Su Saverio Strati




Anita Chemin Palma



La condizione umana da cui prende l' abbrivio l'ispirazione di Saverio Strati si riassume tutta nel suo essere uomo del Sud, e specificatamente nel suo provenire dalla terra di Calabria. Questo non deve intendersi nel senso che il respiro dell'opera di Strati sia delimitato dalla sua realtà di meridionale, che questo sarebbe un modo parecchio semplicistico e folklorico di intendere la portata di questo scrittore, ma, più ampiamente, dev'esser inteso nel senso che le tematiche sulle quali Strati è andato successivamente focalizzando il suo interesse, nei vent'anni e più della sua attività letteraria, sono sempre riguardate a partire da un'esperienza umana nata e cresciuta sotto il segno della diversità culturale, economica e sociale del Sud d'Italia. Le pagine dello Strati più giovane sono le più profondamente permeate del ricordo della campagna calabrese, e l'aderenza costante della narrazione alla realtà potrebbe favorire l'inserimento dei moduli letterari di Strati nell'ambito del coevo neorealismo; ma, pur nella simpatia per la folla miserabile dei suoi personaggi e nell'indignazione che emerge sin dai primi racconti per le forme più degradanti di sfruttamento, sulle quali si è retta troppo a lungo l'arretrata economia agricola del Sud, è già presente in Strati quel distacco critico nei confronti dei valori della civiltà contadina che lo preserva completamente dall'equivoco populista di certo realismo di maniera o di certo neorealismo assai poco realista. Questo stesso distacco critico diventa, nelle prove più recenti e mature di Strati, lucida analisi delle arretratezze culturali che, assieme alle storture strutturali vecchie e nuove e alle colpe politiche più o meno consapevoli, contribuiscono a tarpare le ali al progresso del Mezzogiorno. Tuttavia, distacco critico, analisi razionale, confronto con nuove realtà e separazione anche fisica dalla Calabria non possono impedire che Strati porti nelle sue esperienze esistenziali, e nelle opere che ne sono trasposizione artistica lontana e al tempo stesso fedele, tutta intera la sua specificità culturale, come una lastra che le cose della vita possono incidere senza però farla venir meno: e la stessa denuncia politica, così costante e precisa nella sua produzione, trova i suoi momenti più persuasivi quando si radica nel vissuto di Strati. li passato di cui non ci si libera, quel Sud che "ti è dentro come un male inguaribile", non è qui un grumo di inconscio astrattamente determinato da una particolarità latitudinale, ma un'immagine sociale sedimentata negli anni dal sovrapporsi successivo della cultura familiare d'origine, irrigidita in un totalizzante sistema di obblighi e di sacrifici, di pregiudizi e di inibizioni, dell'esperienza di lavoro e della presa di coscienza politica che ne consegue, e infine dell'apertura a modi di vita ed a sistemi sociali diversi, che deriva dall'emigrazione. "Terrone", quindi, o "lazzarone", è colui il quale è stato respinto dall'assenza di prospettive della sua terra, che per responsabilità non sue non ha potuto operare positivamente dal lato politico, che, infine, dopo essersi immerso in una realtà del tutto altra rispetto a quella del paesello, vive un'identità percorsa dalle interferenze reciproche delle esigenze del nuovo e delle permanenze dell'antico, una condizione di spaesamento costante. Nei racconti meno recenti della bella raccolta "Gente in viaggio" e nelle dolenti scene infantili di "Tibi e Tascia", protagonista assoluta è la Calabria più aspra e terrigna negli anni dell'era fascista; eppure il