§ L'INEDITO

Storia di Lecce




Vittorio Bodini



Dell'età preistorica s'è trovata testimonianza nella Grotta Romanelli che presenta molti elementi importantissimi sull'antichità dell'uomo. L'età preistorica ha nel Salento una testimonianza importante nella Grotta Romanelli (scoperta da Paolo Emilio Stasi, credo a principio del secolo), che mostra segni di gran valore sull'antichità dell'uomo. Nei pressi della grotta furono trovati i resti di carbone e ceneri attestanti l'uso di focolari. E' fra le più antiche d'Italia - dopo la caverna dei Balzi Rossi. Remotamente avranno abitato la regione gli ltalioti, a cui risalirebbe l'uso di specchie e di trulli. Invasioni di japigi, messapi e calabri - popolazioni che vengono secondo alcuni da Creta secondo altri dall'Illiria - da una parte e dall'altra. Case recenti di mura con pietroni megalitici si sostituiscono alle primitive costruzioni italiote. Il più antico monumento di Lecce è l'apogeo messapico ritrovato nell'atrio del palazzo Guarini, via Palmieri. Secondo una iscrizione messapica è dedicato a Eczena di Pirro. Leggenda: la città sarebbe stata fondata da Malennio. Il greco Idomeneo - re di Creta - tornato a Creta dopo la guerra di Troia e non potendovi rimanere per rivolta del suo popolo sbarcò qui e tolse in moglie la figlia di Malennio.

ROMA
C'è Lupiae e Rudiae, due paesi vicinissimi e l'uno è sobborgo dell'altro. Uniche testimonianze dei primi tempi della conquista romana:
a) Quinto Ennio, nato a Rudiae nel 239 a.C. Dice; " Noi (io) siamo Romani che fummo prima Rudini".
b) l'anfiteatro o i due anfiteatri (non s'è ancora deciso se quello piccolo è greco o romano). Il grande è del II secolo dopo Cristo. Più tardi, l'imperatore Adriano fondò il porto coi suo nome sull'Adriatico. Qui sbarcò (...) che convertì Sant'Oronzo, patrono leccese, che unitamente ai suoi amici o famigli Giusto e Fortunato ebbe la testa mozzata sotto Nerone.
Stemma della città - La lupa coi leccio è stemma che appare in epoca normanna, cioè dopo il 1000. La lupa, vuol rappresentare un ricordo delle antichità romane della città. Mia ipotesi: lo stemma sarebbe stato coniato, semplicemente, a modo di rebus, per significare i due nomi di Lecce, l'antico e il nuovo: Lupiae e Litium. (Tanto più se lo stemma comincia ad apparire in epoca normanna, cioè quando è sopraggiunto da poco il cambiamento di nome, che dovette aver luogo verso il 1000).
Dopo la caduta di Roma
Non si sa nulla. Certamente si saranno susseguite le invasioni barbariche. Come tutto il Sud fu soggetta al dominio bizantino. La città decadde, la popolazione diminuì. Nel 542 si trovò nella zona della guerra fra i Bizantini e i Goti di Totila, che la saccheggiò nel 542. Nel 544 fu donata da Giustiniano alla Chiesa insieme con Gallipoli. La città fu sottoposta a paurose gravezze fiscali contemporaneamente da parte del governo imperiale bizantino e da parte della Chiesa. Nel 620 cadde sotto i Longobardi con Taranto e Brindisi, incorporati nel ducato di Benevento, il resto del Salento restò alla Chiesa. Nel 773, per sconfitta dei Longobardi, ritornò alla Chiesa. Furono edificate chiese e conventi, istituiti molti ordini religiosi. Sulle coste salentine si andò abbattendo in questo tempo la furia delle irruzioni moresche.

