§ L'INEDITO

Due notti agitate




Giuseppe Cassieri



I

Sarà per quel pizzico di droga che nasce dai profumi della buona stagione, sarà per una vertigine di sensazioni creatasi dentro di me da quando mi sono indotto a occuparmi di problemi spiritici, è certo che i miei sonni non sono più tranquilli, da pieni, addirittura abissali, quali erano. Un pensiero assiduo ne intorbida le profondità; sento come uno sciabordio di corpuscoli freddi intorno alle mie palpebre. Mi sveglio di soprassalto e sempre col medesimo incubo: che qualcuno si aggiri nel mio studio dove ho sistemato la poltrona-letto. Mi sollevo di scatto per scrutare nell'ombra della stanza che non è mai troppo folta, giacché tra le assicelle della serranda filtra la luce vereconda di una lampada stradale, e sono istintivamente attratto dalle righe bianche stampate sulla parete opposta alla finestra. Tra queste righe saltellano segni neri a coda di lucertola, ad ala di pipistrello: il pentagramma si anima, ma è animazione ovvia, non fatico a riconoscerlo. Sono fregi di un arazzo sardo che, toccati dai riflessi oscillanti del chiarore esterno, acquistano sembianze zoomorfiche.
C'è da vergognarsi, e difatti mi vergogno, a trovarsi lì, le pupille sgranate, il cuore che martella un poco contro ogni imperativo, lì a sondare il buio zebrato e a credere di avere scorto un fantasma: di quelli, ad esempio, dal sorriso melenso, fotografati da Samuel Harrison e chiosati dal professor Crookes.
"Forse Katie King?" mi scopro a domandare. Tiro fuori un braccio dalle coperte, lo allungo al pulsante del lumetto da notte, sto per premere, ma per fortuna è ancora vivo il sentimento diurno della ribellione, non cedo al bisogno puerile di chiarire il mistero servendomi di una candela elettrica; mi riaccuccio accigliato ripetendomi che dopotutto la seconda vita non m'interessa, sono una persona dai saldi contorni nella visione del mondo, e dunque sarebbe sciocco che gli spiriti comunicanti venissero a importunare proprio me. Non sono medium, e se trascorro parecchie ore a leggere Alan Kaderc e l'Aksakov e il Cavalier Chiaia, il Pappalardo e i loro galoppini, è per dovere d'informazione, per uso professionale. Per quanto accreditati gli esperimenti, non ce la possono contro lo scetticismo di un recidivo.
Fatta questa premessa mentale, mi abbranco al cuscino e spero di riaddormentarmi. Ma nelle fluidità del dormiveglia i propositi somigliano al velo di sabbia asciutta spruzzato dal libeccio sulle spiagge; in apparenza l'arenile è dolce, uguale e fine ed ecco, basta appena un mulinello da ponente per scalzare la sottilissima armonia; riaffiorano buche, detriti e meduse in putredine. Così, a dispetto delle immagini che invoco per tenermi compagnia, tornano a ossessionarmi quelle, fosforiche, dell'album di riproduzioni spiritiche: una vera antologia di fotografie ormai storiche per i devoti. In primo luogo, la seduta in casa dell'ingegner Blech. Intorno al tavolino a quattro gambe siedono Eusapia Paladino, l'ingegnere, magrissimo e meticolosamente vestito, e Camillo Fiammarion con barba e baffi alla "carbonaro 1821 ".
Una delle ragazze Blech è abbastanza graziosa, avvolta in una morbida tunica, i capelli mori attorcigliati a piramide; la sorella è nascosta dietro il padre, le si vedono solo le diafane manine nell'atto (così sembra) di carezzare un levriere. Colei invece che viene concordemente giudicata la sovrana delle medium, Eusapia, onnipresente nelle sedute internazionali, risolutrice di vertenze teoriche, mostra fattezze campagnole, tarchiata, le guance larghe e piatte, il petto compresso in un corpetto ruvido. L'espressione è variamente interpretabile: assorta o ottusa. Si capisce che Fiammarion ne è conquistato. Subito dopo - riproduzioni 1-5 della IV serie dell'album - il tavolo ha ricevuto lo stimolo, si alza sulle due gambe anteriori divaricate, un pochino sconce in quella posa di creatura animale; si alza per rivelare che Marie Aubren, la figliola di un medico di Tolosa, morta tisica a diciassette anni, vaga tuttora nel regno degli spiriti inferiori e deve accontentarsi di agire sulle scarpe paterne (sciogliere le stringhe, lucidare il coppale, raddrizzare un tacco). Seduta piuttosto magra, vien da considerare, per essere governata da una Paladino e da un Flammarion.