regime è come un suono di fondo rispetto al tema principale, è la nuova mascherata di un'ingiustizia antica, che nei secoli ha creato l'arroganza impudente dei notabili e la fatica che abbrutisce dei contadini. Strati non appiattisce il quadro, al contrario sostanzia la portata collettiva della sua narrazione con la specificità individuale della storia di ciascuno dei suoi sfruttati, e sottolinea come accuse i guasti indotti dalla miseria nell'umanità dei suoi personaggi: la ruvidezza dei rapporti familiari, la ristrettezza e l'umiliazione morale, l'infanzia triste di bambini nati già vecchi, la rinuncia alla propria dignità e la sottomissione avvilente ai potenti, il petulante, stizzoso, inutile lamentarsi delle donne:

"Lo introdusse nello studio del maresciallo.- "E' permesso?" - fece il contadino sulla soglia della porta. "Entra!" Avanzò col berretto in mano. Il maresciallo era all'impiedi accanto alla scrivania.- "Ebbene?" - disse, aspro.- "Sono venuto per il verbale della quercia!" balbettò il contadino.- "Ah! Tu sei quello della quercia?" -grugnì il maresciallo, alto e curvo nelle spalle, la camicia nera e il resto in grigioverde.- "Signorsì" -- "Non lo sapevi che non potevi tagliarla?" - "Non lo sapevo, vossignoria!" - fece a fil di voce il contadino. - "Se lo sapevo, non la tagliavo. Non voglio cose stolte, vossignoria. " - "Animali che non siete altri, in questo paese! Quando non sapete una cosa, chiedetela, no?" Emilio Barca provò un brivido in tutto il corpo.- "Ora che hai fatto il male, vieni perchè io ci passi sopra, vero? Non posso fare più niente; e se lo potessi, non lo farei, perchè voialtre teste dure solo così vi cuocete. " - "Vossignoria, dovete avere cuore... lo non..." - e qui la lingua s'imbrogliò, e il cervello non gli forniva altre parole e quelle che sapeva prima chi sa dov'erano andate a finire. Pensava, vedendo che il maresciallo lo trattava a quel modo, che forse la serva non gli aveva detto niente del gallo.- "Voi fate come a casa vostra -continuò il maresciallo. Il contadino aprì la bocca. - "Signorino" - e ora gli veniva un altro discorso a cui prima non aveva pensato. - "Signorino caro, l'altra sera ho visto i carbonai e mi hanno detto: - "Emilio, perchè non ti vendi la quercia?" -. - "Non intendo venderla" - dico io - "perchè mia moglie si mette a fare una Babilonia. E poi fa ghiande e ghiande, la quercia." "Ti diamo centocinquanta lire." "Macchè!" - dico io. E loro sì e io no, specialmente per mia moglie che sapevo che non era d'accordo e se sapeste che guerra e che pianti ha fatti!..." - "E basta con queste chiacchiere!" -gridò l'altro voltandogli le spalle. - "Si fa un esempio che servirà per sempre e a tutti. Sono le solite storie di tutti i giorni. Saresti dovuto venire all'ufficio e non qui. Te ne puoi andare." Emilio non aggiunse altro. Se ne andò col cuore aspro come un limone; per quella notte non dormì, nè sua moglie. Dopo un lungo pensare, decisero di rivolgersi al podestà che col maresciallo erano cricchi e crocchi.- " Va bene!" - disse il signorino a Emilio, il giorno dopo. - "Però vedi che c'è quel pezzo di terra da spietrare. Lo spietri e lo semini, nel prossimo novembre, Alla contravvenzione non ci pensare: me la vedo io." - "Grazie, signorino! Non mi potrò mai dimenticare di voi!" - fece Emilio. - "E mandami la tua ragazza per qualche bombola d'acqua; in questa casa ce nè tanta necessità" - disse il podestà.- "Graziella è ai vostri ordini, signorino!" - fece Emilio, mettendosi il berretto in testa, e uscì da quella casa, col cuore amaro come il fiele. Se morsicava pietre, le avvelenava."
