 3,4%);
- gli inoccupati crescono in misura contenuta nel Mezzogiorno (+ 13.000
unità, 1,4%) e in quantità assai più massiccia
nel Centro-Nord (da 880.000 a 1.068.000, + 21,4%). Complessivamente
il tasso di inoccupazione è cresciuto meno nel Sud (dal 12,8%
del Luglio 1980 al 13,0% del Luglio 1981) che nel Centro-Nord (dal 5,7%
al 6,8).
L'evoluzione
delle forze di lavoro femminili
L'andamento dell'offerta
femminile è stato, nell'ultimo anno, abbastanza omogeneo a quello
genera e. Le forze di lavoro femmini i sono cresciute i 62.000 unità
(+ 0,8%), ma solo grazie all'aumento delle inoccupate (+ 103.000 unità,
dal 14,0% al 15,2% della intera forza-lavoro femminile), mentre le occupate
diminuiscono di 41.000 unità.
La modularizzazione
della partecipazione al lavoro
La fase critica
dell'occupazione è confermata anche dall'evoluzione del doppio
lavoro e del "part-time", ambedue molto esposti alla crisi.
Calano gli occupati con doppio lavoro (- 115.000 unità): nel
Luglio 1981 il doppio lavoro assorbe il 5,3% degli occupati (la quota
era del 5,8% un anno prima). Da notare che tale riduzione non interessa
le "fasce alte": dirigenti e impiegati con una seconda attività
sono infatti in aumento. Diminuiscono anche i lavoratori "a part-time"
(- 189.000): al Luglio 1981 sono il 5,9% degli occupati totali (l'11,2%
dell'occupazione femminile). Anche l'evoluzione del "part-time"
è molto selettiva: ha colpito solo le donne, e soprattutto quelle
lavoratrici, che lo praticano perchè non trovano un maggior lavoro.
La Cassa Integrazione
Guadagni
I sintomi di crisi
dell'occupazione sono ulteriormente confermati dall'ampliarsi del ricorso
alla Cassa Integrazione, più che raddoppiato rispetto al 1980.
A conferma di una crisi diffusa, l'aumento della Cassa coinvolge i principali
settori manifatturieri (soprattutto il meccanico, che assorbe il 46%
dell'intervento). L'aumentato ricorso allo strumento ne ha accentuato
le caratteristiche di salarlo di disoccupazione.
LE RELAZIONE INDUSTRIALI
L'evoluzione
delle relazioni industriali
La particolare labilità
del quadro politico e il rapporto tipicamente italiano tra Sindacato
e Partito hanno concorso, sommandosi alla crisi economica, a determinare
una crisi del sistema delle relazioni industriali.
Le stesse cause spiegano anche l'arretramento del processo unitario
sindacale e le diatribe che ne hanno paralizzato la vita interna. Da
ciò lo stallo del dibattitto su varie questione fondamentali,
tra le quali l'adeguamento degli automatismi salariali all'esigenza
di superare la crisi economica e la regolamentazione del diritto di
sciopero. L'aggravata crisi del Sindacato (basti ricordare le contestazioni
ai dirigenti e il rigetto di alcuni accordi da parte della base) ha
spinto le organizzazioni dei lavoratori ad interrogarsi sulla struttura
e il ruolo del Sindacato.
D'altro lato, però, è stata la stessa crisi economica
ad imporre alcuni temi alla discussione tra le parti sociali. Crescita
della disoccupazione, crisi di interi settori, ricorso massiccio alla
cassa Integrazione: tutto ciò ha proposto naturalmente le questioni
del recupero della produttività e della valorizzazione della
professionalità.
In questo quadro generale, l'azione dei pubblici poteri è risultata
particolarmente carente dal lato degli interventi strutturali di politica
economica, e si è sviluppata in modo insufficiente anche rispetto
alle esigenze poste dal mercato del lavoro. Fra i pochi risultati significativi,
la legge 16 Aprile 1981 n. 140, per la tutela e lo sviluppo dell'occupazione
nelle zone terremotate, che tende al riassetto degli strumenti di politica
attiva del lavoro (collocamento, sostegno salariale, mobilità,
ecc ... ). Ricordata l'attenzione dedicata alla crisi di intere regioni
del Sud (Calabria e Sardegna, oltre alle aree del terremoto, va sottolineata
infine la permanente carenza di interventi pubblici che assecondassero
le esigenze provenienti dal sistema delle relazioni industriali: esso
chiede un ripensamento del tradizionale rapporto tra legge e contratto
collettivo, per ottenere patti più flessibili.
L'attività
contrattuale
Il dato più
significativo viene dalle molte intese concluse nel settore privato
a livello aziendale, che dovevano rispondere alle esigenze di incremento
della produttività e di valorizzazione della professionalità.
Una serie di accordi individua nuove figure di impiegati e di operai
specializzati e differenzia gli aumenti a seconda dei livelli professionali.
