Donne e madonne salentine fra memoria e democultura




Mario Marti



Tra i ricordi più vivi della mia prima fanciullezza è la celebrazione casalinga e domestica del mese di maggio in onore di Maria Santissima: del mese mariano. Abitava la mia famiglia a Lecce, al n. 19 di Via Casanello, una strada in terra battuta, la quale allora s'interrompeva con un muricciuolo a secco a segnare il confine con gli orti e con l'aperta campana: una strada chiusa e perciò adatta al giuoco della campana, della lippa e della trottola. Ivi, durante il mese mariano, si diffondevano il mormorio delle preghiere e le alte vibrazioni dei canti che avevano luogo in casa mia, sotto la severa regìa di mia madre. Alla fine di aprile si allestiva l'altare nella stanza più bella (ma erano tutte povere stanze), si collocava in posizione d'onore il quadro della Madonna Immacolata, e si adornava tutto con fiori freschi, con le rose di maggio dal soave penetrante profumo, spesso raccolte e procurate da noi bambini con mezzi non sempre legittimi. E già nel pomeriggio del 30 aprile le candele ardevano la loro simbolica fede e aveva inizio la lunga sequela dei rosari, che terminava soltanto nell'ultimo giorno del mese, il giorno del trionfo, e per noi più piccoli un poco anche della liberazione vespertina. Dopo le sacramentali cinque poste (e qualche volta, non saprei dire in quali occasioni, diventavano quindici), si recitavano le litanie, con relativa Salve Regina a conclusione, si formulavano segretamente i fioretti, e infine si cantava un inno in lode di Maria: "Mira il tuo popolo, bella Signora ... "; che è una sorta di inno nazionale del culto mariano; oppure "Andrò a vederla un dì...";
o ancora: "Odo suonar la squilla della sera ... " che sono i canti maggiormente impressi nella mia memoria. Mia madre non mancava, qualche volta, di bruciare un granulo d'incenso. E' certamente quel sentirsi sacerdotessa di un rito famigliare, ma nello stesso tempo religioso e, in una certa misura, quel costituirsi vicaria di un ministro di Dio, erano la via lungo la quale ella perseguiva la sua promozione e il suo riscatto sociale e intellettuale; e quel suo disporre e condurre la funzione liturgica, quelle sue preghiere riservate a lei, fatte di Oremus, di antifone, di incipitari, in un latino che sembrava rapido e sicuro, nonostante l'infimo grado della sua istruzione, erano veramente il segno di una fede viva e profonda, sia pure popolarescamente irrazionale e immotivata; ma erano anche la sua forza di donna e di madre, l'appoggio della sua autorità di guida morale, infine la conquista di una sua autonomia i persona umana nella pienezza delle sue funzioni e delle sue capacità, il risvolto efficacemente compensativo di una vita senz'altra luce se non quella del lavoro e del sacrificio vissuti nella speranza del meglio. Così l'umile donna salentina calava e realizzava ne a propria vita il divino modello, traducendolo nella concretezza delle azioni e della condotta morale; madonna anche lei, In altro senso, esempio vivo e terrestre di un modello ultraterreno a misura d'ogni perfezione.