La quercia, 1953, in "Gente in viaggio")
"Questa frase della madre gli faceva molto male. Lasciò la mano della madre e divenne più pensieroso che mai. Lei non sapeva rispondere alle sue domande! A chi si poteva rivolgere? A chi poteva parlare con la stessa franchezza e con lo stesso diritto? Chi gli poteva spiegare tutte quelle cose che aveva in testa? Col singhiozzo in gola e come parlando a se stesso, disse:- "Vorrei avere tanti libri, per leggerli. Leggerei dalla mattina alla sera, senza mai stancarmi, per imparare e sapere com'è fatto il mondo." Mariangela lo guardò e, senza capire l'importanza del discorso del figlio e il grande desiderio da cui lui era dominato, dopo qualche minuto di silenzio, disse:- "Non hai tempo da perdere. Tu presto dovrai incominciare a lavorare... Oggi è venuto don Carmine alle olive, col fucile in spalla e a cavallo... Ha tutto quello che desidera questa gente, tutto, Dio ingrato!... Mi feci coraggio e gli chiesi se ti volesse prendere, lui che ha pane e posto per tutti, se ti volesse prendere nel suo palazzo, per fargli dei piccoli servigi... Credo che in quella casa ti troveresti meglio che andare a fare il pastorello alla montagna. Mangeresti delle buone pietanze, ti darebbero le scarpe, ti potrebbero vestire decentemente e staresti tra gente perbene... Lui mi ha risposto: "Vediamo, Mariangela, vediamo... Tu sai che in quella casa non mancano mai i servi, ma vediamo, Mariangela"... Ora che ho mosso questa palla, se mi sarà possibile, il giorno di Capodanno, dopodomani, andrò a trovare la signorina donna Maria, e le voglio dire la stessa cosa ... Lei è una pia donna e se può ... Tu ci andresti?".- "Farò quello che piace a te" le disse Tibi, ed abbassò la testa e aveva voglia di piangere. Non sapeva perchè, ma aveva voglia di piangere. - "Sono in cerca di una ragazzetta, quelli di don Carmine, per don Giacomino, il giudice che è a Locri" -continuò Mariangela. "Pare che si vogliano rivolgere a Gianni Ventura per chiedergli Tàscia, che è tanto sveglia."
Tibi non seguiva più il discorso della madre. Le domande che le aveva rivolte gli rigurgitavano in testa, più delle cicorie che bollivano nella pentola. Solo che le cicorie si cuocevano, ma le sue domande rimanevano senza risposta, e gli pesavano, diventavano delle montagne enormi, e pur dentro aveva una grande armonia che gl'ínteneriva il cuore. Mariangela sospirò.- "Mi sento tanto stanca!" esclamò, Sospirò un'altra volta, in modo profondo, come chi è veramente stanco per troppo lavoro. - "Questa vita non finisce più, non finisce più!" -fece crollando la testa. Tibi come se fosse solo. Il discorso della madre non lo toccava, nè avvertiva la stanchezza di lei. Aveva un gran tormento in corpo. Rialzò le ginocchia presso il petto, sulle ginocchia mise le braccia e sulle braccia piegò la testa.- "Ho sonno!" - disse.- "Non vuoi mangiare?" - gli chiede la madre.- "Non ho fame. Ho sonno" - ribatté Tibi; e quella sera aveva l'impressione che sua madre fosse molto lontana, aveva l' impressione che all'infuori di un tozzo di pane, sua madre non avesse altro da dargli; mentre lui aveva bisogno di molte altre cose assai più importanti del pane: di libri, dispiegazioni, di discorsi. Stette con la testa piegata sulle ginocchia, per un bel pezzo, e le idee e le domande si accavallavano una dopo l'altra."
(da "Tibi e Tàscia", 1959)

Nell'esistenza degli sfruttali, che si snoda come un nastro magnetico sempre bigio e uguale a se stesso, il tempo non diversifica un'età da un'altra, una situazione da un'altra, ma è solo misura di quanto i potenti riescono a spremere dalle forze di chi lavora. li tempo dei poveri e delle donne non ha valore, e il loro stare nel tempo significa essenzialmente rincorrere le incombenze che un sistema sociale iniquo, per diritto o per sopruso, ha fatto piombare sulle loro spalle:

"Alle sette in punto, attaccavano a trasportare pietre, in silenzio, uno dietro l'altro. Ognuno doveva metterla da solo, la pietra, sulla spalla. Quando era piccola, il capocantiere gridava e qualche volta toglieva anche un'ora di lavoro, per punizione. Gregorio temeva che anche a lui avrebbe tolto un'ora di lavoro. Non gli piaceva perdere la sua fatica, e cercava di fare quanto gli altri. Ma strappava la camicia per lo sforzo; si graffiava anche la pelle. C'era un ragazzo robusto e il più forte di tutti, che gli consigliava di non sbudellarsi a quella maniera, perchè il capocantiere era suo compaesano, perché dormivano e mangiavano nella stessa casa. Perciò non gli avrebbe gridato né certo gli avrebbe tolto un'ora di lavoro. Succedeva spesso che qualcuno si nascondesse, per un viaggio o due, ma c'era sempre la spia a cantarsela. Gregorio non parlava. Il capocantiere lo rimproverava che dagli altri le sapeva, le cose, mentre da lui non appurava mai niente. Chinava la testa e pareva che non sentisse. La sera andavano operai dal capocantiere e giocavano a carte; poi mandavano Gregorio per il vino. Andava alla cantina, che era in fondo al paese, e, ritornato col fiasco in mano, sedeva allo scalino. Era sfinito. Desiderava coricarsi, ma non poteva. Stava raccolto in se stesso come se avesse freddo e pensava che sarebbe bello se fosse lontano da quella casa, per non vedere e non sentire gli altri, se fosse con sua nonna e con suo padre."
