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Donne e madonne salentine fra memoria e democultura |
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Mario
Marti
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Tra i ricordi più
vivi della mia prima fanciullezza è la celebrazione casalinga e
domestica del mese di maggio in onore di Maria Santissima: del mese mariano.
Abitava la mia famiglia a Lecce, al n. 19 di Via Casanello, una strada
in terra battuta, la quale allora s'interrompeva con un muricciuolo a
secco a segnare il confine con gli orti e con l'aperta campana: una strada
chiusa e perciò adatta al giuoco della campana, della lippa e della
trottola. Ivi, durante il mese mariano, si diffondevano il mormorio delle
preghiere e le alte vibrazioni dei canti che avevano luogo in casa mia,
sotto la severa regìa di mia madre. Alla fine di aprile si allestiva
l'altare nella stanza più bella (ma erano tutte povere stanze),
si collocava in posizione d'onore il quadro della Madonna Immacolata,
e si adornava tutto con fiori freschi, con le rose di maggio dal soave
penetrante profumo, spesso raccolte e procurate da noi bambini con mezzi
non sempre legittimi. E già nel pomeriggio del 30 aprile le candele
ardevano la loro simbolica fede e aveva inizio la lunga sequela dei rosari,
che terminava soltanto nell'ultimo giorno del mese, il giorno del trionfo,
e per noi più piccoli un poco anche della liberazione vespertina.
Dopo le sacramentali cinque poste (e qualche volta, non saprei dire in
quali occasioni, diventavano quindici), si recitavano le litanie, con
relativa Salve Regina a conclusione, si formulavano segretamente i fioretti,
e infine si cantava un inno in lode di Maria: "Mira il tuo popolo,
bella Signora ... "; che è una sorta di inno nazionale del
culto mariano; oppure "Andrò a vederla un dì..."; o ancora: "Odo suonar la squilla della sera ... " che sono i canti maggiormente impressi nella mia memoria. Mia madre non mancava, qualche volta, di bruciare un granulo d'incenso. E' certamente quel sentirsi sacerdotessa di un rito famigliare, ma nello stesso tempo religioso e, in una certa misura, quel costituirsi vicaria di un ministro di Dio, erano la via lungo la quale ella perseguiva la sua promozione e il suo riscatto sociale e intellettuale; e quel suo disporre e condurre la funzione liturgica, quelle sue preghiere riservate a lei, fatte di Oremus, di antifone, di incipitari, in un latino che sembrava rapido e sicuro, nonostante l'infimo grado della sua istruzione, erano veramente il segno di una fede viva e profonda, sia pure popolarescamente irrazionale e immotivata; ma erano anche la sua forza di donna e di madre, l'appoggio della sua autorità di guida morale, infine la conquista di una sua autonomia i persona umana nella pienezza delle sue funzioni e delle sue capacità, il risvolto efficacemente compensativo di una vita senz'altra luce se non quella del lavoro e del sacrificio vissuti nella speranza del meglio. Così l'umile donna salentina calava e realizzava ne a propria vita il divino modello, traducendolo nella concretezza delle azioni e della condotta morale; madonna anche lei, In altro senso, esempio vivo e terrestre di un modello ultraterreno a misura d'ogni perfezione. Io bambino ero soggiogato dall'atmosfera mistico-religiosa che si respirava in casa durante il mese mariano. E vi contribuiva il misterioso spessore delle orazioni latine, che - a parte quelle più comuni, come L'Avemaria e il Paternoster -non riuscivo a capire. In particolare, ricordo ancora oggi una parola, che mi si era impressa nella mente per la sua stranezza fonetica o per la sua incomprensibilità: subbuttù. Che cosa mai era quel subbuttù, che mia madre pronunziava con forza e convinzione dopo le litanie, all'inizio di una sequenza? Quest'interrogativo mi accompagnò per vario tempo; fino -a quando cioè imparai, poi, col primo latinuccio, che essa risultava dall'agglutinazione deformante e popolaresca di Sub tuum, che insieme con praesidium, voleva indicare la Vergine Santa come scudo di difesa e di rifugio contro il peccato e il male. Una singolare e buffa deformazione, come tante