Per combattere l'assenteismo si mira inoltre, in vari contratti, a legare
parte del salarlo alla presenza al lavoro. Alcune intese affrontano
anche i problemi di una nuova qualità del lavoro: si sperimenteranno.
forme di lavoro a tempo parziale e a orario flessibile. Da sottolineare
il fatto che gli incrementi retributivi concordati sono molto più
alti di quanto stabilivano i contratti nazionali: le aziende sembrano
disposte a maggiori concessioni, se possono trattare sul problemi concreti
della singola impresa. Anche questo elemento dimostra che la contrattazione
locale è di gran lunga più efficace e che il sistema contrattuale
va riformato aumentando il peso del confronto a livello aziendale.
SICUREZZA SOCIALE
L'andamento della
riforma sanitaria nel Mezzogiorno
La mancata attivazione
del sistema informativo sanitario non consente di disporre di dati e
informazioni che forniscano un quadro aggiornato dello stato dei servizi
e' più in generale, dell'andamento della riforma sanitaria. E'
possibile tuttavia svolgere considerazioni sullo stato di attuazione
della legge di riforma sanitaria nel Mezzogiorno, tenendo presente che
il rischio di generalizzazione è inevitabile rispetto ad una
situazione che presenta al suo interno differenze anche sostanziali,
non solo da regione a regione, ma anche fra singole U.S.L. di una stessa
regione.
Dopo la fase dell'elaborazione e approvazione della legge 833, il momento
attuale riguarda il completamento dell'impianto giuridico-istituzionale
e l'avvio, il funzionamento pieno e l'unificazione dei servizi incentrati
nelle U.S.L. Le ottimistiche previsioni di un rapido avvio della riforma
si sono scontrate però con la realtà di un prolungamento
della fase di passaggio, con lo slittamento dei tempi, dei modi, degli
strumenti dell'attuazione. La serie di lamentate ed ampie inadempienze
investe tutti i settori di intervento con opportuni gradi di responsabilità:
statale, regionale, locale.
Si possono menzionare alcuni elementi di fondo, esemplificativi dello
stato di difficoltà di tutto il settore: la mancata approvazione
del Piano Sanitario Nazionale (PSN), e, conseguentemente, dei piani
regionali; il non avvenuto riordino del Ministero delle Sanità;
la mancata definizione dei profili professionali. Non sono estranei
a tali ritardi alcuni fattori politici di ordine generale, che hanno
condizionato l'andamento del processo attuativo: il frequente avvicendarsi
dei Governi e l'evoluzione del quadro politico; il difficile impatto
della riforma sanitaria con la realtà politico-istituzionale
degli Enti Locali, e cioè la mancata riforma degli EE.LL. e dell'assistenza;
la coincidenza del momento della trasformazione con l'aggravarsi della
situazione economica del Paese: il perdurare di una concezione settorialistica
della Sanità, nel quadro generale della programmazione economica.
Legislazione
e attuazione della legge 833 a livello regionale
Per quanto riguarda
l'istituzione e l'organizzazione delle USL va rilevato che, a tutt'oggi,
si è realizzato con le leggi regionali:
- il completamento della costituzione delle USL;
- il completamento del trasferimento delle funzioni alle USL, ad eccezione
della Sicilia e della Campania;
- il completamento della legislazione sui ruoli nominativi del personale
delle USL sulla loro contabilità.
Numero delle USL attuate nel Mezzogiorno al 30/09/1981:

Il modello organizzativo delle USL, prefigurato dalle diverse leggi
regionali, risulta eccessivamente difforme da una regione all'altra.
Le carenze di "cultura programmatoria" ai diversi livelli
del SSN si traducono a livello delle USL in difficoltà ad individuare
obiettivi complessivi ma precisi, ad assegnare ai diversi servizi compiti
definiti e a determinare le interrelazioni da realizzare nella prospettiva
dell'integrazione dei servizi. Gli operatori devono dunque rincorrere
spesso la "domanda spontanea" e alla loro diversa volontà
e capacità di iniziativa è affidata l'eventuale elaborazione
dei programmi. Inoltre la realizzazione incompleta dei distretti, la
difficoltà di passaggio ad una cultura diversa dell'intervento
sanitario pongono un limite oggettivo alla partecipazione, individuata
dalla 833 come strumento Per conoscere domanda e bisogni e quindi per
adeguare costantemente gli obiettivi e la modalità organizzativa
del SSN, e come strumento di educazione per la formazione di una "moderna
coscienza sanitaria".
Le differenze
territoriali
Laddove si manifesta,
nei quadri dell' USL, una volontà concreta di attuare le riforme,
è indubbio che nella gestione quotidiana del sistema vadano maturando,
per la prima volta, capacità professionali ed amministrative
nuove ed importanti. Altrove, soprattutto nel Sud, hanno finito per
prevalere invece vecchi modelli amministrativi e burocratici, rafforzati
dalla provenienza di molti quadri amministrativi dagli Enti Mutualistici
e dagli Ospedali.
Si è determinata così una situazione sanitaria che si
può definire "a pelle di leopardo", con aree positive
e altre molto negative: nel Mezzogiorno alcune regioni hanno iniziato
il cammino, anche se molto faticosamente; altre, e pensiamo soprattutto
alla Sicilia (in questa regione, infatti, le USL non sono state nemmeno
costituite), devono ancora partire.