I NORMANNI (dal 1000 al 1200)
Di passaggio per l'Italia meridionale intervengono nelle guerre fra Greci e Saraceni. Sono vari nuclei, uno dei quali - la stirpe degli Altavilla - occupa la Puglia e la divide in 12 baronie con Melfi metropoli. Un Goffredo di Altavilla prende il nome di primo conte di Lecce nel 1055. Lotte fra i suoi nipoti Ruggero e Belmondo, al quale rimarrà il principato di Taranto. Finchè si cerca di coincidere la storia di Lecce con la storia personale di questi insigni avventurieri dal sangue irrequieto che cercano la gloria su campi più illustri che non sia quello di ben amministrare questa città piantata qui non si sa bene per quale ragione. Non saprei dargli torto: anche se molti di essi son poi finiti miseramente. Son pochi i conti normanni o francesi che vissero nella contea: qualcuno non la vide neanche - come oggi farebbe un ricco proprietario con una lontana tenuta toccatagli in eredità. La maggior parte di essi scendevano a Lecce dopo qualche rovescio di fortuna: a finire qui, meditando gli errori commessi, oppure a restaurarsi coi riposo finchè non gli ritornasse la voglia di ricominciare a correre avventure. Rotolavano qui dopo avventure qualche volta ingloriose. Dov'è che poteva andare a finire il duca d'Atene dopo la cacciata da Firenze. (E pensare che abbiamo visto tante volte quel quadro di Stefano Ussi: il duca seduto su un seggiolone, affranto: tutt'intorno ... ). E c'era tante volte venuta la curiosità di sapere dov'è che poteva essere andato a finire quell'uomo ormai battuto, cacciato fuori dal gioco della storia. Ma ora lo sappiamo: a Lecce, naturalmente. E Maria d'Enghien che fu la sola a occuparsi degli affari della città non lo fece se non dopo avere accarezzato l'ambizione d'essere regina ecc. "Se moro, morrò regina". Nella dominazione spagnola, poi borbonica, la città trovò ciò che voleva, ciò per cui era nata: il quieto vivere. Confinata nel fondo dello stivale, dove le rivoluzioni e i rivolgimenti arrivano in ritardo, come minestre fredde quando non sono più in grado di suscitare passione di novità - e lo si vede dai tempi attuali, nei quali è il solo Comune d'Italia che abbia un sindaco monarchico; per di più non atta a difendersi perchè circondata da una pianura aperta da ogni lato: questa coscienza che la storia non dipende da lei, e che data la sua posizione non le resta da fare altro che aggregarsi passivamente, trovarono il loro clima ideale nella tranquillità delle dominazioni. In quel tempo fiorì la città, veramente fiorì nella docile materia della sua pietra: l'ozio e il, capriccio si sbizarrirono in centinaia di chiese e di palazzi. Questo capitolo che il nostro storico intitola "Periodo antistorico spagnolo" è l'unico in cui la città abbia vissuto in armonia con la storia. Di contraddizioni simili son lastricate le sue strade. Nel '60 vi fu a Lecce un solo arresto. Le notizie qui arrivavano sempre in ritardo. Una notte, la città dormiva, una leccese tornò in città con la notizia che Garibaldi era sbarcato in Sicilia e che l'aveva già quasi tutta occupata. A Lecce ancora non se ne sapeva nulla. Due guardie lo fermarono e lo portarono al corpo di guardia. Allora arrabbiato di questa assurdità cercò di sciogliersi dalla stretta e disse: Sangue di Dio! Così fu arrestato per bestemmia e rifiuto di ,obbedienza. In quel tempo i garibaldini Balconi fecero una cosa veramente empia; rovesciarono la statua d'un grande re che era nell'attuale piazza Sant' Oronzo: era la statua del re Carlo V, a cui fu dedicato anche un arco di trionfo a Porta Napoli. Carlo V non venne mai a Lecce come qualcuno potrebbe arguire dall'arco di trionfo che gli fu dedicato all'ingresso di una delle sue porte. Mai venuto, e non ha mai avuto a che fare con Lecce. Così nell'attuale piazza restò incastrata l'autorità di Sant'Oronzo. A non essere per l'anfiteatro romano chi l'avrebbe detto che questa città fosse così antica. Anzi di anfiteatri se ne scoprirono due, uno più piccolo, e l'altro così grande pensarono di proseguire gli scavi si accorsero con orrore che per tirarlo completamente alla luce avrebbero dovuto demolire tutto il centro cittadino. Lasciarono lì. Ora c'è uno spicchio di gradinate non abbastanza grande da suggerire l'idea della grandiosità dell'insieme, non così piccolo da non dare fastidio, essendosi per sua colpa scombinata la piazza principale e la civica abitudine della passeggiata serale in piazza. Da quel momento-perduto quel centro di gravità -E' decaduto negli abitanti ogni sentimento di appartenenza ad un corpo civico. L'ultimo segno i colombi, già spaesati, invitati da quel buco di dente cariato. Che razza di idea avranno avuto a fondare una città in questo punto? Si direbbe che l'abbiano scelto come si sceglie un nascondiglio: vediamo dov'è che nessuno s'immaginerebbe di cercarla. Perchè nessuno ci pensasse occorreva evidentemente che non vi fosse un solo motivo perchè sorgesse in quel punto una città. E così era di fatti. Con tanta costa, non è sul mare; con tanta campagna fertile, è nel punto più pietroso. Di questa speculazione della topografia inutile non poco è passato nell'indole degli abitanti, la cui vita si svolge come nella provvisorietà d'una sala d'aspetto d'una stazione, dove non si possono stabilire delle relazioni stabili, ed è inutile sprecare sentimenti diretti a gente destinata a prendere un altro treno. L'astuzia, il trucco della topografia valse a risparmiare a questa città le devastazioni e i saccheggi che si succedono dopo la caduta dell'impero romano nelle altre città, nelle città vere. L'unica eccezione: gli Ostrogoti di Totila che la trovarono per caso sul loro cammino. E la spianarono (536). Di quanto sia storicamente artificiale questa città, basti considerare questa circostanza: verso la fine del X secolo o il principio dell'XI essa cambierà nome. Come può cambiar nome una città a un tale punto della storia? quando ha già una quindicina di secoli di vita? Durante la dominazione normanna - e cioè fra il 1000 e il 1200, si affermerà il cambiamento del nome, e in più farà la sua apparizione lo stemma della città. Tale stemma è composto d'una lupa ai piedi d'un leccio fronzuto. Molte interpretazioni sullo stemma, la più comune, e soddisfacente la vanità dei liciensi, è che la lupa costituisca un richiamo orgoglioso alla romanità della città, che nella lupa si sia inteso di riaffermare il vincolo coi nipoti di Romolo e Remo. Sono attendibili tali sentimenti in una popolazione che poco tempo fa ha potuto con indifferenza lasciare il nome vecchio e prenderne uno nuovo, come se si trattasse di cambiarsi di camicia. Non so se questa interpretazione sia mai stata avanzata. Proponiamo l'ipotesi che lo stemma altro non sia che un rebus per ricordare i due nomi, vecchio e nuovo. Così la lupa dovrebbe leggersi Lupiae, il leccio Litium o Lycium, cioè Lecce. Una storia falsa non poteva avere che uno storico falso. La storia dello storico falso è delle falsità storiche di Lecce la più singolare, forse la più maliziosa - e con tutta la tristezza che ha la malizia vista dall'altra parte. Tanto più che questa storia dello storico appartiene al nostro tempo -può controllarla chiunque. Al principio del secolo uno scrittore di L., uomo che fra le sue qualità conta abbastanza talento ma non, per suo danno, l'indipendenza economica, dubitando che una storia di L. da lui scritta avrebbe mai potuto interessare i suoi concittadini alla cui naturale malevolenza la sua mancanza di denaro annullava anche quei meriti di studioso che poteva avere, riuscì a far pubblicare quell'opera gabbandola per l'opera d'uno storico tedesco, Herbert Krass, che egli aveva tradotto. Il successo incontrato dall'opera indusse qualcuno a ricercarne l'autore. Se ne provò l'inesistenza. Ci fu uno scandalo, e l'autore fu smascherato e ingiuriato per la sua truffa. Non si pensò invece a complimentarlo per essere stato molto più che un semplice traduttore di un'opera che avevano poco prima lodato. Questa città - a rigore - non consente una storia: solo una cronaca. Ma invaghito dell'illustre il nostro storico è portato a celebrare quella scarsa materia che si eleva di un po' sulle cronache (da ciò il fastidio del tono celebrativo), ed eccolo entusiasmarsi per il periodo in cui Lecce fu capitale di contea, sotto i Normanni, sotto i Brienne e gli Enghien, e da ultimo Giovanni Orsini del Balzo, ed arrestarsi, invece, alle soglie della dominazione spagnola, indispettito dall'anonimia in cui il governo accentratore degli aragonesi avrà gettato politicamente questa città. Ma quale fu l'impostazione politica della Contea? Continuò a non aver storia anche in quei secoli e le vicende dei suoi feudatari non...