(I calzoni di Gregorio, 1954, in "Gente in viaggio")

Già nei racconti di "Gente in viaggio" si affaccia il tema del distacco. In viaggio, innanzitutto, per una maledizione o per rabbia, sono i "lazzaroni" che si sono sradicati dalla terra ostile e dalla giornata angusta, alle quali sono nati, e che hanno affrontato la precarietà dell'andare e della destinazione stessa emigrando dal Sud verso le città del Nord. Il tono preponderante della narrazione è ancora la nostalgia, la voglia di ritorno, seppur sempre venate dalla coscienza critica delle molte deformazioni che permangono nell'intero sistema sociale dell'Italia del Sud.

C'erano tanti "paesani" con valigie e scatole tra le gambe. Andavano in patria a trascorrervi la Pasqua. il direttissimo arrivò in orario, zeppo di operai che venivano dalla Germania, dal Belgio, dalla Francia.- "Un posto, prendimi un posto, paisà" - cominciarono a gridare quelli di sotto; e lanciavano sciarpe, giornali, berretti. Il cuore mi si stringeva all'idea che sarebbero stati in Italia il giorno dopo. Che avrebbero visto il sole, la loro casa, il paese Ma mi accorsi che l'altro, appena il treno si fu mosso, si asciugava gli occhi.- "Ciao, paisà" - gli dissi, mentre gli passavo davanti.- "Salute"- "Non vai giù per le feste?" Scrollò la testa. Mi misi al suo fianco. Scendemmo le scale e facemmo il sottopassaggio gelido, tetro. uscimmo sull'Aare.- E' un fiume con le scatole, questo" - dissi - "Terrone anche tu?" - "Sì. E tu?" - "Calabria" - disse. -"Dove lavori?" - "Bracciante in fabbrica. E tu?" -"Ad Aarau, con i muratori" dissi. - "Meglio per te che lavori in fabbrica." - "Così!... Il lavoro è lavoro." I cigni si muovevano lenti e pettoruti nel fiume gonfio di acque.- "Si farebbero ortaggi, laggiù, con quest'acqua!" - "Non vai a casa per Pasqua?" - gli chiesi.- "Troppo lontano... Troppo spesoso. Non sono andato nemmeno per Natale. E tu?" - "lo ho la moglie qui. Ho anche dei fratelli." - "Sei ancora tanto giovane" mi disse, fissandomi. - "E' da molto che ti trovi in Svizzera?" - "Finito il militare, son partito... Laggiù non dànno lavoro. Ti mandano via, lo sai. E tu da quanto sei qui?" - "Dal '52. Fai il conto tu stesso. Di dove sei?" - "Potenza. E tu?"- "Melissa di Catanzaro. Mi chiamo Gianni. Gianni Palaia di Melissa..."
(Gianni Palaia di Melissa, in "Gente in viaggio")

Solo in "Noi lazzaroni", però, il viaggio assume compiutamente il significato di irreversibile distanza prospettica che l'io narrante pone fra sè e la propria realtà d'origine, e che gli consente di approfondire con lucidità l'analisi della arretrata società meridionale e di staccarsene definitivamente. Strati non subisce il fascino mitico della cultura contadina, ne rifiuta anzi con decisione il retaggio di fatalismo e di propensione alla rinuncia. Tuttavia, proprio in "Noi lazzaroni" emerge l'umanissima ambivalenza di questo rifiuto, che è completo nelle motivazioni razionali, che è anche sentito come tappa imprescindibile per lo sviluppo del Sud dalla coscienza civile del democratico Strati, ma che non riesce a troncare del tutto le radici che l'uomo del Sud Strati si porta dentro come un'eco profonda. "Noi lazzaroni" è, in altri termini, il romanzo della condizione umana dell'emigrato, non più "terrone", mai del tutto integrato nella nuova realtà, partecipe di due culture diverse in nessuna delle quali si può riconoscere completamente, e nessuna delle quali lo prende. La "meridionalità", allora, non è più soltanto la vecchia questione del sottosviluppo italiano, ma anche un problema attuale di straniamento, le cui coordinate sono ancora tutte da ricercare. Su questo, si inseriscono poi gli altri temi del romanzo: la delusione politica per le promesse del dopoguerra tradite nei fatti; la sofferta indignazione per il razzismo, neanche tanto sottile, delle evolutissime popolazioni mitteleuropee; la rabbia per quel Sud che dovrebbe trovare in sè le forze per cambiare, e invece si limita a seguire, quasi per forza d'inerzia, gli impulsi importati dall'esterno verso mutamenti più superficiali; il ricordo ricorrente del padre e dei suoi insegnamenti.