La fase attuale pertanto, al di là di indubbi effetti attinenti
l'estensione dell'assistenza sanitaria a tutti i cittadini , può
essere sintetizzata in definitiva come una fase di labile e controversa
tenuta del livello delle prestazioni, con rischi di scadimento in alcune
zone e per alcune categorie, che hanno visto ridotto anche il livello
delle prestazioni integrative.
Le cause delle disfunzione vanno essenzialmente ricercate:
- nell'assenza di programmazione e di governo e sistema;
- negli adempimenti mancati o errati ai vari livelli;
- nei limiti di cultura organizzativa e nelle resistenze culturali.
A questi fattori si può aggiungere quello della spesa sanitaria,
che costituisce uno dei capitoli dolenti del dibattito sulla realtà
sanitaria del Paese, se si considera che, nel disegno di legge finanziaria,
viene prevista dal Governo, per il 1982, una sua drastica riduzione.
I servizi socio-assistenziali
Oltre che dalla
mancata riforma dell'assistenza, il comparto dei servizi sociali è
destinato a risentire in modo rilevante di tre fattori recenti:
1) la sentenza della Corte Costituzionale del 31 Luglio 1981, che ha
dichiarato illegittimo lo scioglimento delle IPAB infraregionali (torna
così in discussione la sorte di circa 6.000 IPAB, sulle quali
alcune Regioni hanno già legiferato: fra queste, la Basilicata,
la Campania e la Sardegna);
2) tagli nelle spese dei Comuni, previsti dal DD.LL. governativo di
legge finanziaria;
3) l'annunciato taglio della spesa destinata, in generale, alla Sanità,
ma più in particolare ai progetti-obiettivo, arca di intreccio
di interventi sociali e sanitari.
L'integrazione
con i servizi sanitari
Negli anni che hanno
preceduto l'approvazione della Riforma Sanitaria e sulla scia di iniziative
di Regioni ed Enti Locali in questo settore, era maturata largamente
la convinzione:
- della necessità di integrare i servizi sociali e sanitari in
considerazione della non scindibilità del bisogno sanitario dagli
altri bisogni sociali della persona;
- della prevalente componente sociale di bisogni prima trattati come
sanitari (riabilitazione sociale di handicappati e di infermi di mente);
- della socializzazione di anziani, nei confronti dei quali si manifesta
facilmente la tendenza a "sanitarizzare", e così via;
- della fondamentale funzione di prevenzione e riabilitazione che possono
svolgere i servizi sociali, anche rispetto a bisogni di tipo strettamente
sanitario.
Per effetto della mancata approvazione della legge di riforma dell'assistenza
ed in concomitanza con l'entrata in vigore della legge 833, è
stato lasciato alla legislazione regionale il compito di definire norme
per il coordinamento e l'integrazione tra i servizi sociali e quelli
sanitari. Ne è conseguita una situazione complessa per cui: in
alcune regioni i servizi sociali fanno capo alle USL; in altre fanno
capo alle USL, ma sono decentrati ai Comuni; in altre invece fanno capo
ai Comuni, salvo che questi non ne abbiano deciso l'affidamento alle
USL.
In questo quadro, alcune Regioni del Mezzogiorno hanno ampliato la denominazione
dell'Unità Sanitaria Locale, e precisamente:
- Abruzzo: - Unità Locali Socio-Sanitarie;
- Molise : - Unità Locale dei Servizi di Assistenza Sanitaria,
Sociale, Scolastica; in breve, Unità Locale.
Le rimanenti Regioni hanno adottato la denominazione definita dalla
Legge 833/78, e cioè: "Unità Sanitaria Locale".
Gestione coordinata
obbligatoria
Le leggi delle Regioni
Abruzzo, Basilicata, Campania, Calabria rendono obbligatoria, attraverso
l'uso di termini imperativi, la gestione coordinata e integrata dei
servizi sociali con quelli sanitari, affidando tale gestione alle Unità
Sanitarie Locali.
Gestione coordinata
e facoltativa
Questo tipo di gestione
si riscontra soltanto nel Molise.
Gestione coordinata
separata
La Regione Sardegna
prevede forme di coordinamento, ferme restando le attribuzioni nel settore
assistenziale alle Province, ai Comuni e ai loro Consorzi.
Nessuna indicazione
sulla gestione coordinata
La Regione Puglia,
nella sua legge del 26/05/1980 n. 51 ("Norme per l'organizzazione
e il funzionamento delle Unità Sanitarie Locali"), nonchè
la Regione Sicilia, nella L.R. 12 Agosto 1980 n. 87 ("Istituzione
delle Unità Sanitarie Locali") non fanno alcun riferimento
al coordinamento tra i servizi sanitari e quelli sociali.
La legislazione della Basilicata prevede al fine di un decentramento,
che alcune prestazioni assistenziali siano gestite direttamente dal
singoli Comuni interessati.