(L.)
L'opera più candidamente ispirata al tempo l'ho veduta sul muro d'una fabbrica nuova verso la via di Brindisi. Era un pomeriggio d'i fine inverno, ora favorevole alle scoperte malinconiche.
Al colore fresco del tufo squadrato da poco, la mano dell'imberbe cronista s'era come esaltata, e n'era nato un grande affresco tra messicano e bizantino a punta di carbone da cucina. Vi erano raffigurate per la lunghezza del muro tutte le bambine del quartiere comprese fra i sette e i dieci anni, che doveva essere su per giù l'età dell'artista. I riccioli neri parevano crepitare sulle facce pienotte, ma l'incanto più grande era nei corpi, stilizzati in modo che sembravano tutte delle bottiglie di liquore e di colonia, con le testine per tappi. Difatti una curiosa avversione aveva impedito all'artista di rappresentare i piedi e le gambe delle sue contemporanee. Certo, erano tutte eguali fra loro, ma sotto c'erano i nomi. Non si poteva sbagliare. Ninetta, Anna, Mirella... e a una figurai ripetuto due volte per un'improvvisa smemoratezza: Maria Maria...E io dissi ridendo a Cesare Massa: - Ecco il nostro Campigli. Ma dentro di me pensavo a cose più elementari: quelle età, quella mano, il colore del tufo, qualche rumore in quell'ora spersa ai margini della città, e le tristi domande di don Jorge Manrique:

Qué se hicieron as damas,
sus tocados, sus vestidos
y sus olores?

(Che ne fu delle dame, delle pettinature loro, delle loro vesti e profumi?).


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000