Io bambino ero soggiogato dall'atmosfera mistico-religiosa che si respirava in casa durante il mese mariano. E vi contribuiva il misterioso spessore delle orazioni latine, che - a parte quelle più comuni, come L'Avemaria e il Paternoster -non riuscivo a capire. In particolare, ricordo ancora oggi una parola, che mi si era impressa nella mente per la sua stranezza fonetica o per la sua incomprensibilità: subbuttù. Che cosa mai era quel subbuttù, che mia madre pronunziava con forza e convinzione dopo le litanie, all'inizio di una sequenza? Quest'interrogativo mi accompagnò per vario tempo; fino -a quando cioè imparai, poi, col primo latinuccio, che essa risultava dall'agglutinazione deformante e popolaresca di Sub tuum, che insieme con praesidium, voleva indicare la Vergine Santa come scudo di difesa e di rifugio contro il peccato e il male. Una singolare e buffa deformazione, come tante altre sulla bocca del popolo nate da riduzione o traduzione fantasiosa di astratti suoni verbali. lo stesso ho sentito, nella chiesa cattedrale di Soleto, il versetto "Laudate Dominum omnes gentes" cantato a gola spiegata come "Laudate Domine ca è sorgente". Riduzione comunque anche culturalmente più valida di una formula spocchiosa. incomprensibile e dunque ipocrita, pronunziata in una lingua ingannevolmente elitaria.
Può sembrare strano che nelle raccolte di canti e leggende in dialetto salentino non compaiano componimenti che in qualche modo si ispirino alla pratica del mese mariano, o che da essa traggano un aggancio alla fantasia. A tutti quanti è noto 'O mese mariano di Salvatore Di Giacomo, rappresentazione drammatica di un rito evidentemente già così diffuso da poter essere considerato senz'altro popolare. Ma in un grazioso opuscoletto del canonico Francesco Michelesi, intitolato La corona de' fiori sacra alla santissima Vergine Maria Madre di Dio, ossia La devozione del mese di maggio, e pubblicato a Napoli nel 1850, il cordiale autore e prefatore confessa di aver compilato il "devoto libretto" soltanto "per accrescere il propagamento di così utile spirituale esercizio". Non mi è sembrato indispensabile effettuare ricerche a questo proposito; ma ne ho, mi pare legittimamente, dedotto che la liturgia domestica del mese mariano nel 1850 dovesse essere ancora di recente diffusione; e infatti il buon canonico, sempre nella sua prefazione, suggerisce le modalità del rito, divenute poi estremamente note ed elementari: "...si adornerà decentemente un altare o un'immagine sacra a Maria Santissima, innanzi a cui si adunerano ... ". Era più facile dunque che si rinnovassero le ragioni e gli elementi di una esaltazione di Maria nella lingua del popolo, o addirittura che un poeta ci scrivesse sù un dramma; più difficile, anzi impossibile, che se ne reperissero antiche leggende. Esistono canti dialettali, qui da noi, di generica lode alla Vergine Santa, come quello che dice: "0 bella mia speranza, - dorce amore, mia Maria, - tu sei la vita mia, l'arma mia salvala tu ... ", con l'offerta finale: "Eccu miu cor, Maria; è tou e non è cchiù mmiu; prèndilu e dàllu a Ddiu, - ca nu llu vogliu ppiù" (l. Malecore, La poesia popolare nel Salento, Firenze, 1957, p. 231); dialettali per modo di dire e per intendersi, chè già qui si sente il sapore della traduzione dall'italiano, più che l'autoctonia del dialetto. 0 come in quella bellissima ninna-nanna, che si legge a p. 72 del 1° vol. della Grecia Salentina, silloge edita nel 1978 dall'editore Capone di Cavallino:

O sonnu, sonnu, sonnu 'ngannatore
Inganna lu fiju miu nnu paru d'ore...
e nanna, nanna, nanna, nanna sia,
ddurmiscimelu tie, Madonna mia!
La Vergine Maria de cquai passau
te lu piccinnu miu me domandau...
e jeu li tissi ch'alla chiesa sciu;
quiddha me tisse: Bbona via pijau ... ;

poesia certamente in dialetto, ma altrettanto certamente poesia non dialettale, bensì d'autore, e si sapientissimo autore (probabilmente conosceva il Pontano), il quale alla notazione dotta e raffinata del sonno ingannatore sa accoppiare dissimulatamente l'atteggiamento pedagogico di Maria Santissima che approva la condotta del buon bambino andato in chiesa; e il quale ancora alla ripetizione armoniosissima del "sonnu, sonnu, sonnu, 'ngannatore" oppone di riscontro l'altra armoniosissima ripetizione di "nanna, nanna, nanna, nanna sia". Tecnica comune alle ninne-nanne, si dirà; ma proprio quest'affermazione segna, secondo me, un punto a vantaggio della natura culta del componimento. Tanto più che la ninnananna è in endecasillabi; e non è facile persuadersi che la mamma, nell'addormentare l'infante, stesse lì attenta a quante volte dovesse reiterare la parola "nanna", per non oltrepassare la misura del verso.
Mi sono imbattuto anche in un breve componimento, nel quale in sintesi è rievocata l'intera vita della Madonna fino alla Passione del Figlio; e la Passione poi finisce col prevalere e col sostituirsi del tutto alla biografia mariana. La poesietta si apre con l'invocazione a una "bella signura" che è "tutta piena de bbona ventura" e si chiama Maria. E così prosegue: "Quandu jeri fanciullina, - a quelle rutte te purtara; ddhà mangiai, ddha bevivi, ddha ti tésera quellu sposu cusì bbellu e graziosu. - E la notte ca parturisti - senza tolore lu facisti, - e ffacisti nu Bambiniellu sia ca è pintu cu llu penniellu. -E' nna cosa ca me maraviju, - bella la mamma e bellu lu fiju. - Jeni, jeni, pre giudicatu - alli chioi sarai 'nchiovatu, - flaggellatu, schiaffeggiatu, - fele e ccitu bbeveratu ... " (Malecore, 227-8); dove è notevole non solo (come quasi sempre in questo tipo di poesia) l'impasto linguistico di un dialetto che tende ad essere lingua, o viceversa di una lingua calata nel dialetto, ma la promozione sociale della Madonna, dal momento che le parole "bella signura - tutta piena de bbona ventura" tendono più a una configurazione ammiratamente aristocratica, che a una visione religiosa o solo estetica. E' questa l'ambiguità sulla quale si muovono, si può dire costantemente, i canti dialettali salentini in onore della Madonna; a prescindere, naturalmente, dall'originaria spinta devozionale.
Nelle poesie dialettali salentine riguardanti l'Annunciazione è ben notevole che del misterioso avvenimento sia sottolineato piuttosto il turbamento di San Giuseppe che l'umiltà fiduciosa di Maria. Così avviene in un breve carme (Malecore, 253), all'inizio del quale compare appunto San Giuseppe, "li fiuri 'lla virga", in procinto di prendere con se la Madonna. Egli è un po' titubante, perché non se ne sente degno; ma poi s'induce a prenderla e a portarsela in casa, quando gli si assicura che in tal modo nulla sarebbe mancato ad entrambi: "Giuseppe la donna se purtò - e a ccasa sua nienti 'nci mancò". Una decisione in fondo utilitaristica, che attribuisce a Giuseppe le pressanti conseguenze della povertà. Un giorno egli si allontana da casa, per andare a lavorare, e Maria rimane sola:

Vene nu ggiurnu, stava ci screvia;
L'Angelu te lu cielu li sciu 'nnanzi:
- Vo' fare fiju, donna, all'acantia ? -
Lu voju fare come mi dicete,
ca nu ccanuscu nisciuna persona -
Se' ccose Giusepp e te dov'era sciutu,
e llu vitisti tutti conturbatu.
'Ntra Ila camera soa sta ci screvia;
l'Angelu te lu cielu li sciu 'nnanzi:
- Che hai, Giuseppe, che disturbi Maria?
Maria è gravida de Spiritu Santu,
faccia unu fruttu benedettu;
e dopu nasce, lu chiamamu Cristu..

A queste parole San Giuseppe si rasserena e si pente del suo dubbio. Si intravede, attraverso la narrazione dialettale, i cui sintomi sono ostentatamente italianizzanti, il racconto in parte di Luca e in parte, per quel che riguarda San Giuseppe, di Matteo. Ma non si può sottacere che tutte e due le volte che compare l'Angelo del Signore, a Maria prima e a Giuseppe poi, l'una e l'altro sono intenti a scrivere. Esaltazione e consacrazione addirittura divina della cultura come integrale esigenza dello spirito, da parte di chi di quella cultura si sente escluso o comunque enormemente distante, e la contempla estasiato ed ammirato. E non si può neanche passare sotto silenzio quella gemma linguistica della virginosa acantìa, cioè della vuotezza sacra e misteriosamente intatta; dove la verginità è tradotta popolarmente in dimensione fisica, in una vuotezza topografica e fisiologica, ma in una mentale contemplazione metafisica. E certo il turbamento di San Giuseppe è l'elemento più umano e terrestre di quella divina vicenda, nella dialettale metamorfosi.
Altra volta è Maria Santissima che dimostra forza e coraggio, tanto da infonderne a San Giuseppe. Di ritorno dalla Visitazione la Madonna - il testo evangelico e il corso degli avvenimenti vengono in questa occasione comodamente manomessi - si sente male e va alla ricerca di un alloggio (Malecore, 326);

Pe ffurtuna te Ddiu 'ccuntrau' na stalla;
e ddhai se ripusau pe 'ssou alloggiu.,
Iti, Giuseppu miu, mo' cce facimu,
ci me sta ssentu na cilestre dogghia?
Jessi ddhà ffore ttroa tre ffile te pagghia;
si parturiscu, quiddha me bbisogna -.