Struttura organizzativa
delle USL
Le seguenti Leggi
Regionali prevedono l'istituzione di uno specifico "servizio"
per la gestione dei servizi sociali con le seguenti denominazioni:
- Abruzzo: Servizio di Tutela Sociale;
- Calabria: Servizio Sociale;
- Molise:
1) Servizio per la tutela Materno-Infantile e dell'Età Evolutiva;
2)Servizio per la Tutela Sociale dell'Età Adulta e dell'Anziano.
Responsabile
dei servizi sociali
La legislazione
delle Regioni Abruzzo, Basilicata e Molise prevede che sia nominato
un responsabile dei servizi sociali che , in Abruzzo specificatamente,
assume la funzione di coordinatore a fianco di quello sanitario e amministrativo,
mentre nelle altre Regioni partecipa alle riunioni dell'Ufficio di Direzione
della USL.
Personale
La legge Regionale
della Basilicata precisa l'inquadramento del personale addetto ai servizi
sociali. Detto personale rimane inquadrato nei rispettivi ruoli di appartenenza
e viene messo a disposizione delle Unità Sanitarie Locali.
Finanziamenti
La Basilicata e
il Molise dispongono che, in caso di gestione coordinata dei servizi
sociali con quelli sanitari, i Comuni interessati trasferiscano alle
USL le risorse destinate ai servizi sociali, così come definiti
dall'ultimo rendimento consuntivo.
EDILIZIA ABITATIVA
Otto leggi specifiche
in materia di edilizia residenziale pubblica e privata, dal 1971 al
1981, e il permanere, nonostante questo notevole sforzo legislativo
(alcuni sostengono "a causa di questo proliferare abnorme di leggi
e protetti"), di una crisi produttiva abitativa sempre più
aggrovigliata ed incerta nelle sue prospettive di uscita, impongono
delle "considerazioni generali di settore" dedicate in maniera
specifica al ruolo e alle prospettive dell'edilizia residenziale pubblica.
Le possibili linee di una nuova concezione dell'intervento pubblico
sono, in sintesi:
- la subordinazione dell'entità e della qualità dell'intervento
pubblico ad un riequilibrio economico di tutto il comparto abitativo;
- l'impostazione di un intervento pubblico finalizzato ad obiettivi
economico-produttivi;
- la separazione dell'intervento pubblico con fini produttivi da un
nuovo sistema di sostegno, personalizzato, della domanda sociale.
Rispetto al sistema di intervento pubblico, gli aspetti di più
attuale interesse sembrano i seguenti:
1) l'individuazione e la creazione, a livello nazionale, di ruoli e
funzioni di governo economico del settore, o quanto meno dell'intera
arca di interventi pubblici; fa parte integrante di questo governo economico
la manovra finanziaria delle risorse pubbliche e di quelle private attivate
da incentivi pubblici;
2) la definizione di Istituti di canalizzazione del risparmio privato
e del suo inserimento in strumenti finanziari di grandi dimensioni;
3) la scelta e il potenziamento effettivo di grandi promotori immobiliari
(società finanziarie, investitori istituzionali, grandi imprese
e concentrazioni cooperative, ecc..), con i quali concertare programmi
di ampio respiro temporale e dimensionale;
4) la ridefinizione del sistema di aiuti personalizzati, sulla base
di più aggiornati indicatori della capacità economica
e coerente con il regime fiscale generale.
La situazione attuale è infatti la conseguenza della riforma
incompiuta, avviata con la legge n. 865/1971 e proseguita fino alla
457/1978, rispetto alla quale:
- è rimasto disatteso l'obiettivo di una compiuta riorganizzazione
istituzionale;
- i soggetti privati, operanti nel settore, sono stati assunti come
"dato" e poco o nulla si è fatto per modificarne o
migliorarne ruoli, funzioni, capacità;
- la sovrapposizione di interventi straordinari ha fatto entrare nel
campo altri soggetti, preesistenti o reinventati, senza precisare compiutamente
i rapporti tra i loro ruoli. E quelli affidati ad altri soggetti operanti
negli stessi ambiti, sulle stesse materie, per attività analoghe,
magari intrecciate nella realtà, ma distinte e separate nelle
procedure decisionali e gestionali.
Lo stato dell'edilizia
residenziale pubblica nel Mezzogiorno. Edilizia sovvenzionata.
L'entrata in vigore
della 457/78, alla base della quale c'è una "filosofia della
continuità", un'azione cioè che si rispecifica alle
diverse scale spaziali con un intervento proporzionale all'entità
del fabbisogno accertato, è riuscita, in parte, ad accellerare
le procedure di spesa: ciò che invece rimane inalterato è
la perdurante difficoltà delle Regioni meridionali e delle Isole
(rispetto a quelle del Centro-Nord) a spendere le risorse finanziarie
loro assegnate. Infatti, dalla "Graduatoria delle regioni per capacità
di spesa in edilizia sovvenzionata al 30/06/1981" (Leggi 865, 166,
392, 513, 457, 1°-2° biennio) risulta che tutte le regioni meridionali,
escluse la Basilicata e l'Abruzzo, sono in posizione inferiore alla
media nazionale, nella percentuale dei fondi erogati rispetto a quelli
stanziati.