altre sulla bocca del popolo nate da riduzione o traduzione fantasiosa di astratti suoni verbali. lo stesso ho sentito, nella chiesa cattedrale di Soleto, il versetto "Laudate Dominum omnes gentes" cantato a gola spiegata come "Laudate Domine ca è sorgente". Riduzione comunque anche culturalmente più valida di una formula spocchiosa. incomprensibile e dunque ipocrita, pronunziata in una lingua ingannevolmente elitaria. Può sembrare strano che nelle raccolte di canti e leggende in dialetto salentino non compaiano componimenti che in qualche modo si ispirino alla pratica del mese mariano, o che da essa traggano un aggancio alla fantasia. A tutti quanti è noto 'O mese mariano di Salvatore Di Giacomo, rappresentazione drammatica di un rito evidentemente già così diffuso da poter essere considerato senz'altro popolare. Ma in un grazioso opuscoletto del canonico Francesco Michelesi, intitolato La corona de' fiori sacra alla santissima Vergine Maria Madre di Dio, ossia La devozione del mese di maggio, e pubblicato a Napoli nel 1850, il cordiale autore e prefatore confessa di aver compilato il "devoto libretto" soltanto "per accrescere il propagamento di così utile spirituale esercizio". Non mi è sembrato indispensabile effettuare ricerche a questo proposito; ma ne ho, mi pare legittimamente, dedotto che la liturgia domestica del mese mariano nel 1850 dovesse essere ancora di recente diffusione; e infatti il buon canonico, sempre nella sua prefazione, suggerisce le modalità del rito, divenute poi estremamente note ed elementari: "...si adornerà decentemente un altare o un'immagine sacra a Maria Santissima, innanzi a cui si adunerano ... ". Era più facile dunque che si rinnovassero le ragioni e gli elementi di una esaltazione di Maria nella lingua del popolo, o addirittura che un poeta ci scrivesse sù un dramma; più difficile, anzi impossibile, che se ne reperissero antiche leggende. Esistono canti dialettali, qui da noi, di generica lode alla Vergine Santa, come quello che dice: "0 bella mia speranza, - dorce amore, mia Maria, - tu sei la vita mia, l'arma mia salvala tu ... ", con l'offerta finale: "Eccu miu cor, Maria; è tou e non è cchiù mmiu; prèndilu e dàllu a Ddiu, - ca nu llu vogliu ppiù" (l. Malecore, La poesia popolare nel Salento, Firenze, 1957, p. 231); dialettali per modo di dire e per intendersi, chè già qui si sente il sapore della traduzione dall'italiano, più che l'autoctonia del dialetto. 0 come in quella bellissima ninna-nanna, che si legge a p. 72 del 1° vol. della Grecia Salentina, silloge edita nel 1978 dall'editore Capone di Cavallino: O sonnu, sonnu,
sonnu 'ngannatore poesia certamente
in dialetto, ma altrettanto certamente poesia non dialettale, bensì
d'autore, e si sapientissimo autore (probabilmente conosceva il Pontano),
il quale alla notazione dotta e raffinata del sonno ingannatore sa accoppiare
dissimulatamente l'atteggiamento pedagogico di Maria Santissima che
approva la condotta del buon bambino andato in chiesa; e il quale ancora
alla ripetizione armoniosissima del "sonnu, sonnu, sonnu, 'ngannatore"
oppone di riscontro l'altra armoniosissima ripetizione di "nanna,
nanna, nanna, nanna sia". Tecnica comune alle ninne-nanne, si dirà;
ma proprio quest'affermazione segna, secondo me, un punto a vantaggio
della natura culta del componimento. Tanto più che la ninnananna
è in endecasillabi; e non è facile persuadersi che la
mamma, nell'addormentare l'infante, stesse lì attenta a quante
volte dovesse reiterare la parola "nanna", per non oltrepassare
la misura del verso. Vene nu ggiurnu,
stava ci screvia; A queste parole
San Giuseppe si rasserena e si pente del suo dubbio. Si intravede, attraverso
la narrazione dialettale, i cui sintomi sono ostentatamente italianizzanti,
il racconto in parte di Luca e in parte, per quel che riguarda San Giuseppe,
di Matteo. Ma non si può sottacere che tutte e due le volte che
compare l'Angelo del Signore, a Maria prima e a Giuseppe poi, l'una
e l'altro sono intenti a scrivere. Esaltazione e consacrazione addirittura
divina della cultura come integrale esigenza dello spirito, da parte
di chi di quella cultura si sente escluso o comunque enormemente distante,
