§ POLITICA INDUSTRIALE E MEZZOGIORNO

L'alternativa




Pasquale Saraceno



In un esame dei criteri con cui regolare nella nuova legge la materia degli incentivi, non credo sia necessario soffermarsi troppo su valutazioni critiche dell'esperienza compiuta in passato; un passato, si noti, che copre più di un trentennio. Dobbiamo ormai esserci resi conto che dal 1974, all'aprirsi della prima crisi energetica, ha avuto inizio ovunque un tipo di andamento economico che poco, e forse nulla, ha a che fare con quanto era avvenuto prima di allora; ciò anche perché a determinare quell'andamento hanno contribuito anche altri fatti, successivi, legati o no agli chocs petroliferi, che hanno accentuato il mutamento che era in corso: massimo tra tali fatti, al nostri fini, l'accellerazione dei processi di industrializzazione che si svolgono in paesi non appartenenti al mondo occidentale.
Otto anni sono trascorsi dall'inizio di questa fase della storia dell'economia mondiale, un periodo ormai sufficiente per identificare almeno i tratti salienti di tale fase; tra essi importantissimo il rallentamento durevole, comunque non congiunturale, del progresso economico dei Paesi di antica industrializzazione. Ora, il Mezzogiorno e incluso in tale area, pur essendo, malgrado il progresso compiuto nel trentennio, una subarea che di antica industrializzazione certo non e; diciamo pure e subarea che, per essere chiari, non dobbiamo cessare di dire sottosviluppata rispetto alla parte restante del sistema economico del quale fa parte l'Europa a nove, a dieci o a dodici che sia: diciamo, per brevità il complesso dei paesi dell'Occidente europeo. Ora, il rallentamento che si e avuto nel progresso economico di quel Paesi e tale da far ritenere probabile che il tasso di aumento del prodotto nazionale non possa essere in detti Paesi superiore al tasso di aumento della produttività che si deve conseguire se si vuole evitare di retrocedere troppo, non solo sotto l'aspetto economico, dalla posizione che l'Occidente europeo ha conseguito nella comunità mondiale; ciò significa che l'occupazione può non aumentare anche se aumenta il prodotto e potrebbe addirittura diminuire. In una simile situazione diminuisce molto il ruolo che può essere svolto dagli incentivi che intendono stimolare nuovi investimenti, abbiano per oggetto tali investimenti la costruzione di nuove unità di produzione oppure l'ampliamento di unità già esistenti; essi si applicherebbero solo agli impianti costruiti per nuove produzioni, rese convenienti dal mutato quadro tecnologico; l'occupazione da essi determinata potrebbe essere più che bilanciata dalle riduzioni determinate dalla cessazione di produzioni, che, comunque incentivate, non possono più essere convenienti nel sistema economico e sociale dell'Europa Occidentale. Oggetto di particolare attenzione dovrebbero invece essere gli incentivi agli investimenti di rinnovo, mediante i quali perseguire aumenti di produttività tali da far raggiungere il più presto possibile al sistema industriale meridionale la produttività prevalente nell'Europa Occidentale, la quale a sua volta si vuole si avvicini a quella nord-amerciana e a quella giapponese. Non e questa una concezione fantasiosa; superare in tale misura una situazione di ritardo e già stato possibile in passato al Giappone; e non si può dire che ciò non stia avvenendo per altri paesi non europei.
Se è vero che tutto il problema degli incentivi all'industrializzazione del Mezzogiorno va oggi riconsiderato, e però anche vero che resta immutata l'impostazione da dare alla ricerca di una soluzione. E' un'impostazione che ha un secolo e mezzo di vita, dato, che essa venne configurata nella prima metà del secolo scorso e non e mai stata contestata nelle politiche seguite dopo di allora dai Paesi che, numerosi, hanno avviato processi di industrializzazione. Si ritenne allora, in Germania, che un Paese che avvii in ritardo la sua industrializzazione deve difendere l'industria nascente con un dazio protettivo che impedisca ai prodotti esteri - erano allora solo quelli inglesi - di penetrare sul mercato interno. Questa impostazione ebbe tanto successo che a fine secolo il sistema industriale tedesco veniva già giudicato, come redditività e come capacità di ulteriore progresso tecnico, più avanzato di quello inglese; non stupirà certo sapere che da quel momento la Germania divenne rapidamente liberista. Quell'esempio venne seguito da tutti i Paesi che dopo di allora avviarono un processo di industrializzazione; anche da noi, con la tariffa doganale del 1887, venne adottata una decisa politica protezionistica, malgrado i lamenti del nostro pensiero economico: lamenti che, mi sembra, non assunsero rilievo nel caso dell'esperienza protezionistica tedesca.