Considerando la medesima graduatoria, riferita però solo ai fondi
erogati con la 457, 1°-2° biennio, la situazione si aggrava
e troviamo solo la Puglia con una percentuale di fondi erogati superiore
alla media nazionale.
Nel complesso, quindi, l'innalzamento della capacità operativa
delle Regioni meridionali permane come uno dei problemi più urgenti
da sciogliere.
Stato di attuazione
dell'edilizia convenzionata agevolata.
Per quanto riguarda
lo stato di attuazione dei programmi relativi alla 457,1°-2°
biennio, per i programmi di edilizia agevolata e convenzionata, i dati
al 30/06/1981 denunciano sostanziali ritardi. Infatti, per il i' biennio,
nessuna Regione meridionale è riuscita ad erogare fondi oltre
la media nazionale, che si discosta molto da quella di alcune Regioni
del Centro-Nord. Per il 20 biennio, fatta eccezione per il Piemonte,
nessuna Regione ha erogato fondi e, inoltre, Abruzzo, Molise, Basilicata
e Calabria, alla data sopra indicata, non avevano presentato ancora
neanche i piani di localizzazione, evidenziando quindi come questo canale
di intervento non sia stato ancora attivato.
L'attuazione
della Legge 25/80
Le disposizioni
in materia di attività edilizia della legge 25 si differenziano
sensibilmente dai canali ordinari di spesa pubblica nel settore residenziale,
tenuto conto anche delle diversità delle categorie cui sono orientate
le iniziative che la legge prevede. E' possibile tuttavia esprimere
un bilancio di spesa al 30/06/1981, analizzando i fondi erogati dagli
art. 7,8 e 9 della legge.
Con l'art. 7 sono stati messi a disposizione dei Comuni con oltre 350.000
abitanti 400 miliardi di lire per l'acquisto di alloggi liberi o da
ultimare entro il 30/10/1980 e da destinare agli sfrattati. Rispetto
a una media nazionale di spesa del 48,6%, abbiamo Comuni, come Palermo
e Catania, che si avviano all'esaurimenti dei fondi stanziati. Si può
affermare che, a parte alcuni casi, i Comuni hanno esplicato questa
funzione di "agente immobiliare".
Per quanto riguarda l'attuazione dell' art. 8, i dati disponibili non
consentono una valutazione su questa nuova procedura di spesa. E' da
rilevare, tuttavia, come l'erogazione dei fondi proceda più a
rilento nelle grandi città (con oltre 350.000 abitanti), contraddicendo
lo spirito della legge 25, concepita come rimedio straordinario alle
alte tensioni sociali per la situazione abitativa, registratesi nelle
grandi aree metropolitane.
In merito all'attuazione dell'art. 9 (concessione di mutui agevolati),
il dato emergente è l'ampiezza insufficiente della manovra finanziaria
dello Stato rispetto all'area degli aspiranti ai mutui. Inoltre, alla
data del 30/06/1981, alcune Regioni - come l'Abruzzo, il Molise, la
Calabria e la Sicilia - non avevano ancora inviato le delibere al C.E.R.
Nelle altre Regioni meridionali, su 37.009 domande in graduatoria, solo
il 23% è stato ammesso al mutui. Nell'area degli esclusi dal
benefici della legge rischiano di refluire anche quegli assegnatari
economicamente emarginati dalla lievitazione dei valori immobiliari
intercorsa nel periodo tra la richiesta e l'ottenimento dell'agevolazione.
Situazione finanziaria
e attività costruttive degli IACP
La tendenza di fondo
degli anni precedenti, identificata con una crescita del disavanzo complessivo
e un rallentamento del ritmo delle costruzioni, è venuta modificandosi
nel corso dell'anno 1980. Non è possibile un raffronto con i
dati precedenti al 1978, data la differente disaggregazione territoriale.
Dai dati si rileva che, nonostante l'assenza di qualsiasi intervento
legislativo (disattesa introduzione del canone sociale, non adeguamento
all'andamento del costo della vita dei canoni determinati dalla legge
513/1977), gli IACP si sono dimostrati in grado di "raffreddare"
il trend di crescita del disavanzo; tuttavia, data la sua entità,
si ritiene che esso sia ripianabile solo con un intervento combinato
di sostegno creditizio e di riorganizzazione degli stessi Istituti.
L'accumulazione del deficit tende a concentrarsi nelle grandi città,
denotando un processo di miglioramento delle condizioni finanziarie
degli Istituti che ricadono fuori delle grandi aree urbane.
Una precisa inversione di tendenza si rileva a livello di attività
costruttiva nel 1980; dall'analisi disaggregata risulta che è
presente nel Sud e nelle Isole un incremento delle abitazioni realizzate
nel 1980 (rispetto al 1979) rispettivamente del + 10,9% e del + 204,2%.
Tali andamenti risultano in parte spiegabili con il fatto che in queste
aree territoriali ricadono Regioni che hanno avviato con ritardo i loro
programmi costruttivi.