Mi rigiro innervosito. Possibile che non riesca a passare ad altri richiami, piuttosto che ritrovarmi a scorrere le riproduzioni della serie V, ovvero la conversione di Cesare Lombroso? Un uomo così positivo, scienziato ineccepibile! E tuttavia, quella dichiarazione del 2 marzo 1891, dopo la seduta all'Hotel Genèvé di Napoli ("Sono molto dolente di aver combattuto con tanta tenacia la possibilità dei fatti spiritici. Ebbene, i fatti esistono, e io dei fatti mi vanto di essere schiavo") sa di onoranza municipale, quando il Sindaco prende a parlare dopo la fanfara e la voce assume tonalità epiche.
Cosa mai, mi chiedo, ha conquistato il Lombroso? La relazione parla di un'alcova, di un tavolo di castagno e un piatto colmo di semola. D'un tratto si percepisce un rumore, cominciano a manifestarsi i fenomeni di levitazione e tiptologia, gli sperimentatori si avvicendano nell'alcova e Lombroso constata che il piatto di semola si è capovolto e contiene nella nuova posizione la quantità di semola predisposta senza che nessuna particella si sia sparsa all'intorno. Tutto qui. Ora può darsi che sia stato uno spirito a dar luogo al capovolgimento della scodella, ma sorge il dubbio che un buon giocoliere della comune gente vivente avrebbe almeno ottenuto che la semola si trasformasse in tagliatelle.
Quando al fantasma di Katie King fotografato nel 1874 a Samue Harrison, la riluttanza ad accettarlo si tinge di un tantino di commiserazione. Katie King è scostante senza alibi. Appare in una cornice di bende di lino, il volto cereo, occhiaie larghe e fonde; anche se cammina nell'etere e si lascia fotografare e intervistare, essa è pur sempre un soffio della morte.
Credo di dire in sogno: "Questa Katie è decisamente uno sgorbio!" e invece mi trovo desto e, cosa strana, sto fissando con tanto d'occhi un punto dello scaffale, precisamente la terza scansia, dove senza possibilità di equivoci mi richiamano due iridi luminosissime, l'una verde acqua, l'altra rosso rubino. "Diamine, e queste?". Trattengo il respiro. Saranno le tre, le quattro, chissà. Non si percepisce un segno di vita nella strada; non c'è nulla che dia il senso del luogo e del tempo: impressione molto sgradevole per una mente eccitata. E' notte spaziosa, anonima, e là nella terza scansia del mio scaffale brillano due fuochi fatui. Ma saranno tali? Mi sembra di essere in me, con tutto il peso della coscienza. Non posso più almanaccare. Mi libero con uno strattone delle coperte e a piedi nudi, d'un balzo, sono a tu per tu con quelle iridi bicolori. Stendo la mano trepidante, urto coi polpastrelli un oggetto metallico, mi asciugo la fronte con la manica del pigiama. "Eccolo qua il soprannaturale!" esclamo. Avevo dimenticato di aver riposto io stesso in quella scansia il più bel giocattolo di mio figlio, un "Titanic" in miniatura dallo scafo verdone e la torretta gialla sulla quale si accendono due crune e semaforo, rosso rubino e verde acqua, appunto. Solo che le due levette si sono inspiegabilmente incantate. Provo ad abbassarle, a muoverle perché si spengano. Per quanto mi adoperi, però, i lumini restano accesi. Dovrei smontare la torretta, ma l'incastro è perfetto, ci vorrebbe un punteruolo. Rinuncio a quest'operazione di disarmo, rimetto al suo posto il "Titanic" e m'infilo sotto le coperte. L'alba non può essere lontana.
Resta, è vero, insoluto il perché di quel "Titanic" che si è dato luce da solo. Contatto, umidità o caso? Non mi rassegno agli interrogativi insoluti. Appena giorno chiamerò un elettricista perchè mi spieghi il congegno del giocattolo e domani sera, per precauzione, una buona dose di Neurobiol, se ancora non avrò fatto pace con Maria Teresa riacquistando così il diritto di giacerle accanto.
E' noto che gli spiriti attaccano vilmente la nostra solitudine.