e la contempla estasiato ed ammirato. E non si può neanche passare
sotto silenzio quella gemma linguistica della virginosa acantìa,
cioè della vuotezza sacra e misteriosamente intatta; dove la
verginità è tradotta popolarmente in dimensione fisica,
in una vuotezza topografica e fisiologica, ma in una mentale contemplazione
metafisica. E certo il turbamento di San Giuseppe è l'elemento
più umano e terrestre di quella divina vicenda, nella dialettale
metamorfosi. Pe ffurtuna te
Ddiu 'ccuntrau' na stalla; San Giuseppe sollecitamente obbedisce e rimedia alla necessità; ma sconfortato, esclama: "Ca cc'è bbruttu cu bbiessi puirieddhu"; ti mancano allora anche le fasce e gli "spargani" per il neonato. E la Madonna allora lo sostiene, lo conforta, lo incoraggia. Iti, Giuseppu
miu, nu tte 'tterrire! Forse la nota più
incisiva di questa "Natività" salentina è l'esclamazione
sulla "Bruttezza" della povertà ("ca cc'è
bbruttu cu bbiessi puirieddhu"), quando non si può disporre
neanche dello strettissimo necessario, anzi addirittura dell'indispensabile
alla sopravvivenza, come i panni per un neonato. Ma il pezzo rivela
coraggio, fiducia e forza d'animo, disponibilità all'aiuto reciproco
per il bene comune. Non una nota di amarezza o di ribellione in questo
famigliare quadretto, nel quale occupa bensì un suo consapevole
posto la dolorosa realtà dello stento, ma anche il sentimento
sincero di una profonda fiducia nella vita e di una viva speranza nella
Provvidenza. Certo; la Natività è di per sé universalmente
simbolica di quella realtà e di quel sentimento; ma nessuno vorrà
negare che gli "spargani" sono cosa tipicamente salentina
(anzi sono qui esattamente chiamati "sparicanelle"), e che
tipicamente salentina potrebbe essere l'accettazione rassegnata, sì,
ma anche fiduciosa di una condizione carente, grazie al reciproco amore
e dunque al reciproco aiuto anche spirituale del componenti della famiglia,
ove spesso proprio nel Salento e proprio alla donna è riservata
la parte di più robusto sostegno psicologico e di più
aperta responsabilità morale. -Palumbella,
palumbella, Il centro figurativo,
e direi anche ideologico, di questa dialettale Natività sta in
quell'angelo che scende dal cielo, bianco e incoraggiante, come una
"palumbella" a portare qualcosa di buono per tutti. Per il
battesimo di Cristo nientemeno che zucchero e cannella, dolci in abbondanza
e fragranti; ma porta anche preghiere per i nostri cari defunti ("la
mamma mia... lu tata meu"), un paternoster e un De profundis (così
penso sia da intendere il "brafunnu") al mondo dei vivi e
al mondo dei morti; e ai poveri un piatto di verdura ("lu piatticeddhu
te mugnulieddhi"), e ai ricchi un piatto di pesce fritto. lo non
so se questa filastrocca sia indigena; occorrerebbero indagini ampie
ed attente che non è mio compito effettuare e non rientrerebbero
nelle mie competenze e nelle mie possibilità. Ma se essa fosse
propriamente salentina (e comunque se originariamente non lo fosse stata,
ormai è diventata tutta cosa nostra), vi si potrebbero leggere
l'atavica miseria dei ceti maggiormente diseredati: zucchero e cannella
vi si tramutano addirittura in nettare e ambrosia divina; l'estremo
traguardo gastronomico dei poveri, nel giorno addirittura di Natale,
è visto in un "piatticeddhu te mugnulieddhi"; o alla
mensa dei ricchi, supremo gaudio, è attribuito "nu piatticeddhu
te pisci fritti". Il pesce fritto, la frittura di pesce, per quanto
per tutti gustosa, vi diventa l'emblema della più invidiabile
ricchezza. Ed è commovente che a questa immensa tavolata di cibi
spirituali e corporali sia chiamata a partecipare anche la "Nunziata,
-tutta pinta e llacerata", che a me pare il simbolo della prostituzione
condizionata e causata dalla fame, in un abbraccio di pietà umana,
prima che cristiana. E amarezza non c'è nel testo dialettale,
che procede sicuro e rapido nella sua rassegnata fiducia; amarezza pullula
invece nell'animo del lettore, il quale, leggendo quei versi, vi ritrova
press'a poco il se stesso di un tempo; e vi ritrova l'indissolubile
legame dell'affetto famigliare senza remore e senza inibizione alcuna.