Il finanziamento
degli investimenti nel settore abitativo.
Fra il 1979 e il
1980 gli investimenti nel settore delle costruzioni hanno fatto registrare
complessivamente un incremento in termini monetari del 24,9%, che non
va attribuito unicamente al ringofiamento inflazionistico. Per un ulteriore
incremento e finanziamento in questo settore sono state formulate numerose
proposte, nel tentativo di superare la perdurante contrapposizione tra
un'assenza di iniziative governative da un lato e una notevole vitalità
degli Istituti di Credito e di alcune Amministrazioni Locali dall'altro.
Fra queste, di particolare rilievo:
- il progetto Andreatta;
- le iniziative della Amministrazioni Locali, tese a sbloccare l'attuale
situazione di chiusura del mercato delle abitazioni in locazione (chiusura
che interessa tutte le città italiane di dimensioni rilevanti);
- le iniziative del sistema bancario: diversi Istituti di Credito Fondiario
hanno infatti elaborato proposte indirizzate alla costituzione di sistemi
di risparmio-casa e alla tutela del valore reale dell'investimento (attraverso
l'emissione di titoli), per attivare meccanismi di attrazione nei confronti
del risparmio privato.
Oggetto di riflessione sono inoltre quel canali finanziari quali gli
Enti di Previdenza, gli Istituti di Assicurazione, la Cassa per il Mezzogiorno;
che dovrebbero destinare all'edilizia circa 500 miliardi all'anno, a
condizioni non inferiori a quelle dell'edilizia agevolata.
Per favorire la localizzazione di imprese industriali nel Mezzogiorno,
oltre ad agevolazioni finanziarie, fiscali e tariffarie, e previsto
il concorso della Cassa per il finanziamento di insediamenti abitativi
a favore dei dipendenti delle aziende industriali localizzate nelle
aree di sviluppo industriale. Il Cipe, con delibera dell'8 Agosto 1980,
ha stanziato 230 miliardi di lire in contributi, provvedendo a ripartire
i fondi sia tra le varie regioni meridionali che tra i beneficiari (l'Impresa
industriale ovvero le Cooperative dei lavoratori dipendenti). A seguito
del trasferimento delle competenze in materia, dalla Cassa per il Mezzogiorno
alle singole Regioni, si e in attesa che queste ultime codifichino la
loro attività per il finanziamento di insediamenti abitativi
per lavoratori dell'industria.
Alcuni fenomeni
emergenti del mercato immobiliare. Le Agenzie.
Le Agenzie sono
i nuovi operatori della commercializzazione immobiliare, che hanno applicato
agli immobili le moderne tecniche del marketing. La loro presenza è
ormai capillarmente diffusa su tutto il territorio nazionale interessando,
naturalmente, anche le regioni meridionali. L'Immobiliare (ora Grimaldi)
ha più di 60 Filiali in tutta Italia; la COM-Fai ha cinque Filiali,
una delle quali a Napoli; L'Ipi ne ha otto; la Gabetti 60, molte delle
quali nel Meridione (a Napoli, Bari e Gagliari).
Un altro fenomeno emergente è quello della cosiddetta "mobilità
repressa dei quadri": conseguenza della scomparsa del mercato delle
locazioni sarebbe infatti un processo di annullamento della mobilità
territoriale delle forze-lavoro. Questo fenomeno interessa soprattutto
i quadri medi e medio-alti delle imprese collegate ad un processo di
rinnovamento tecnologico e di riassetto organizzativo. Molti infatti
rifiutano avanzamenti di carriera che comportino un trasferimento di
carattere permanente. Lo rivela un'indagine del CENSIS, svolta inviando
dei questionari alle Direzioni del Personale di alcune Aziende. Le cause
principali che rendono difficoltosa la mobilità territoriale
dei quadri sono, senza dubbio, le difficoltà di reperimento di
sistemazioni alloggiative nelle città di destinazione.
I NUOVI TERMINI
DELLA QUESTIONE "TERRITORIO"
In questi anni l'idea
di "città" e le sue prospettive sono venute a perdere
di interesse per il prevalere della "questione edilizia".
Infatti, le proposte più recenti per fronteggiare l'emergenza
sugli sfratti e la crisi degli alloggi rimuovono la variabile-territorio
e accentuano l'uso della deroga agli strumenti urbanistici per superare
le strettole procedurali e le inefficienze amministrative. L'Italia
è un Paese ad alta densità di edificazione. Nel 1980 le
aree non destinate ad usi agricoli o forestali, perchè non utilizzabili
o urbanizzate, rappresentavano il 10,4% del totale a fronte del 7,8%
registrato nel 1951. Le differenziazioni geografiche sono notevoli dal
Nord verso il Sud. Esiste una maggiore disponibilità di aree
agricole nel Mezzogiorno, cui però non corrisponde un alto livello
di produttività. Infatti, tenuto conto che il Meridione sfrutta
il 42,4% della superficie agro-forestale italiana, risulta inadeguato
il valore di 35,5% in termini di prodotto lordo vendibile (PLV).