Orbene, l'incentivo non e che il sostituto della protezione, nel caso in cui, come nel Mezzogiorno, l'arca da industrializzare si trova all'interno di un sistema economico già industrializzato: com'é il sistema industriale europeo nel quale l'economia meridionale, inadeguatamente industrializzata, e inserita. Invece che avere un aumento di prezzo nell'area protetta dal dazio (la protezione e quindi pagata dal consumatore), con l'incentivo avremo una riduzione di costi delle imprese che si costituiscono nell'area protetta, riduzione di costi che e ottenuta a spese dello Stato. Non e questa una differenza di poco momento. L'esperienza dice che non e difficile eludere le proteste dei consumatori che devono pagare la protezione doganale; non si potranno invece far tacere le proteste dei contribuenti che, pagando maggiori imposte, devono sostenere l'onere dell'incentivo. Questa essendo la situazione, la prima operazione che noi dovremmo compiere e quella di valutare la protezione che e data all'industria meridionale dal sistema degli incentivi in vigore, deducendo dal valore così ottenuto il valore degli incentivi via via concessi all'industria della restante parte del Paese. Non credo, in base a qualche conteggio effettuato, che tale protezione sia molto rilevante rispetto a quella di cui fruì l'industria settentrionale dopo il 1887; la differenza più grande tra protezione doganale e incentivi e però costituita dal fatto che, mentre il dazio protettivo resta in vigore per tutto il tempo necessario perché l'industria nazionale possa fronteggiare la concorrenza dei Paesi di più antica industrializzazione (da noi la politica protezionistica, iniziatasi con la tariffa doganale del 1887, cesso nel 1958 per effetto della costituzione del MEC), la protezione costituita con l'incentivo ha durata limitata: si pensi alle esenzioni fiscali e ai contributi in conto interessi. Inoltre, e un fatto che la protezione viene spesso accresciuta in tempo di crisi: si pensi ai contingentamenti di importazioni introdotti tra le due guerre dalla politica autarchica. Ciò difficilmente può avvenire con gli incentivi; di fatto, si dice, il valore economico degli incentivi sembra addirittura diminuito negli ultimi tempi.
Valutato il livello di produzione consentito dal sistema di incentivi esistente e quello ragionevolmente auspicabile, ci domandiamo: quale forma l'incentivo conviene assuma? Il valore economico del complesso degli incentivi dovrebbe essere pari - anzi, dovrebbe lievemente eccedere - alla differenza esistente tra il reddito che il capitale investito conseguirebbe nell'area industrializzate e quello che invece conseguirà nell'area da industrializzare. Poiché l'incentivo, per molti motivi, non può assumere una forma così semplice e chiara, occorre ricorrere a un insieme di incentivi da riferirsi a diversi fattori della produzione. Il ricorso a tale forma determinerà però una deformazione della struttura dei costi delle imprese incentivate, deformazione la cui entità e il cui senso varia a seconda dei fattori della produzione cui l'incentivazione viene riferita, e, ovviamente, a seconda della misura delle varie incentivazioni. Siamo con ciò pervenuti al cuore del nostro problema: la deformazione, che inevitabilmente determina una politica di incentivi differenziati, può essere conforme al senso in cui si muovono le strutture dei costi delle imprese dell'area già industrializzata e uu essere invece di segno diverso e addirittura opposto ad esso. Dei numerosi incentivi fin qui utilizzati alcuni, per i fattori cui si riferiscono, non possono determinare deformazioni molto rilevanti: ad esempio, gli incentivi sull'energia e sui trasporti. Comunque ai nostri fini, data anche la brevità di questa esposizione, consideriamo due soli tipi di incentivi, quello riferito al capitale e quello riferito all'occupazione, che corrispondono poi a due temi classici del pensiero economico: intensità di capitale e intensità di lavoro. Ora, se si ammette che l'aumento della produttività del sistema industriale meridionale a un saggio superiore a quello cui aumenterà la produttività del restante sistema industriale europeo costituisce l'obiettivo primo della politica meridionalista, l'incentivo al capitale determina nell'industria meridionale strutture di costi conformi a quelle dell'economia europea; l'incentivo all'occupazione determina invece strutture che spingono in senso opposto, promuove cioé un sistema industriale la cui produttività si allontana da quella verso cui progredisce il sistema europeo.