"Comunico ad Attilio che domani parto per il paese. Da un mese, gli confido, sono dominato dalla smania di andarci. Per salutare i miei, per rivedere i luoghi del passato, per riabbracciare i vecchi compagni d'infanzia che ho perso di vista dai tempi dei tempi. Sono anche curioso, gli dico, di vedere cos'è avvenuto in quell'ambiente durante questi anni.- "Non ti fare illusioni," è peggio di un tempo" - dice Attilio. Attilio odia lavorare in Svizzera. Soffre più di me e per il clima e per la gente. -"Ma a tornare laggiù che ci farei? Vomeri? Picconi? Là non si può vivere, e qua si è prigionieri... legati, incatenati" - ripete con rabbia sorda. ( ) Abbiamo avuto giorni neri nei mesi scorsi a causa del referendum contro l'inforestamento. I nazisti ci mostravano i pugni, sputavano a terra. Ci furono legnate. Qualche nostro connazionale è stato selvaggiamente picchiato. L'opinione pubblica è incapace di pietà, di amore, di commozione. Ma si sentono la coscienza a posto, gli svizzeri: hanno fondato la Croce Rossa. Nessuno può immaginare cosa noi sopportiamo in quel Paese. I giornalisti raccontano frottole. Sono più preoccupati di scrivere un bell'articolo, per fare buona figura con il direttore e per dimostrare a se stessi che padroneggiano la lingua, che di cogliere il nodo della questione. Che vadano a vivere nelle baracche, nei lager di Baden, in quattro anime in una stanzetta di tre metri per tre. Non si è liberi di fare un rutto in tranquillità, non ci si può concentra re nei propri pensieri. Se togliete questo piacere a un lavoratore, non so proprio cosa gli rimanga d'interessante nella vita. Che vadano quei signori che scrivono con tanta sapienza di noi a vivere nei lager, dove non si può leggere neanche il giornale, perché magari il vicino di letto ha voglia di fischiettare o di strimpellare la chitarra; o magari si mette a parlarti della famiglia lasciata a Paternò o a Cerignola o a Cutro alla quale deve spedire tre quarti di quanto guadagna. Non vorrei neanche sfiorarlo quest'argomento. Sono tali il groppo e l'ira che mi premono sullo stomaco, che a momenti potrei ammazzare certi individui per i quali è facile parlare di libertà, di famiglia, di patria, visto che guadagnano milioni al mese sulla pelle di noi che veniamo considerati feccia umana, sudici rognosi, razza inferiore. Che salgano i governanti e i sapientoni del nostro Paese sulla Freccia che parte da Reggio e da Siracusa con quattro pani nel sacco, la camicia e i calzoni rattoppati, senza nulla di certo da vanti e scendano a Basilea, a Colonia, a Strasburgo, a Bonn, in Olanda, in Belgio, in Svezia dove si parla una lingua più oscura dell'ostrogoto e dove è possibile che t'ímbatta in delle carogne che sono pronte a usarti come un attrezzo che appena non gli è utile buttano lontano. ( ) Bisogna che scriva un poco di cartoline agli amici. Sono così abituato alla loro compagnia e a fare certi discorsi, che ora non mi ci adatterei più a quest'ambiente. Il paese è ancora immerso nel silenzio. Più tardi si animerà. Si sentirà il vociare della gente. Gli schiamazzi dei più operosi che giocano al bar arrivano fino a noi. Giocano per ore di fila, come se compissero un lavoro molto impegnativo. I più sfaticati, poi, hanno una rabbia in corpo che spaventa. Parlano a voce alta sino alle due del mattino e si lamentano del governo che non fa nulla per loro, parlano male dei settentrionali che li sfruttano, che hanno ridotto la nostra terra a cacatoio. Questa mentalità mi pare di gente di un altro pianeta. Mi riesce intollerabile. Riesce intollerabile a parecchi che tornano dal Nord. Abbiamo detto ieri sera con Peppe che è vano aspettarsi qualcosa dagli altri. Se noi non ci svegliamo una volta per sempre, se noi non promoviamo una classe dirigente nostra, è da pazzi sperare che i torinesi o i tedeschi vengano a prenderci dalla mano. Non la intendono. Anzi si rivoltano contro di noi che secondo loro siamo dei traditori sia perchè abbiamo abbandonato il paese natio, sia perchè facciamo questi discorsi strampalati. Il berretto che avevo rimesso mi pesava come un cappa di piombo. Lo buttai di nuovo su una pietra, con più coraggio della prima volta. Anzi ero deciso a non rimetterlo mai più.