Sotto il segno delle grandi sfide




Leopoldo Pirelli



Credo che le vicende di questi ultimi anni abbiano dato un'ulteriore conferma della distinzione fra aspetti congiunturali e aspetti strutturali dei problemi che investono l'economia occidentale, e quella europea in particolare.
Chiaro infatti che, anche se le vicende congiunturali, cioè gli andamenti a breve termine, hanno richiamato notevole interesse, i problemi strutturali stanno avendo e avranno anche in futuro un rilievo di gran lunga superiore.
Mi pare opportuno quindi limitare a poche considerazioni il discorso sulla congiuntura. Non vi è dubbio che la gran parte dei Paesi europei abbia vissuto nel biennio 1980-81 una fase, se non recessiva, quanto meno stagnante, accompagnata purtroppo da un'accentuazione dell'inflazione. Molte sono le cause di questo andamento, ma fra esse emerge con particolare rilievo la cosiddetta "crisi energetica", che ha segnato la chiusura di un decennio estremamente difficile per il mondo occidentale.
Questa fase negativa sembra peraltro avviarsi a conclusione, se pur con modalità diverse per i vari Paesi, e il quadro congiunturale che si prospetta per il prossimo futuro è quello di una moderata ripresa dei tassi di attività, accompagnata a un sia pure contenuto rientro dell'inflazione. Ritengo utile sottolineare la posizione di un Paese come l'Italia che , in questo quadro, presenta comportamenti difformi. L'economia italiana registra infatti una sfasatura temporale rispetto agli andamenti generali europei, nel senso che il 1980 è stato ancora per una buona parte un anno positivo, mentre nel 1981 il rallentamento si è accentuato solo nel secondo semestre. La difformità riguarda anche l'inflazione, che si è attestata su livelli record rispetto agli altri Paesi europei. E' quindi ragionevole pensare che l'anno in corso possa essere per l'economia italiana meno positivo rispetto agli altri Paesi, anche per la necessità di maggiori dosi di terapia deflazionistica.
Al di là degli andamenti congiunturali, vorrei però ribadire che gli Anni Ottanta si aprono per l'economia europea sotto il segno di grandi sfide che richiederanno risposte, a livello di politica economica e di singole imprese, della stessa intensità ed efficacia. Di queste sfide, che già oggi sono presenti nel quadro economico, mi soffermerò su quelle che ritengo particolarmente rilevanti sul piano industriale: quelle connesse al cambiamento tecnologico e al sistema competitivo a livello internazionale, e quelle connesse al problema del sistema monetario internazionale.
Molto è stato detto e scritto in questi ultimi anni sulla così detta sfida tecnologica, per cui mi limiterò a dire che essa proviene da alcune aree: quella dell'elettronica, quella dei risparmi energetici e quella biologica; in misure diverse ma tutte estremamente rilevanti, esse avranno grosse implicazioni sul prodotti e sul processi industriali. Basti pensare, limitando il discorso all'elettronica, all'introduzione ormai sempre più diffusa dei microprocessori e della robotica in molti settori manifatturieri, all'utilizzo sempre più sofisticato ed efficiente dei calcolatori per la progettazione dei prodotti e la gestione dei processi, all'introduzione dell'informatica nel lavoro d'ufficio e in tutto il settore terziario.
Occorre dire che già oggi in via generale l'Europa presenta ritardi rispetto agli Stati Uniti e al Giappone, ritardi che sono una delle componenti del crescente divario di competitività in molti settori e in molte imprese. Anche se può essere ovvia, la conclusione che si può e si deve trarre a questo proposito è che l'Europa deve recuperare nel tempi più rapidi possibili questo divario con un notevole impegno di risorse umane, finanziarie e organizzative. In tale direzione sarà particolarmente importante l'identificazione dei settori e delle attività strategiche, nei confronti delle quali sarà giustificata una politica di sostegno dell'innovazione anche da parte degli organismi pubblici.