Il sistema meridionale richiederà, quindi, di essere incentivato in misura crescente, se si vuole evitare aumento di disoccupazione determinato dalla caduta delle imprese che, irrazionalmente incentivate, hanno una dotazione di capitale fisso inferiore a quella delle imprese dell'area di antica industrializzazione.
Veniamo ora alle questioni che si pongono nell'ipotesi che si proceda, con sufficienti incentivi al capitale, in modo conforme all'obiettivo della eliminazione del divario; ciò, si ripete, per evitare che l'industria meridionale richieda di essere durevolmente assistita e non soltanto, come e legittimo, sia temporaneamente protetta per il periodo necessario per integrarsi nel sistema industriale europeo.
Il problema della incentivazione al capitale può essere trattato, come quello della protezione dell'industria nascente, alla luce della già ricordata esperienza tedesca dell'età prebismarkiana.
Sbarrato con la dogana il mercato interno ai prodotti inglesi e instaurata una convenienza a investire nell'industria, non fu difficile, in quel Paese, rendersi conto già a quel tempo che la società tedesca non possedeva il capitale di rischio occorrente per dar vita ad impianti industriali il cui esercizio era divenuto redditizio con l'introduzione del dazio. E allora, come si era respinto il liberismo inglese, si respinse anche la banca di tipo inglese, cioè la banca che presta solo a breve termine; la banca tedesca infatti cominciò a far credito anche a non breve termine e ad acquistare in gran copia azioni emesse dalle nuove imprese.
La traduzione in politica di incentivi di questo secondo tipo di intervento che chiameremo finanziario - e il contributo a fondo perduto, che si giustifica con la circostanza che la società meridionale, come già la società tedesca della prima parte del secolo scorso, non poteva avere risorse sufficienti per dar vita e portare avanti imprese che erano convenienti si, ma non per la totalità del capitale occorrente. Il contributo a fondo perduto assume così un duplice ruolo: fornire mezzi liquidi, come nel caso tedesco, e dare con il contributo un incentivo pari alla quota di un capitale che si presume non avrà reddito. Diversa e la natura del contributo in conto interessi che, come ogni altro incentivo, concorre a rendere conveniente un investimento industriale che altrimenti non lo sarebbe, così come non lo erano gli investimenti in Lombardia prima della introduzione della tariffa doganale del 1887. Si tenga presente che in quegli anni sorsero da noi nuove banche che introdussero, sia pure su scala molto modesta, le tecniche delle banche tedesche: tecniche che vennero poi adottate dalla generalità delle altre banche.
Se consideriamo i grandi dibattiti che accompagnarono, nel corso di un secolo e mezzo, le politiche di protezione dell'industria nascente intraprese in numerosi Paesi e, in particolare, riandiamo ai dibattiti suscitati dalla costruzione e dall'applicazione delle tariffe doganali, si e colpiti della primitività e dalla rozzezza del sistema di incentivi cui hanno messo capo, nel Mezzogiorno, trent'anni di esperienze. Una tariffa doganale contiene infatti un gran numero di voci, che si presentano come un vero e proprio sistema, o quanto meno sono state costruite con la consapevolezza di dover pervenire a un sistema. Era infatti chiaro che la protezione doveva essere sufficiente per rendere conveniente l'investimento, ma non tanto spinta da determinare la creazione di rendite; la tariffa doveva quindi differenziarsi in relazione alla varietà dei processi e allo stadio di lavorazione in cui i prodotti si trovavano all'atto in cui entravano nel Paese. In sostanza, a parità di altre condizioni, si cercava di far corrispondere il dazio al valore aggiunto; il dazio non si applicava alle materia prime, era limitato per i semilavorati e, più che altro, destinato ai prodotti finiti. Questa problematica si pone ovviamente anche nella definizione di una politica di incentivazione, ed e anzi resa più complessa dalla necessità di tener conto degli scarti che si sono formati tra le convenienze economiche esistenti tra le varie regioni. Una incentivazione sufficiente in Calabria crea rendite in Abruzzo mentre, se essa è appena sufficiente - come è giusto - in Abruzzo, non ha alcuna efficacia in Calabria. Certo, che dopo trent'anni di incentivazione ci si trovi a scegliere tra incentivi al capitale e incentivi all'occupazione, indipendentemente dal prodotto la cui fabbricazione vogliamo promuovere, e indispensabile per un gestore di tariffe doganali. Non si può certo pensare di risolvere in breve tempo un simile genere di problemi.