- "Un operaio non può travagliare a testa scoperta" - mi richiamò mio padre. "Rimettiti il berretto. " Non parlai. Non rimisi il berretto. - "Il berretto" - disse. Finsi di non capire. Mi si avvicinò e pensai che intendeva infilarmi il berretto a forza. Avrei reagito; ero pronto a reagire. Invece mi fece brevi osservazioni sul lavoro che avevo portato avanti. Aggiunse che da quel giorno cominciava una nuova vita per me. Seria, anche se dura, che mi avrebbe temprato maturato dato un nome. Certo si riferiva al nome in paese. Per saper mietere, piantare e potare una vite, seminare il grano, allevare un pianta, un albero non occorre una grande sapienza. Il mestiere invece è sapere e arte insieme. Arte, sì. Avevo idea di questa parola? Ci sono le regole, nell'arte, ma ci vuole il lampo degli occhi, la prontezza dell'intelligenza per cogliere la situazione di un certo lavoro che con le regole non è possibile compiere. Col lampo, se ce l'hai, tu porti a compimento un muro, una casa, risolvi le difficoltà di uno spazio. L'avrei capito da solo più in là. Perchè c'è soddisfazione, una soddisfazione che te la senti salire dalle viscere, quando sei capace di concludere bene una certa opera che l'occhio contempla, alla fine, con godimento. L'occhio, dovevo fissarmelo bene in mente, nel lavoro ha una primaria importanza... Dovevo tenere presente che i primi passi devono sedere piano. Quando si mette la prima pietra come si deve, il resto si regge da sè. Pari e uguale alla vita di un uomo. Sì. Non è facile vivere, ma è importante e bello tenere i fanali aperti sul mondo il più a lungo possibile. Specie se riesci a cavartela senza debiti e senza brutte azioni... Via.... Lui avrebbe avvicinato i massi e io li avrei allineati, sotto la sua guida, si capisce. Non mi avrebbe abbandonato, Dio Santissimo. Avrei imparato il mestiere a costo di tutto. Non gli sarebbe importato di crepare il giorno dopo. Che c'entrava lavorare senza berretto? Su, rimettiamocelo. Rimisi il berretto senza fiatare. Il suo sapere mi rendeva una nullità vera e propria. La luna è tutta fuori dal mare. Rossa come un'arancia.- "Lassù non la vedo mai sorgere" -dico. Basilio è interessato. Lo capisco dal brillio dei suoi occhi. Siede; tossicchia e mi dice:- "Parlami un poco di quei popoli." - "Se ci fossi tu tra noi, ne capiresti tanto che a noi ignoranti sfugge" - gli dico - "Perchè non te ne vieni per un poco di mesi a fare delle ricerche? Tanto i soldi non ti mancano. Anche Attilio mi ha detto di convincerti a venire." Basilio si gratta la nuca.- "Ci capirei niente, in pochi mesi" - dice. - "Un popolo è difficile capirlo." - Sta assorto per un poco, come se fosse dominato da un pensiero grave. - "Non si può capire un popolo" e poi - riprende - "se non se ne conosce la lingua. Neanche quando se ne conosce la lingua, si capisce un popolo. Quella lingua che si apprende a scuola, dai libri, dal vocabolario. Bisogna succhiarla dal latte materno, la lingua, dagli umori della terra, dai succhi della frutta I popoli sono come le piante, come certi alberi che allignano a una data latitudine e altitudine. Certo, c'è qualcosa che è comune ad ogni uomo: l'amore, il dolore, il pensiero, il sentire... Quando vengono da su per studiarci, cosa vuoi che capiscano di noi mediterranei? di un contadino che parla al suo asino come se fosse in grado di ragionare, che parla alle piante come se avessero orecchie; di una donna che bestemmia come una furia e maledice? Una cicca di nulla ci capiscono ... "
(da "Noi lazzaroni", 1972)