San Giuseppe sollecitamente obbedisce e rimedia alla necessità; ma sconfortato, esclama: "Ca cc'è bbruttu cu bbiessi puirieddhu"; ti mancano allora anche le fasce e gli "spargani" per il neonato. E la Madonna allora lo sostiene, lo conforta, lo incoraggia.

Iti, Giuseppu miu, nu tte 'tterrire!
Ca prea cu fazzu nu figliuolu bellu,
ca prima lu 'mmucciamu a 'mmiu mantile,
e ppoi lu 'mmucciamu a 'ttou mantiellu.

Forse la nota più incisiva di questa "Natività" salentina è l'esclamazione sulla "Bruttezza" della povertà ("ca cc'è bbruttu cu bbiessi puirieddhu"), quando non si può disporre neanche dello strettissimo necessario, anzi addirittura dell'indispensabile alla sopravvivenza, come i panni per un neonato. Ma il pezzo rivela coraggio, fiducia e forza d'animo, disponibilità all'aiuto reciproco per il bene comune. Non una nota di amarezza o di ribellione in questo famigliare quadretto, nel quale occupa bensì un suo consapevole posto la dolorosa realtà dello stento, ma anche il sentimento sincero di una profonda fiducia nella vita e di una viva speranza nella Provvidenza. Certo; la Natività è di per sé universalmente simbolica di quella realtà e di quel sentimento; ma nessuno vorrà negare che gli "spargani" sono cosa tipicamente salentina (anzi sono qui esattamente chiamati "sparicanelle"), e che tipicamente salentina potrebbe essere l'accettazione rassegnata, sì, ma anche fiduciosa di una condizione carente, grazie al reciproco amore e dunque al reciproco aiuto anche spirituale del componenti della famiglia, ove spesso proprio nel Salento e proprio alla donna è riservata la parte di più robusto sostegno psicologico e di più aperta responsabilità morale.
Analoga riduzione della Natività alla quotidiana misura della vita di una famiglia povera, non senza un'amara vibrazione sociale, emerge da una filastrocca natalizia, sempre in dialetto salentino, che è da presumere molto nota e diffusa. La notte di Natale scende un' angelo dal cielo, col suo bianco vestito come una colomba (Malecore, 226):

-Palumbella, palumbella,
e cce puerti allu tou pizzu?
- Portu zuccaru e cannella,
lu battesimu te Cristu -.
Quandu Cristi battezzau,
tutti l'angeli chiamau, e chiamau
la mamma mia,
nnu paternosciu e nn'avemaria;
e chiamau lu tata meu,
nnu paternosciu e nn'Angelu Deu;
e chiamau tuttu lu mundu,
nnu paternosciu e nnu brafunnu;
e chiamau la Nunziata,
tutta pinta e llacerata;
e chiamau li poverieddhi;
lu piatticeddhu te mugnuleddhi;
chiamau tutti li ricchi,
lu piatticeddhu te pisci fritti.