E' però possibile introdurre in prima approssimazione una dosatura nel sistema di incentivi, che tenga in qualche modo conto della varietà delle convenienze esistenti per i vari prodotti e nelle regioni.
Posto che una politica di industrializzazione richiede sempre, in passato come in futuro, una decisa protezione dell'industria nascente e apporti straordinari di capitale; posto che l'applicazione che essa ha avuto dev'essere oggi riformulata in seguito al radicale mutamento avvenuto nell'economia mondiale a partire dal 1974; posto che gli effetti dell'azione incentivante debbono soprattutto manifestarsi oggi in aumenti della produttività del sistema industriale, costituitosi nel Mezzogiorno, più che nel sorgere di nuove unità o nell'ampliamento di quelle esistenti; e ora da considerare un'altra novità, pure sopravvenuta per effetto del grande mutamento in corso, e che introduce un altro elemento di crisi nella politica di incentivazione.
E' ormai chiaro che l'aumento della produttività del sistema industriale esistente e obiettivo che pressantemente si propone alle imprese della generalità dei Paesi della CEE, e quindi anche a quelle del Centro-Nord; anche le imprese del Centro-Nord, e non solo quelle meridionali, oggi richiedono di essere protette per progredire in un mercato mondiale che e loro meno favorevole che in passato. L'industria centro-settentrionale richiederà quindi diversi ordini di misure, massima tra esse l'apporto di capitali.
Tale apporto può aver luogo in due forme: il contributo al capitale (per effetto della cosiddetta ristrutturazione) e l'intervento delle Partecipazioni Statali. Quando al contributo, non e chiara la forma che esso assumerà; è però un fatto che le risorse da investire devono essere rese disponibili per le imprese nel corso di un breve periodo, il che si rende possibile con operazioni di sconto nel caso che i contributi siano assegnati alle imprese sotto forma di serie di annualità. Siamo quindi entrati in una fase in cui, del contributo a fondo perduto, istituto finora riservato agli impianti meridionali, potrebbero fruire anche unità di produzione ubicate fuori dell'area meridionale. Quanto all'estensione che si profila nell'area delle Partecipazioni Statali, e già evidente che e stata breve la stagione delle privatizzazioni; al gran parlare che se n'è fatto non ha corrisposto un rilevante sollievo per lo Stato per effetto di apporti di capitale privato all'industria pubblica. Con ciò non siamo certo usciti dalla normalità per quanto riguarda il posto assunto dall'impresa pubblica nella società italiana; la natura e il peso di quel posto vennero ben percepiti oggi e quasi mezzo secolo, quindi ancora nella fase iniziale dell'industrializzazione del nostro Paese. Si constatò allora - e così nacque l' Iri - che era mancato il necessario capitale privato di rischio a una sezione importante dell'industria italiana del tempo; una sezione, si noti, più importante rispetto all'industria di allora di quanto lo sia l'impresa pubblica di oggi rispetto all'industria odierna. Erano infatti rimaste senza controllo privato la più grande industria meccanica del Paese (l'Ansaldo), la più grande industria siderurgica (l'odierna Finsider), molte industrie lombarde. (La Breda, l'Alfa Romeo, la Miani Silvestro, la Motomeccanica, la Dalmine, la Bresciana Sant'Eustacchio) e le grandi Compagnie di Navigazione marittima. Eppure era un'industria che andava poco al di là del cosiddetto triangolo industriale e che aveva fruito del potente sostegno dei profitti della prima guerra e dell'inflazione che l'aveva seguita. Come pensare, dopo gli insegnamenti dati da quella crisi, che lo sviluppo industriale italiano sarebbe in seguito ritornato verso il modello inglese di fine '700 e che, in particolare, il dualismo Nord-Sud si sarebbe automaticamente ridotto fino ad annullarsi?