II

Adesso che mi aggiro per la stanza di quest'hotel a "stelo dinamico", com'è scritto nel volantino, i cui progenitori si troverebbero a Marina City (Chigago), la faccia avvolta di rettangolini umidi, o meglio sfibrata dai fiotti d'acqua calda e fredda cui l'ho sottoposta, l'after-shave-emulsion spalmato sulle guance a strati così densi da nascondermi all'ingresso della cameriera, so per certo che la colpa è della mia natura, diciamo ipersensitiva, non degli amici organizzatori del Convegno. I quali, anzi, ospitalissimi, hanno scelto l'albergo di maggiore spicco, non solo della cittadina, ma di tutto il comprensorio e oltre, dato che l'ispirazione, come accennavo, risale a un modello-pilota americano.
Basti comunque l'ascensore a dimostrare l'originale struttura dell'edificio. A parte l'inconsueta forma ovoidale e la rivestitura di una specie di quarzo color ambra che dà l'impressione di volerti immergere in un bagno di raggi abbronzanti, esso è combinato in modo che il cliente non compia passi inutili. Una volta arrestata la corsa, un nastro mobile lo preleva con infinita grazia per deporlo nella stanza predestinata, senza alcun bisogno di introdurre la chiave nella toppa. Semplicemente, silenziosamente, per virtù, come le vere virtù, che non traspaiono.
Dopo ciò, l'ignaro che fin lì si è lasciato condurre con scarsa coscienza nel tragitto può considerarsi solo con se stesso, con le sue valigie, il pigiama, gli attrezzi da barba. Non perché nel chiuso della stanza manchino altri eccitanti motivi di distrazione, ma perché si è fatto tardi, il viaggio è stato tortuoso, gli amici organizzatori ci hanno sorpreso con una cena così assortita da sembrare una sequenza campionaria, la Relazione attende di essere ritoccata, e resta appena il grave desiderio di spogliarsi, buttarsi sotto le coperte e chiudere gli occhi.
Ma ecco che proprio in questo stolido buttarsi e serrare le pupille quando dovrei appuntirle, riaffiora la mia colpa, ovvero carenza di adesività al mondo che preme dall'esterno, se tale posso definirla. Appuntirli preliminarmente sul letto a una piazza che qui diventa una culla gigantesca, di dimensioni ellittiche, con certi ganci cromati alle pareti che non permettono di dondolare come la sua conformazione pur farebbe ritenere, e assicurarmi palpando che il materasso non sia di gommapiuma e le lenzuola abbiano un sufficiente grado di porosità, giacché conosco troppo bene la disperata tensione dell'epidermide a contatto di un tessuto eccessivamente levigato, la cupa ribellione dell'apparato osseo nell'avvertire sotto la schiena la leggerezza, l'elasticità pneumatica, comunicativa di un angoscioso senso di impotenza al legittimo affondare del corpo (del suo peso specifico, intendo). Ciò tuttavia non deve far credere che l'opposto di siffatta stilizzazione sia assoluta garanzia di buon riposo. Non dimentico talune notti austriache, particolarmente di Innsbruck con quella incapacità di distinguere, anche dopo le spiegazioni dell'albergatrice, che uso fare delle lenzuola che sfuggivano qua e là dal gonfio talamo, dei copripiedi che avevano la vastità delle coltri e coltri che alla minima virata su un fianco se ne scendevano a slavine per le pendici, e insomma bramando un amplesso prima di inoltrarci nel sonno, si correva il rischio di abbracciare un mastodontico piumino sotto cui soffocava la timida compagna.
Consapevole dunque del valore che son solito attribuire al giaciglio, avrei dovuto insistere per una diversa sistemazione, per quanto l'ordinamento dell'hotel non lasciasse presagire una seria alternativa. Ma, alla fine si poteva tentare!
Dopo, a notte alta, una sorta di pudore mi avrebbe trattenuto dal chiedere quello che con ogni probabilità non avrebbero saputo darmi: il rustico al posto del liscio, la semidurezza o anche la durezza totale al posto della carezzevole uniformità. Talchè, superato un breve dormiveglia, le membra, come era da prevedersi, hanno cominciato a scrocchiare dal dispetto, e proprio mi pareva di sentirle come una torma di lumache che si sveglino nel loro guscio. Non soltanto la gommapiuma della qualità più scattante, sotto le natiche, non soltanto le lenzuola di uno scivolo marmoreo, da pelle d'oca a percorrerlo con i polpastrelli, ma il cuscino, diosanto, il cuscino d'una fibra sconosciuta al mio tatto, viva, attiva!
Rimedi in tal caso non esistono, i cosiddetti tranquillanti a nulla giovano trattandosi di reazioni molto periferiche, pressoché indipendenti dai centri nervosi.
Pazientemente mi tiro su, accendo il lumino, più simile in verità a una cellula fotoelettrica, sbircio l'orologio e mi avvedo con rammarico che son passate le tre. Stordito, gonfio d'aria condizionata, metto i piedi a terra, infilo un paio di calzini, i più invernali che trovo nella valigia, e isolo per quella via le estremità, soprattutto gli alluci esposti al terribile impatto delle lenzuola; poi rovescio i risvolti delle maniche e riparo le falangi dal rischio di slittare a nudo.