In ampia misura collegato al tema tecnologico, vi e quello del cambiamento del sistema competitivo, ossia della retribuzione a livello mondiale delle produzioni. Noi abbiamo già vissuto negli Anni Settanta alcuni grandi spostamenti di attività produttive a livello mondiale, soprattutto nell'area dei beni di consumo durevoli, ma anche in quella dei beni di investimento. Basterà citare il caso del tessile, di molti prodotti elettrodomestici, di comparti delle macchine utensili e della strumentazione industriale. Questi fenomeni hanno dato luogo in tutti o quasi i Paesi europei a interventi di riorganizzazione, di ristrutturazione e di riconversione di settori e di imprese. Spesso essi non hanno comportato modifiche nell'entità e nella qualità delle risorse umane e tecnico-finanziarie dei settori e delle imprese coinvolti, ma piuttosto hanno indotto profonde, modificazioni nell'assorbimento dei prodotti e nella loro destinazione sul vari mercati mondiali. Non vi e dubbio che gli Anni Ottanta intensificheranno questa sfida e che, in termini molto generali, l'Europa si troverà di fronte a una duplice pressione competitiva: quella dei cosiddetti Paesi emergenti, a bassi costi del lavoro nei settori manifatturieri tradizionali, e quella dei Paesi tecnologicamente più forti nelle attività industriali più avanzate. Il discorso su come reagire sarebbe molto lungo ed e già stato fatto, almeno in via teorica, in modo abbastanza esauriente. Dirò soltanto che ritengo rilevante che questo decennio possa realizzare una maggiore concertazione delle politiche economiche e industriali a livello europeo, se non addirittura una auspicabile politica comune che superi interessi particolari per puntare al futuro dell'Europa.
Il terzo grande tema, quello del sistema monetario internazionale, non e certo di dimensioni e di importanza minori dei precedenti. Dall'inizio degli Anni Settanta, quando si e posto fine all'accordo internazionale sulle monete, non vi e dubbio che il progresso e la cooperazione fra i vari Paesi siano stati fortemente ostacolati dagli squilibri e dalle tensioni valutarle. Questi fenomeni hanno pesato non solo e non tanto sull'interscambio commerciale, ma anche sugli investimenti internazionali, che costituiscono un importante fattore di avvicinamento nei livelli di benessere economico fra i Paesi del mondo. L'Europa, nonostante i meritori sforzi compiuti attraverso la costituzione dello Sme e gli accordi fra le Banche Centrali, ha particolarmente sofferto di questa situazione anche per la debolezza strutturale di alcune sue economie e di alcune sue monete: ritengo che questi sforzi debbano essere perseguiti e accompagnati da nuovi o più incisivi interventi di armonizzazione delle politiche finanziarie, fiscali e legislative. E' difficile infatti pensare di gestire equilibri valutari in assenza di comportamenti omogenei in tutte le aree che hanno implicazioni sulla competitività delle imprese.
Ho voluto sollevare di proposito solo alcuni grandi temi strutturali sul quali le economie europee dovranno confrontarsi nei prossimi anni. Vorrei concludere con alcune considerazioni relative ai compiti e alle responsabilità delle imprese di fronte a questi scenari.
La prima e che le imprese europee dovranno attentamente analizzare le proprie posizioni relative nel contesto competitivo internazionale per quanto riguarda sia i prodotti sia i mercati sul quali operano: ciò al fine di valutare i punti di forza e di debolezza che li distinguono rispetto alla concorrenza e impostare programmi di medio/lungo termine finalizzati a ottimizzare le loro potenzialità. Si tratta cioè di effettuare delle scelte e di identificare delle strade da percorrere, valutando le risorse necessarie per acquisire gli obiettivi prescelti. Come risulta evidente da quanto ho detto, le aree critiche sulle quali intervenire saranno certamente quella dell'innovazione tecnologica, quella degli investimenti e quella della migliore organizzazione delle risorse nel processo produttivo.
Non a torto negli ultimi anni si e affiancata sempre più insistentemente alla parola "efficienza" la parola "efficacia". Con la prima, molto semplicemente si intende designare la capacità di fare bene le cose, cioè di operare sulle tradizionali leve della competitività: la produttività globale, del lavoro e del capitale. Con la seconda si e voluto aggiungere che, oltre a far bene le cose, bisogna farle anche giuste: cioè saper scegliere strategicamente i campi di attività su cui impegnarsi, per affrontare con maggiori probabilità di successo il confronto internazionale.

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