L'industrializzazione della Calabria non avrebbe dovuto richiedere un 'intervento già effettuato ora e mezzo secolo in Lombardia, per di più in misura proporzionalmente maggiore, dato che al ritardo con cui l'industria si avviò in Lombardia si sono aggiunti per la Calabria oltre 80 anni? Ora, quando dopo il 1960 fu possibile misurare l'imponenza della migrazione del Sud verso il Centro-Nord (un milione e mezzo di persone erano migrate nel Centro-Nord nel quindici anni trascorsi dopo l'inizio dell'intervento straordinario), si doveva pensare che in quelle regioni si era raggiunta o si stava raggiungendo una situazione di pieno impiego e che l'impresa pubblica doveva quindi concentrare la sua azione nel Sud e addirittura disimpegnarsi nel Centro-Nord. Era in quegli anni che si doveva parlare di privatizzazione, secondo la tradizione, del resto, del primo Iri. D'altra parte, che un altro milione e mezzo di persone fossero emigrate dal Mezzogiorno all'estero in quel quindici anni, costituiva un indice eloquente della enorme inadeguatezza dello sviluppo economico meridionale. Comunque, contributo a fondo perduto al capitale delle imprese e impresa pubblica, che dovevano essere strumenti esclusivi dell'azione meridionalistica, vanno dunque divenendo strumenti decisivi per il sostegno dell'industria centro-settentrionale.
Se così è , oltre che gli incentivi al Sud sono i nuovi indirizzi che la grave crisi attuale impone alla nostra politica industriale che preme prendere in esame. Più precisamente: conviene oggi concentrare le nostre risorse nell'industria del Centro-Nord, parte più avanzata del nostro sistema industriale, accantonando il discorso sul divario Nord-Sud, e, in seguito, ridata competitività al Centro-Nord, iniziare finalmente una reale politica meridionalistica? Oppure conviene che la politica di sostegno della parte più avanzata del nostro sistema industriale sia resa compatibile con la continuazione - meglio sarebbe dire con l'inizio - di una reale politica di eliminazione del divario?
Non mi sembra dubbio che e la prima politica che sarà seguita, o che forse viene già seguita, non per effetto di una scelta precisa, consapevole, ma perché tale e lo svolgimento naturale della politica di sempre. Spetta ai meridionalisti dimostrare che questa scelta non e conveniente; come non fu certo conveniente - se si considera la situazione di oggi - quella che dalla cultura prevalente ebbe la qualificazione (veramente inaudita, se si pensa ai problemi che ci ha lasciato) di miracolo.
Occorre dunque impegnarci nella ricerca delle politiche con cui i due obiettivi possono essere resi compatibili. Naturalmente, daremo a questa ricerca l'impostazione che ispirò il nuovo meridionalismo, sorto nell'immediato dopoguerra e che giova ricordare nel punti salienti:
a) le soluzioni che daremo ai problemi del nostro Paese non possono essere le migliori possibili e sono forse non soluzioni, se non si inseriscono in un processo di decisa diminuzione del divario Nord-Sud;
b) una simile diminuzione del divario può conseguirsi solo attraverso una accumulazione nel Mezzogiorno di capitale industriale a saggio superiore a quello dell'accumulazione che ha luogo nel resto del Paese;
c) il processo di industrializzazione, che in tal caso si avvierebbe nel Mezzogiorno, si svolgerebbe secondo leggi profondamente diverse da quelle che reggono il progresso del sistema industriale delle altre regioni;
d) i due sottosistemi industriali italiani, quello del Centro-Nord e quello del Mezzogiorno, vanno quindi ottimizzati separatamente e solo dopo le due soluzioni ottenute vanno resi compatibili. Va aggiunto, in tema di convenienza economica, che nel Sud, nello scorso triennio, si e costruito un importante sistema industriale; le ricerche della Svimez lo documentano. Quel sistema e addirittura più moderno di quello del Centro-Nord; e minore infatti la proporzione delle industrie cosiddette mature ed e probabilmente minore la vita media degli impianti. Se la situazione permane grave, e perché lo sviluppo é stato territorialmente mal distribuito e troppo al di sotto non solo di quanto sarebbe stato bene fare, ma anche di quanto sarebbe stato possibile fare. E inoltre da tener conto che, nell'industria europea, quella meridionale e ancora un'industria nascente e per la sua stessa sopravvivenza richiede misure appropriate.
Il tipo di sviluppo economico così generato fu da noi sempre ritenuto, nel dopoguerra, il più conveniente tra quelli possibili; questa valutazione trova conferma nella natura e nella gravità dei problemi di oggi. Non e quindi la situazione di oggi che può indurci a modificare tale posizione, anche se di essa il pensiero politico e il pensiero economico prevalenti non hanno fatto gran conto. E forse e giunto il momento di chiedersi se non è il meridionalismo che ha dato e dà una impostazione nazionale alla nostra politica di sviluppo; in tal caso e definibile regionale l'altra impostazione.

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