Ma, prima di affidarmi a questo vecchio stratagemma, ci sono due operazioni da compiere, di non minore importanza: afferro una coperta e la stendo con perizia tra materasso e lenzuolo, tanto da creare un principio di intercapedine, un falsopiano; quindi mi metto a cercare nel bagno un asciugamani che di solito è spesso, spugnoso, capace di evitare la presa diretta con la fibra attivizzata del cuscino.
Questa volta, però, il pezzo spugnoso che mi occorre non c'è. Vedo, sì, allineati sulla sbarra cinque sei rettangolini di varia grandezza, ma candidi e rosacei, del brillio dei chicchi di riso, soffusi di amido o che, e guai a toccarli, ché appartengono alla medesima razza del guanciale: fibra viva, fibra attiva da scongelare! Sempre più desto e col timore di svegliarmi del tutto, metto a soqquadro la stanza da bagno, punto il lumino fotoelettrico in ogni angolo, in ogni cubo, a parallelepipedo che abbia l'aria di un mobile, di uno scrigno, ed ecco finalmente teso nel battente della scarpiera, un drappetto insolito, lavorato all'uncinetto, sulla cui funzione non potrei giurare né adesso né mai, ma d'una trama domestica, non restia al mio tatto.
Lo sgancio con somma facilità (è la caratteristica dell'Hotel dove, tra l'altro, pare non esista un chiodo ad antica capocchia), torno a palparlo, mi convinco che non è nylon o dralon o lilion, lo distendo sul guanciale, noto con soddisfazione che lo comprende quasi interamente, e più tranquillo, anche se rannicchiato, rattrappito, i piedi compresi nei calzini invernali, le palme ritorte nelle maniche del pigiama, torno a coricarmi.
Grazie al cielo, il drappetto agisce; se incrocia la barba, le resiste ottunde il mio orecchio e ottunde la vitalità del cuscino. Mi par di sentire addirittura un gemito soffocato nelle viscere del guanciale, sarà una suggestione, ma non importa; le membra, questo si, adagio adagio si rassegnano al compromesso, collaborano con patetica immobilità alla ricerca del sonno:.
Quello che sia accaduto fra le tre e le sette, quando la portineria mi suona per la sveglia, non saprei. In un certo senso ho dormito, anche se con l'orribile impressione di essermi cacciato in un loculo, in attesa che qualcuno mi tirasse fuori, e l'altra, più concreta, di aver subito alle guancie una strana aggressione, qualcosa come un trattamento a secco.
Mi alzo di scatto ripassando con poco profitto il dorso della mano sulla pelle. Non riesco a capacitarmi. Mi porto davanti a uno dei numerosi specchi della stanza e, senza rifletterci, comincio a prendermi meccanicamente a schiaffi. Non per furia autolesionistica, come si potrebbe sospettare, per punirmi di alcunché, (nell'inconscio, forse, ma sarebbe un altro
discorso), bensì per cercare di correggere con l'unico mezzo fornitomi dall'istinto i danni del drappetto. Che la faccia di un individuo debba ridursi a una specie di opus reticulatum delle millenarie costruzioni romane per le velleità di un albergatore che si ispira a Marina City! esclamo furibondo, riprendendo a schiaffeggiarmi, ché altro non rimane, a pizzicottarmi, a stirarmi gli zigomi. Ma ottengo solo d'incendiare follemente i vasi sanguigni.
Mi dirigo avvilito nel bagno, apro i rubinetti e immergo nel lavandino i rettangoli di tessuto imbalsamati, li strizzo, li strozzo e li applico caldi e freddi sulle guance; poi apro il necessaire, estraggo il barattolino del dopobarba, mi spalmo abbondantemente fino al collo. Dubbioso, però, sull'efficacia di un qualsiasi intervento singolo, mi sguarnisco subitamente della crema, mi lavo strofinando contro verso, reimmergo gli asciugamani nell'acqua gelida e bollente, mi rispalmo, e via daccapo, lavatura, tamponatura e ripasso di crema, in un circolo quasi perfetto.
Mi accorgo intanto che il giorno, sia pure zuppo di pioggia, dilaga dietro le serrande, qualche personalità deve essere morta in questa cittadina perché una campana di prima classe lo rintocca, vorrei dire a festa; la cicala sul comodino frinisce. So già che è uno degli amici organizzatori che affabilmente sollecita; i congressisti sono tutti pronti o quasi nella hall, i lavori debbono seguire un preciso calendario se non si vuole che... Gli dico di s'i, un attimo... uno stupido inconveniente. Vorrei proporre di rinviare la Relazione alla seduta pomeridiana, ma non oso, né spiego. E rientro, con quella faccia che lievita, nel bagno, dinanzi allo specchio d'una indefinibile luce albina, a martellarmi di after-shave-emulsion, di pannicelli caldi e freddi, di schiaffettini ben assestati, ben calibrati, in punta di dita e a ritmo di terapeutico massaggio perché, senza offesa della mia e altrui dignità, possa presentarmi in sala a sciorinarvi il mio incompiuto messaggio.


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