Il centro figurativo, e direi anche ideologico, di questa dialettale Natività sta in quell'angelo che scende dal cielo, bianco e incoraggiante, come una "palumbella" a portare qualcosa di buono per tutti. Per il battesimo di Cristo nientemeno che zucchero e cannella, dolci in abbondanza e fragranti; ma porta anche preghiere per i nostri cari defunti ("la mamma mia... lu tata meu"), un paternoster e un De profundis (così penso sia da intendere il "brafunnu") al mondo dei vivi e al mondo dei morti; e ai poveri un piatto di verdura ("lu piatticeddhu te mugnulieddhi"), e ai ricchi un piatto di pesce fritto. lo non so se questa filastrocca sia indigena; occorrerebbero indagini ampie ed attente che non è mio compito effettuare e non rientrerebbero nelle mie competenze e nelle mie possibilità. Ma se essa fosse propriamente salentina (e comunque se originariamente non lo fosse stata, ormai è diventata tutta cosa nostra), vi si potrebbero leggere l'atavica miseria dei ceti maggiormente diseredati: zucchero e cannella vi si tramutano addirittura in nettare e ambrosia divina; l'estremo traguardo gastronomico dei poveri, nel giorno addirittura di Natale, è visto in un "piatticeddhu te mugnulieddhi"; o alla mensa dei ricchi, supremo gaudio, è attribuito "nu piatticeddhu te pisci fritti". Il pesce fritto, la frittura di pesce, per quanto per tutti gustosa, vi diventa l'emblema della più invidiabile ricchezza. Ed è commovente che a questa immensa tavolata di cibi spirituali e corporali sia chiamata a partecipare anche la "Nunziata, -tutta pinta e llacerata", che a me pare il simbolo della prostituzione condizionata e causata dalla fame, in un abbraccio di pietà umana, prima che cristiana. E amarezza non c'è nel testo dialettale, che procede sicuro e rapido nella sua rassegnata fiducia; amarezza pullula invece nell'animo del lettore, il quale, leggendo quei versi, vi ritrova press'a poco il se stesso di un tempo; e vi ritrova l'indissolubile legame dell'affetto famigliare senza remore e senza inibizione alcuna. Ora, la difesa, possibilmente il consolidamento, dei legami dell'affetto famigliare, mi sembra che tradizionalmente nel Salento sia stata affidata, e non soltanto a livello popolare, alle madri di famiglia, piuttosto che ai padri; a queste autorevoli, se non autoritarie, eppure benevole e comprensive mamme, parsimoniosissime e oculate amministratrici, legate alla prole fino al supremo sacrificio, madonne pronte a frenare l'ira del paterfamilias verso il figliuolo discolo, inclini a intercedere per lui quando lo ritenessero opportuno, cardini e pilastri della vita domestica alla quale interamente si dedicano (o si dedicavano). L'occorrenza di certe feste particolarmente sentite offriva loro la possibilità di rinnovare volta per volta e di cementare l'unità della famiglia; Natale col digiuno della vigilia, col presepe in casa e il sacramentale cenone; la Befana col carbone vero e il rilucente nichelino nella calza (che malinconia vedere appeso nei negozi, nei giorni dell'Epifania, non più festa, quelle calzine rosa prefabbricate! ... ); Pasqua di Resurrezione con le cerimonie anche casalinghe della Settimana Santa; la supplica in casa, e non in chiesa, alla Madonna del Rosario puntualmente l'8 di maggio e la prima domenica di ottobre; la festa dell'Immacolata col digiuno e con l'atmosfera prenatalizia.