In questi ultimi anni si registra inoltre un'occupazione del suolo più
minuta e diffusa. Se infatti, fino agli Anni '70, l'aggregazione territoriale
si concentrava intorno alle grandi aree metropolitane, ora avviene per
direttrici lineari: ai bordi delle strade e lungo le coste, determinando
uno stato di congestione endemica e di conflittualità permanente
fra usi diversi (per es. fra usi agricoli e industriali, con costi notevoli
per il sistema economico e sociale). A questo si aggiunge il vuoto legislativo
per l'esproprio delle aree, che si è determinato in seguito alla
sentenza n. 5 del 1980 della Corte Costituzionale (illegittimità
della legge Bucalossi), solo in parte colmato da decreti-tampone per
avviare i programmi di ricostruzione nelle aree terremotate.
Il "caso
Napoli".
Il terremoto del
Novembre del 1980 ha portato in primo piano la questione del Meridione
e di Napoli in particolare. La risoluzione dei drammatici problemi di
questa città richiede infatti la realizzazione di un programma
straordinario di edilizia residenziale, in grado di risolvere i fabbisogni
abitativi enormemente aggravati dal danni del terremoto. E' necessario
quindi espropriare con procedura d'urgenza, e in deroga a tutte le norme
vigenti, aree da destinare alle costruzioni.
I provvedimenti speciali per la ricostruzione determinando che le indennità
di esproprio, previste nella legge n. 385 del 29/07/1980, vengano maggiorate
del 70%. Sono stati acquisiti così dal Comune di Napoli 400 ettari,
con una spesa complessiva di 40 miliardi di lire per la sola indennità
di esproprio, pari a 100 milioni di lire per ogni ettaro espropriato
(si deve comunque considerare che si tratta di terreni con rilevante
valore agricolo, le cui colture sono rappresentate da frutteti specializzati
o da colture ortive a pieno campo). Il "caso Napoli", a cui
la legge 21/9/81 per la ricostruzione delle zone terremotate dedica
un capitolo specifico, merita quindi particolari considerazioni. Soprattutto
perchè l'obiettivo degli interventi è rilevante (la costruzione
e il reperimento di 20.000 alloggi) e, in secondo luogo, per le novità
normative e procedurali in esso contenute:
- il Sindaco di Napoli e il Presidente della Giunta Regionale della
Campania sono nominati Commissari Straordinari;
- l'individuazione delle aree, effettuate tramite ordinanza commissariale,
può avvenire in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, anche
per quanto riguarda la destinazione d'uso dei suoli e gli indici di.
edificabilità;
- le indennità di esproprio, come già detto sopra, sono
maggiorate del 70% rispetto a quelle previste nella legge 385;
- i finanziamenti riguardano non solo gli alloggi, ma anche le urbanizzazioni
primarie e secondarie;
- le opere dovranno essere affidate in concessione (finora sono state
affidate a 12 Consorzi o Associazioni tra 85 imprese).
I tempi previsti per i primi adempimenti sono strettissimi: 10 giorni
per individuare le aree (operazione questa che è di competenza
del Sindaco-Commissario): 15 giorni per procedere all'occupazione; 15
giorni per affidare le opere in concessione. Alla scadenza di questi
termini su entrano i poteri sostitutivi del CIPE (Comitato Interministeriale
Programmazione Economica). L'ammontare dell'investimento è di
1.500 miliardi di lire.
Nel programma si possono distinguere tre settori di intervento:
- un piano di edilizia economica e popolare nel comprensorio di Secondigliano
e Ponticelli;
- un "piano delle periferie", attraverso cui si prevede il
recupero urbano di 12 centri di origine agricola, che rappresentano
oggi il nucleo dei quartieri periferici;
- alcuni interventi di riqualificazione su tutto il centro urbano in
aree di risulta, su edifici crollati o abbandonati.
PRIMI ELEMENTI SULLO
STATO DELLE INFRASTRUTTURE DI TRASPORTO
Nel Compartimenti
ferroviari di alcune regioni del Mezzogiorno - soprattutto la Sicilia,
la Campania e la Calabria - si manifestano in modo allarmante fenomeni
quali movimenti franosi, cedimenti, cadute di valanghe ed erosioni marine.
Questa situazione caratterizza in parte tutto il territorio nazionale,
anche perchè il tracciato ferroviario è rimasto pressochè
immutato rispetto all'epoca della sua costruzione e risente di un forte
degrado territoriale.
Da questo punto di vista si registrano meno problemi in Puglia e in
Sardegna, regioni che risentono tuttavia di un forte arretramento a
livello di efficienza: in Sardegna ci sono linee a binario semplice
non elettrificate; in Puglia la rete, pur se a doppio binario, non e
completamente elettrificata. Analoga situazione nel Molise e in Calabria.
Esiste quindi un forte squilibrio nella qualità delle linee,
che corrisponde, peraltro, a una distribuzione dei traffici prevalentemente
sul versante occidentale e nord-occidentale del territorio nazionale.