Con "Il Diavolaro", ultimo romanzo di Strati in ordine cronologico il punto di vista si sposta, torna nel Sud, la visione si fa più precisamente politica e si approfondisce in un arco di tempo più ampio. I sentieri che hanno portato il Mezzogiorno dal sottosviluppo fascista, fatto di disoccupazione, di sovrappopolazione e di miseria, al sottosviluppo democristiano, fatto ancora di disoccupazione, ma anche di emigrazione e di assistenzialismo, sono ripercorsi attraverso l'irresistibile ascesa del Diavolaro, grassatore abile e privo di scrupoli, oppure imprenditore audace e intelligente, a seconda che il giudizio riproduca l'opinione altrui o del protagonista stesso. In lui i valori tradizionali, proprio quelli mitizzati da una nefasta retorica tardo-rustica, si disfanno volgendosi nel loro contrario negativo in nome dell'unico valore predominante, quello non patriarcale ma politico del potere. Il gusto, si direbbe meglio il culto del lavoro, l'arte che il padre tramandava come un patrimonio al figlio in "Noi lazzaroni", è prostituita dal Diavolaro a strumento di arricchimento, di sopraffazione, di imbroglio. Il senso della famiglia diventa per lui l'ossessione tirannica a perpetuare con "un legno suo" quella sua potenza che si va costruendo. L'orgoglio e la volontà di riscatto si traducono in prepotenza e in disonestà. L'intelligenza si svilisce in furbizia, in capacità mestatoria, nell'abilità nemmeno più gattopardesca ma meschinamento camaleontica di cambiar colore secondo l'opportunità. Il Diavolaro è il frutto guasto di uno sviluppo distorto, costruito sull'arricchimento più o meno clientelare ma sempre individualistico, non sulla ricchezza sociale, e di una crescita ambigua, misurata dal rimodernarsi di arretratezze antiche, non dal progresso civile. Il ramo discendente della sua parabola inizia quando tutto quello che c'era da consumare nel Sud è stato consumato, e lo sfruttamento smodato e sistematico delle risorse del Mezzogiorno ha lasciato dietro di sè il deserto materiale e morale delle campagne abbandonate e dell'assenza di prospettive:

"E questo sarebbe vivere?... Questa peste non ci voleva, Signore! Non ci devi abbandonare noi veri cristiani. I rossi sono i tuoi veri nemici, sono figli del demonio. Vincili, disperdili, Dio potente! E pensava a quant'era magnifico pochi anni avanti, quando la sua casa era piena e strapiena di persone che venivano a chiedergli: mastro Santo, datemi in anticipo cento lire, poi chiamatemi a lavorare, chè io vengo e vi servo. Mastro Santo, datemi un poco d'olio, un tomolo di grano; fatemi coltivare la vostra terra a qualsiasi condizione. Mi accontento di avere dove mettere i piedi, dove trovare un pugno di cicorie. E ti stavano davanti umili, col culo strisciante come cani vili, ed erano buoni, col berretto in mano e se tu gli ordinavi di correre alla rupe e di buttarvisi sotto, vi si buttavano; e se ti occorrevano cento braccia ne avevi trecento che manco paga chiedevano,- anzi si offendevano se tu non li chiamavi. Ah, tempi d'oro dove siete andati, dove siete votati! esclamava mentre camminava per i suoi campi, mentr' era dominato dalla furia cieca, dalla rabbia che come un morbo gli rodeva il fegato nel constatare che i poveri, quelli che fino a ieri non avevano l'ardire manco di parlare, manco di guardarti, manco di esistere, tanto erano niente, inconsistenti, vermi loffi e limacciosi, proprio i più poveri, i più fetenti, quelli a cui Dio aveva negato il buon senso, la più modesta forma d'intelligenza, il più piccolo slancio verso il progresso, verso l'avvenire e che se non gli dicevi: alzati e cammina, stavano fermi, e che se non gli buttavi un pezzo di pane davanti ai piedi manco erano in grado di sfamarsi una volta all'anno, né di trovare la via della bocca, proprio quest'indegni arabi musulmani qua ora ti dicevano con spudoratezza e sfrontatezza, in barba, senza manco arrossire, senza