Ora, la difesa, possibilmente il consolidamento, dei legami dell'affetto
famigliare, mi sembra che tradizionalmente nel Salento sia stata affidata,
e non soltanto a livello popolare, alle madri di famiglia, piuttosto
che ai padri; a queste autorevoli, se non autoritarie, eppure benevole
e comprensive mamme, parsimoniosissime e oculate amministratrici, legate
alla prole fino al supremo sacrificio, madonne pronte a frenare l'ira
del paterfamilias verso il figliuolo discolo, inclini a intercedere
per lui quando lo ritenessero opportuno, cardini e pilastri della vita
domestica alla quale interamente si dedicano (o si dedicavano). L'occorrenza
di certe feste particolarmente sentite offriva loro la possibilità
di rinnovare volta per volta e di cementare l'unità della famiglia;
Natale col digiuno della vigilia, col presepe in casa e il sacramentale
cenone; la Befana col carbone vero e il rilucente nichelino nella calza
(che malinconia vedere appeso nei negozi, nei giorni dell'Epifania,
non più festa, quelle calzine rosa prefabbricate! ... ); Pasqua
di Resurrezione con le cerimonie anche casalinghe della Settimana Santa;
la supplica in casa, e non in chiesa, alla Madonna del Rosario puntualmente
l'8 di maggio e la prima domenica di ottobre; la festa dell'Immacolata
col digiuno e con l'atmosfera prenatalizia. La gente utrantine
hannu vista na lumera; Altri più
bravo, più preparato e magari più curioso di me, saprà
facilmente ricostruire la leggenda intera, entro la quale si iscrivono
questi ruderi dialettali messi insieme dalla Malecore. Ma a me interessa
- e mi è sufficiente - porre accanto queste due Madonne delle
Grazie, le quali, calate in circostanze tanto diverse, tuttavia in qualche
modo si rassomigliano. All'esemplare giustizia quasi da codice penale
della Madonna delle Grazie soletana fa riscontro il burocraticismo,
l'apparente mentalità gerarchica e clericale della Madonna delle
Grazie otrantina; la quale disdegna di approdare e si arretra quando
le vanno incontro "li marinari", cioè i pescatori,
e tocca terra soltanto quando "sona Capitulu e scise Bonsignore".
Dietro quest'ultima notazione forse non è da cogliere tanto una
presa di posizione sociale, quanto l'istanza - a me pare - di accogliere
la Madonna con ogni solennità possibile, affiorando dunque la
sensibilità rituale e liturgica come espressione di una religione
rappresentata nelle sue forme più scenografiche e accattivanti.
Tuttavia i pescatori, cioè i poveri, rimangono emarginati effettivamente;
e da tutto il passo qualcuno potrebbe ricavare sentore dell'ammirazione,
certamente salentina, o se si vuole anche salentina, causata dalle più
prestigiose manifestazioni esteriori del potere. - Mesci, mesci,
cce arte stati fandu? Nelle altre varianti la Madonna prega i fabbri di dare i chiodi "fini e suttili, - c'hannu ttrasire intru carni civili"; e la notazione sacra ("carni 'ndolurati") si colora di patina sociale ("carni civili"). Ma l'elemento sociale, meglio, il riferimento sociale alla condizione della povera gente, affiora con pietosa comprensione nel diverso svolgimento dello stesso tema, in altre testimonianze dialettali sull'Addolorata. E non tanto in quella in cui al sitio di Gesù la madre, impotente di aiutarlo, gli offre, come un tempo, come al tempo della maternità, la propria mammella, quanto in un'altra, in cui Cristo invece di acqua chiede pane (Malecore, 393): Tre paruleddhe
disse la Madonna: E a nessuno, credo,
sfuggirà la dolcezza un po' ghiotta, ma remota, del taralluccio
racchiuso nello stoppello, e la delusione dell'aver trovato invece lo
stoppello vuoto: la Passione emblematizzata nel segno della fame, e
il sogno di calmarla accarezzato dalla tenerezza dei diminutivi. |
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