Il giorno dell'Immacolata era grande festa a casa mia, perchè mia madre si chiamava Concetta, e per la Madonna Immacolata aveva una particolare venerazione e predilezione. Il digiuno della vigilia era sacrosanto; e anzi, tutti in casa, attendevamo quei giorno con grande letizia. Fra l'altro si usciva da scuola qualche mezzoretta prima, proprio per trovarsi in casa tutti insieme a mangiare a mezzogiorno il buffetto con il tonno all'olio o la puccia con le ulive., Alla cena, che concludeva il digiuno, a vent'un'ora, si mangiavano già le prime "pittule" e si inaugurava il tempo di Natale; e io ricordo il modo magistrale con cui mia madre, solennemente attenta e concentrata dopo l'auspicio di una benedizione del Signore, dalle sue mani sapienti faceva cadere nel bollore dell'olio il globetto di pasta lievitata, mentre acre e rabbioso esplodeva lo sfrigolio nella padella. Tutto faceva parte di un rito, di una liturgia fissa o perenne, che trovava la sua consacrazione nella messa festiva del giorno dopo, in chiesa, dove la Madonna celeste sembrava proteggere maternamente la madonna terrestre e la sua famiglia.
Il mese mariano e la festa dell'Immacolata erano in casa, nella casa della mia infanzia, i momenti più salienti del culto domestico della Madonna. Ma la famiglia si raccoglieva intorno alla sacerdotessa casalinga pure per le ricorrenze della Madonna del Rosario, anche se non con identica intensità insieme sacra e festaiola. L'otto maggio e la prima domenica d'ottobre risuonavano sulla sua bocca, calde e commosse, le parole dell'allora Servo di Dio Bartolo Longo "O augusta regina delle vittorie, o Vergine sovrana del Paradiso... E' vero, è vero che noi per primi ... ". E tutti accompagnavamo con sincero slancio la recita della Salve Regina, punto per punto. E poi le litanie; e poi ancora il misterioso subbuttù. Ma era anche giusto che in una casa di soletani (mia madre e mio padre erano di Soleto) la Madonna delle Grazie, titolare del santuario di Soleto, fosse - mi si scusi il bisticcio di casa: la Madonna, col grumo di sangue tra il naso e la bocca dell'immagine, sgorgato meravigliosamente e miracolosamente quando, nel 1568, un tal Giacomo Lisandri, "pieno di rabbia per aver tutto perduto nel giuoco - come leggo in un fascicoletto di Lacaita, editore manduriano, pubblicato nel 1928 -... vibrò furibondo due colpi con la scure sul volto della benedetta effigie, dicendo: lo non credo che tu sei la Madre di Dio, se non mi farai ammazzare stasera". Sanguinò allora il divino volto; e l' "empio oltraggiatore della Vergine", venuto a furioso diverbio con un certo Luigi Rullo, cadde con un coltello da lui piantatogli nel cuore. Questa storia mi fu narrata alla buona la prima volta quand'ero piccolo; e non l'ho più dimenticata anche perchè i miei genitori, rientrati in seguito da Lecce a Soleto, si erano poi costruite due stanze proprio nei pressi del convento della Madonna delle Grazie; due stanze nelle quali giacciono i miei giovanili anni di liceo. Quando ero in paese, le mie visite al santuario erano frequenti anche per sentirvi messa (più spesso andavo alla cattedrale per suonarvi l'harmonium); e così ho avuto modo di vedere tante volte il viso, allora in una teca e coperto da un panno, un po' atono e distante dell'immagine sacra, un po' astratto e metafisico, che può far pensare veramente più, a una severità di esemplare giustizia (come avvenne all'"empio oltraggiatore" Giacomo Lisandri), che a una maternità fatta d'indulgenza e di perdono. Ma nella raccolta della Malecore trovo due redazioni di un pezzo in dialetto intitolato appunto alla Madonna delle Grazie. I poco più di trenta versi dei quali risulta composta ciascuna redazione, presentano una tramatura narrativa assai ingarbugliata. Tuttavia ne emergono alcuni punti fermi: il tempo dei Turchi a Otranto, una deportata che non riesce a partorire dopo ben dodici mesi, una schiava cristiana che suggerisce il ritorno al paese, un'immagine della Madonna che giunge per via di mare sulla spiaggia d'Otranto. E poi (Malecore, 388 e 399)