neppure chiedersi: ma sono nel giusto o sbaglio?, t'investivano e ti dicevano con odio: se voi siete diventato ricco, siete diventato ricco perché da qualche parte e sulla pelle di qualcuno avete rubato, approfittato, sfruttato. Così, in barba! A crudo a crudo. Miserabili mascalzoni! ( ) Ma davanti a quel nipote, che appena appena gli diceva nonno, stava moscio moscio. E dire che un tempo erano stati tanto amici! Ora invece sto nipote qua evitava di affrontare una discussione a tu per tu con il nonno, come se sto vecchio qua fosse uno scervellato incapace di capire, come se non valesse la pena di sprecare fiato con un uomo di stampo antico. Non solo, parlando alla generale gli faceva intendere che non doveva ritenersi vero uomo solo perchè aveva creato tanto ricchezza, e che il vero uomo invece é un'altra cosa. E lui che da niente era diventato potente, rispettabile, temuto soffriva di questo giudizio offensivo. A tratti era tentato a ribattergli, ma non osava. Non sapeva spiegarsi il perché - e di questo si arrabbiava con sè stesso, davanti a quel nipote si sentiva una minchia fredda. Già con lo sguardo gli troncava la parola in bocca. sì, solo con lo sguardo. ( ) A furia di fare certi discorsi con i nipoti, a furia di pensare sempre alla stessa cosa, un giorno ebbe come un' illuminazione e capì con chiarezza che il male di quant'era avvenuto stava in chi aveva tenuto duro, in chi s'era ostinato a non mollare nulla ai lavoratori; capì inoltre, e quasi si morse le mani, ma ormai il danno era irreparabile, che se non avessero assassinato Tonino, il paese non si sarebbe spopolato. Tonino lottava in modo che il mondo migliorasse in ogni suo aspetto. Ma i benestanti si rifiutarono di cedere a condizioni ragionevoli i campi a chi li coltivava, si rifiutarono di pagare le raccoglitrici di olive secondo i tempi correnti, si rifiutarono di pagare meglio il lavoratore che quando protestava per tutta risposta si trovava i carabinieri e i poliziotti armati davanti; e i lavoratori, stanchi, sfiduciati, rabbiosi piantarono tutto e a nuvoli, come le api che vanno via da un alveare troppo affollato, volarono altrove e popolarono altri luoghi... Se non fossero partiti, i tuoi terreni sarebbero fiorenti, il tuo lavoro prospererebbe. Ci meditò per ore, anzi per giorni su questa scoperta. La esaminò in tutte le sue componenti e mille volte si ripetè: se non fosse così, tu non staresti a Torino a crepare di rabbia e di tedio. A vere coscienza del guasto da lui stesso in gran parte causato, gli provocava più scontentezza e più rabbia contro il mondo; e scaricava questa sua tensione sulla moglie alla quale correva subito in soccorso Eleonora. Che ti prende, papà? Egli abbassava la coda e si rifugiava in salotto; e non raramente fingeva di star male per destare commiserazione negli altri."
(da "Il Diavolaro", 1979)

In un barlume di lucidità politica, il Diavolaro intuisce,, ma per recriminare su un'occasione mancata di trasformismo, non per soffrirlo come rimorso, che la classe dirigente cui anch'egli appartiene ha tagliato le gambe al Sud, e con il Sud a se stessa, nel momento in cui ha scelto di disattendere le esigenze di progresso civile del Mezzogiorno e di inseguire un'avidità di profitto e di potere così assoluta da risultare anacronistica, oltre che reazionaria. Gli sfruttati non si possono più sfruttare, nè ribellare, perchè sono emigrati. Le forze vive, i giovani, parcheggiano nelle scuole in attesa, ancora, del salto al Nord, senza la ragionevole speranza di poter cambiare qualcosa al Sud. I vecchi parcheggiano al sole nella piazza del paese, indifferenti anche al vecchio potere del Diavolaro. Per salvare del suo potere almeno la "facies", e solo quella, il Diavolaro usa un'ultima, mefistofelica improvvisazione. Per salvare il Sud, invece, l'improvvisazione non basta.


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