Maggiore incremento si vuole dare comunque al crocevia nord-orientale,
e non solo dal punto di vista ferroviario, coinvolgendo in misura crescente
tutta la fascia adriatica fino alla Puglia che, con l'intera regione
metapontina, costituisce un passaggio importante per le correnti di
traffico che si sviluppano in direzione Nord-Sud.
Questo progetto necessita, per essere realizzato, della ristrutturazione,
oltre che della linea ferroviaria, dei porti di Bari e di Brindisi.
LA CRESCITA DELLO
STATO DELLE AUTONOMIE
Numerosi elementi
hanno contribuito, nel corso del 1981, a dare rilievo delle autonomie
regionali e locali, suscitando l'attenzione della classe politica e
dell'opinione pubblica. E' sufficiente considerare, ad esempio, quanto
previsto dalle proposte di legge di riforma dell'intervento pubblico
nel Mezzogiorno, che prevedono un ruolo sempre più consistente
dei poteri locali, soprattutto nella gestione dei progetti e degli interventi;
oppure la grande attenzione che molti governi locali hanno saputo conquistarsi
in occasione del terremoto del Novembre scorso dando vita, in breve
tempo, a una trama di solidarietà civile tra le diverse Comunità
locali (attraverso una fitta rete di gemellaggi), mentre gli apparati
dello Stato centrale funzionavano con deprecabile lentezza.
Un dato è quindi da sottolineare: la vitalità dei governi
locali, nonostante alcune inadempienze e ritardi culturali, è
indiscutibilmente in progresso. Tuttavia il consolidamento delle Regioni,
qual' Enti di programmazione, legislazione e coordinamento, rimane fortemente
condizionato dalla situazione amministrativa e del personale.
Molto spesso, purtroppo, si registra una tendenza al "centralismo
regionale" e il prevalere di una mentalità burocratica che
non accetta di buon grado il principio della delega ai Comuni e agli
Enti sub-regionali, rallentando il ruolo della funzione della Regione
stessa. Tali constatazioni trovano conferma nella quantità del
personale dipendente dalle Regioni, che ha avuto un incremento del 76%
nel quinquennio 1976-81.
In questi anni si è verificato quindi un consolidamento delle
funzioni di molte Regioni: una situazione di grande dinamismo si riscontra
per esempio in Puglia; una crescita consistente si registra in Abruzzo.
Ma, in generale, questi dati non sempre indicano una maggiore efficienza;
al contrario, spesso denotano il perpetuarsi di una tendenza alla creazione
di posti di lavoro pletorici, specie nelle Amministrazioni meridionali.
Inoltre la rigidità di questi apparati è accentuata dall'
"inamovibilità del personale (il 68% dei dipendenti è
di ruolo): il che vanifica spesso progetti di riorganizzazione e decentramento.
Altro dato interessante: tra le Regioni meridionali, quelle che maggiormente
hanno fatto ricorso alla legge 285 del 1977 per l'occupazione giovanile
sono: la Campania (con assunzioni pari al 14%), l'Abruzzo (32,1%) la
Puglia (46,3%). La stessa natura del contratto non permette però
l'inserimento di questi giovani in posizioni realmente incisive.
LA SPESA DELLE REGIONI
La maggior parte
delle entrate regionali è di provenienza statale. Gli incrementi
più consistenti sono andati, dal 1978 a oggi (tanto per la parte
corrente quanto per i trasferimenti in conto capitale), al settore socio-assistenziale
e a quello sanitario. La completa assenza di trasferimenti di parte
corrente al settore "ambiente e calamità naturali"
evidenzia l'assenza di strutture finalizzate alla protezione civile.
i dati complessivi sul bilanci consuntivi disponibili più recenti
(1978-79) variano tra Regioni a Statuto Ordinario e Regioni a Statuto
Speciale. In mancanza di altri dati, vale la pena di considerare il
valore procapite. Tra il 1980 e il 1981, tale valore è cresciuto
in tutte le Regioni a Statuto Ordinario, con un minimo del 16,6% in
Campania. Nelle Regioni a Statuto Speciale, esso è rimasto stazionario.
Complessivamente, le Regioni si presentano con bilanci non fortemente
gravati da esposizioni verso il sistema del credito. Comunque, il forte
divario fra l'ammontare di mutui previsti e mutui effettivamente stipulati
è indice della difficoltà che gli Enti hanno a passare
dalla fase di programmazione a quella di realizzazione dei programmi.
Rispetto alle Province, in un momento in cui esse sono oggetto di ripensamento
riguardo alle funzioni svolte e al loro futuro nell'ambito della riforma
degli Enti Locali, si può constatare una loro struttura di notevoli
dimensioni ma sufficientemente omogenea, con una situazione relativamente
migliore nel Centro-Nord che nel Sud e nelle Isole, dove si registra
un evidente appesantimento dell'apparato burocratico. Rispetto ai bilanci
delle Amministrazioni sia provinciali che Comunali, e presente una certa
disomogeneità territoriale nella capacità di spesa degli
Enti, con situazioni alquanto diversificate nel vari ambiti regionali.
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