La gente utrantine hannu vista na lumera;
so minara a mmare li marinari,
e laMadonna a rretu se tirau.
Sona Capitulu e scise Bonsignore,
e la Madonna an terra se tirau.
Ca mo se scrivi a quellu Santu Papa,
che s'ha truvata na gentile rosa.

Altri più bravo, più preparato e magari più curioso di me, saprà facilmente ricostruire la leggenda intera, entro la quale si iscrivono questi ruderi dialettali messi insieme dalla Malecore. Ma a me interessa - e mi è sufficiente - porre accanto queste due Madonne delle Grazie, le quali, calate in circostanze tanto diverse, tuttavia in qualche modo si rassomigliano. All'esemplare giustizia quasi da codice penale della Madonna delle Grazie soletana fa riscontro il burocraticismo, l'apparente mentalità gerarchica e clericale della Madonna delle Grazie otrantina; la quale disdegna di approdare e si arretra quando le vanno incontro "li marinari", cioè i pescatori, e tocca terra soltanto quando "sona Capitulu e scise Bonsignore". Dietro quest'ultima notazione forse non è da cogliere tanto una presa di posizione sociale, quanto l'istanza - a me pare - di accogliere la Madonna con ogni solennità possibile, affiorando dunque la sensibilità rituale e liturgica come espressione di una religione rappresentata nelle sue forme più scenografiche e accattivanti. Tuttavia i pescatori, cioè i poveri, rimangono emarginati effettivamente; e da tutto il passo qualcuno potrebbe ricavare sentore dell'ammirazione, certamente salentina, o se si vuole anche salentina, causata dalle più prestigiose manifestazioni esteriori del potere.
Non così mai nel titolo dell'Addolorata, dove la figura della Madonna è sempre legata alla vicenda del Divin Figliuolo nella via crucis della Passione. Anche le sette spade conficcate nel suo cuore sono - è vero - il simbolo del suo drammatico itinerario di dolore, ma anche l'automatico richiama alla Flagellazione e alla Crocifissione. Infinitamente stimolanti sono, dal punto di vista antropologico, i testi dialettali su Maria Addolorata e sulla Passione, messi insieme dalla Malecore nel suo libro. Ed è fin troppo facile osservare, prima d'ogni altra cosa, che in essi l'Addolorata è sempre una mamma alla ricerca del figlio dannato, o una mamma che piange sulle sventure del figlio, o ancora una mamma che urla il proprio dolore sullo straziato cadavere del figlio. Insomma la vicenda evangelica e divina si risolve tutta e sempre in aspra vicenda umana. C'è però, fra gli altri, un tema singolare, che ritorna più spesso (ne compaiono ben tre variazioni), forse perchè assomma in sé una forte pluralità di sentimenti: l'affetto materno, la crudeltà raffinata e indispettita, la sofferenza rassegnata a dolente. Maria piange per a condanna del figlio e lo cerca per stargli accanto; lo raggiunge mentre, attaccato alla colonna, viene flagellato, incoronato di spine: "Ni tisse tre palore la Matonna: Figghiu nu tte canusce cchiù la mamma". E Gesù la prega di recarsi dai fabbri ferrai per accertarsi "cce arte stanu fandu". E' la Madonna va da loro (Malecore 259):

- Mesci, mesci, cce arte stati fandu?
- Li chiovi allu tou figghiu stamu fandu-
Facitilí suttili e 'mpizzutati,
ch'hannu ttrasire a ccarni 'ndolurati -.
- Nui li facimu ressi e 'mpezzutati,
ca tre onze te fierru nui menti mu -
Maria, quandu la n'tise ddha duttrina,
scuriu prima lu cielu e ppoi la terra;
scuriu Matre te Ddiu quant'era bella.

Nelle altre varianti la Madonna prega i fabbri di dare i chiodi "fini e suttili, - c'hannu ttrasire intru carni civili"; e la notazione sacra ("carni 'ndolurati") si colora di patina sociale ("carni civili"). Ma l'elemento sociale, meglio, il riferimento sociale alla condizione della povera gente, affiora con pietosa comprensione nel diverso svolgimento dello stesso tema, in altre testimonianze dialettali sull'Addolorata. E non tanto in quella in cui al sitio di Gesù la madre, impotente di aiutarlo, gli offre, come un tempo, come al tempo della maternità, la propria mammella, quanto in un'altra, in cui Cristo invece di acqua chiede pane (Malecore, 393):

Tre paruleddhe disse la Madonna:
-fiju, nu tte canusce cchù la mamma! -
Vane intru Ilu stuppiddhuzzu,
ca nc'è nnu taraddhuzzu -.
Quandu sciu, nu Ilu truvau;
la Madonna se'nginucchiau,
disse: - Patre Eternu miu,
dalli pane allu fíju miu...

E a nessuno, credo, sfuggirà la dolcezza un po' ghiotta, ma remota, del taralluccio racchiuso nello stoppello, e la delusione dell'aver trovato invece lo stoppello vuoto: la Passione emblematizzata nel segno della fame, e il sogno di calmarla accarezzato dalla tenerezza dei diminutivi.
Sotto questo profilo mi sembra proprio l'Addolorata il simbolo più trasparente e veritiero della donna salentina del popolo, al più basso livello di mortificazione economica e sociale, tutta chiusa nel suo povero vestito nero, col fazzoletto nero annodato sotto la gola, punto di arrivo di un'ancestrale necessità di sacrificio, pronta a privarsi del boccone per nutrirne il figlio, e soprattutto preparata a superare con forza e rassegnazione ogni dolore, ogni sventura, ogni sofferenza. Le abbiamo conosciute queste Madonne Addolorate, nelle nostre case, nelle case dei nostri vicini, nei nostri paesi, nelle nostre campagne. Ed è probabilmente questa una delle ragioni più profonde del culto mariano dell'Addolorata nel nostro Salento; un culto che non per caso - o soltanto per ragioni rituali e liturgiche - si iscrive pressoché totalmente nelle tradizionali cerimonie della Settimana Santa, quelle, intendiamo, vive nella vita del popolo, nelle quali il rapporto teologico del Verbum trinitario, fattosi carne in un seno immacolato, si tramuta interamente in rapporto d'affetto e di carne assolutamente umano, tra madre e figlio, legati nel dolore e nella sventura, nella povertà e nella miseria. Penso alle violacee processioni, talora anche notturne, aperte da lunghi, strazianti squilli di tromba discendenti in tono minore e da un rullo ritmato di tamburi, al centro delle quali la Donna addolorata vaga fra le case alla ricerca del Figlio condannato; alle altre processione, snodantisi alla stess'ora, nelle quali, con gli stessi modi, il Figlio straziato o prossimo a morte s'avanza fino al supremo sacrificio. Penso alla toccante abitudine, almeno un tempo e almeno in certi paesi, di far convergere le due processioni nella chiesa principale; e ivi celebrare il trionfo del dolore come esperienza suprema dell'esistenza. lo ricordo che a Soleto il popolo (ma non so se ora più accada) nella chiesa affollata, nella sera della celebrazione della Passione, aspettava con emozione, ma con certezza, il punto in cui il predicatore, rivolgendosi nella direzione della seconda porta della cattedrale rimasta appositamente chiusa, con voce alta e vibrante rivolgeva l'invito alla Madonna di entrare nella chiesa per raggiungervi il Cristo suo figliuolo. E allora la seconda porta si apriva; e la statua della Madonna Addolorata che era in attesa insieme col popolo che l'aveva seguita in processione attraversando le strette, tortuose e nobili strade del paese, entrava col suo pallore spettrale, col suo vestito nero, col suo atteggiamento immobile in una smorfia di dolore, solcando la folla dei commossi partecipanti, traballando lievemente sulle spalle dei pietosi, che avevano chiesto e pagato il privilegio di sostenerla. Un vero e proprio spettacolo d'argomento religioso, una sacra rappresentazione condotta in prima persona nelle vie e nelle piazze dal popolo intero in veste di protagonista. Ma anche un alto rito simbolico che scioglieva il suo proprio significato nella chiesa madre, cioè nel centro ideale, nel cuore anche topografico dei sentimenti e delle aspirazioni di tutti. Poi per tutti c'era la Pasqua di Resurrezione, quando, al momento del Gloria, in pieno giorno, tra la luce del sole penetrante dai finestroni alti e dei ceri ardenti e luminosi sull'altare, si scioglievano le campane e cadeva o veniva tirato da parte il panno che, malamente, nascondeva la statua di Cristo Risorto, tra il rinnovato suono degli organi, muti da due giorni, e il fumo e il profumo dell'incenso. Nel frattempo la statua dell'Addolorata era stata riportata o racchiusa nella sua teca, già quasi dimenticata ora che il Risorto evocava a sé e a sé soltanto lo spazio ideale dell'altare e della chiesa intera. La Madonna di dolore, con fatalità istintiva e inconsapevole, viene esclusa dalla gioia sublime, neanche dispogliata del suo nero vestito; né - che io sappia - esiste il titolo di Maria della Resurrezione accanto a quello di Madonna della Pietà. E poi infine c'era l'esplosione della primavera, nel tenero verde della campagna, per la paesana festa "te lu riu"; e il ritorno alla vita quotidiana, di privazione e di sacrificio, di attesa e di speranza. Allora in ogni casa, come nella mia, l'immagine della Madonna, Immacolata o Addolorata che fosse, tornava a ravvivare, per le umili madonne salentine vestite di nero, giorno per giorno, la schiettezza della fede e il sostegno del conforto e della rassegnazione, la guida sicura del difficile cammino.


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