La situazione
delle imprese italiane
La struttura e il conto del finanziamento
I comportamenti delle aziende.
Il funzionamento del mercato dei capitali
Le vicende dell'industria
italiana nella seconda metà degli anni '70 indicano un notevole
sforzo di adattamento alle profonde modifiche avvenute nel corso degli
anni precedenti nell'evoluzione e nella struttura della domanda, nella
disponibilità e nei costi relativi dei fattori produttivi, nelle
caratteristiche e nel funzionamento dei mercati finanziari.
Tale sforzo è stato perseguito con successo da una larga parte
di imprese, soprattutto medie e piccole: non ha prodotto finora risultati
di rilievo per alcune imprese, specialmente di grande dimensione, anche
perché operanti in settori, quali il chimico e il siderurgico,
colpiti da crisi di dimensione internazionale. Restano, più in
generale, incertezze sulla durata del miglioramento, tenuto conto di
alcune caratteristiche che esso presenta.
Queste sommarle conclusioni trovano fondamento nell'analisi dell'evoluzione
dell'interscambio con l'estero, dell'accumulazione del capitale, della
ricerca applicata, dei conti economici e finanziari delle imprese.
L'andamento dell'interscambio con l'estero di manufatti indica che l'attivo
dell'Italia e aumentato da 5 miliardi di dollari del 1973 a 19 nel 1981,
dopo la punta del 22,1 raggiunta nel 1979. Tale miglioramento non e
ancora sufficiente a coprire il peggioramento del disavanzo petrolifero,
salito tra il 1973 e il 1981 da 1,6 a 20,4 miliardi di dollari. Nell'arco
di tempo considerato il saldo delle materie prime non petrolifere e
aumentato da -7,4 a -9 miliardi di dollari, mentre quello dei servizi
e rimasto pressochè stazionario (da 1,5 a 2,3 miliardi di dollari),
dato che al maggior apporto del turismo si e contrapposto un aggravamento
degli oneri finanziari. Quale effetto finale delle variazioni sopra
indicate, la bilancia delle partite correnti, già passive per
2,5 miliardi di dollari nel 1973, si e chiusa nel 1981 con un disavanzo
di 8,1 miliardi di dollari.
L'apporto dato dall'industria al nostro conto con l'estero e stato conseguito,
oltre che con il contenimento delle importazioni, anche con l'aumento
della quota delle esportazioni, salite tra il 1973 e il 1980 dal 6,1
al 7,1% (dopo la punta del 7,5% nel 1979). La accresciuta penetrazione
sui mercati internazionali e avvenuta grazie soprattutto ai risultati
conseguiti dai settori cosiddetti "maturi", caratterizzati
da un elevato numero di imprese di piccola e media dimensione; le quali
hanno saputo adattarsi rapidamente ai mutamenti qualitativi e geografici
della domanda. In particolare, il saldo attivo dei settori tessile,
abbigliamento, arredamenti, pelli e cuoio e "altri prodotti manifatturieri"
e salito tra il 1973 e il 1981 da 1.700 a 11.000 miliardi di lire.
Il miglioramento del saldo manifatturiero sottintende quindi un ulteriore
aumento della già elevata specializzazione produttiva del nostro
Paese nei settori a bassa tecnologia, la cui incidenza sul totale delle
esportazioni sale tra il 1970 e il 1980 dal 38,5 al 44% a fronte di
una contrazione dal 50 al 44,5% della quota dei prodotti a tecnologia
intermedia, mentre la quota di prodotti a elevato contenuto tecnologico
resta immutata sul modesto livello (11,5%) del 1970.
Questa evoluzione controcorrente della specializzazione produttiva dell'Italia,
se da un lato attesta la validità di larga parte del nostro tessuto
industriale e la possibilità di mantenere vantaggi comparati
anche nei settori cosiddetti "maturi" quando le aziende vengono
gestite efficientemente e costantemente aggiornate e innovate nei processi
e nei prodotti, dall'altro non può non preoccupare per l'inadeguato
sviluppo dei settori a tecnologia intermedia e avanzata, il cui arretramento
sembra indicare che sia in corso un ampliamento, anziché una
riduzione, del ritardo tecnologico del nostro Paese.
Tale fenomeno e in parte collegabile anche alla perdurante crisi della
grande impresa, la quale non può in tali condizioni svolgere
adeguatamente il suo insostituibile ruolo nell'elaborazione e nella
diffusione della ricerca applicata e dell'innovazione.
A simili conclusioni si giunge esaminando i sia pur limitati dati disponibili
sulle spese per la ricerca e lo sviluppo. La loro incidenza sul prodotto
interno lordo, in leggera crescita fino all'inizio degli anni Settanta,
si e successivamente attestata sui modesti livelli raggiunti all'inizio
del decennio, pari allo 0,9% e quindi inferiore alla metà della
quota del reddito reinvestita nella ricerca e sviluppo degli altri Paesi
industrializzati. Sfavorevole risulta anche il confronto delle spese
per ricerca e sviluppo effettuate direttamente dalle imprese, dato che
la quota di queste sul totale delle spese per la ricerca e in Italia
più bassa di quella degli altri Paesi industriali, eccetto il
Giappone.
Lo sforzo di adeguamento alla mutata composizione della domanda e ai
nuovi prezzi relativi dei fattori e indicato anche dall'evoluzione degli
investimenti che, per quanto condizionati nel loro ammontare complessivo
dalle modeste prospettive di sviluppo, denotano nella loro composizione
- prevalentemente orientata agli investimenti sostitutivi - un evidente
proposito di razionalizzazione dell'apparato produttivo.
La struttura produttiva italiana all'inizio degli anni '80 sembra caratterizzata
da una nuova forma di "dualismo" tra imprese "flessibili"
(per lo più di piccola e media dimensione e diffuse largamente
anche nei settori cosiddetti "maturi") e imprese "rigide"
(per lo più di grande dimensione e concentrate nei settori a
maggiore intensità di capitale).
Questo dualismo emerge dall'analisi dei conti economici e degli stati
patrimoniali delle imprese. Se si fa riferimento al gruppo di società
rilevate da Mediobanca si osserva che esso, nel suo complesso, presenta
da anni perdite di gestione che, pur essendo diminuite rispetto al livello
del 4,2% del fatturato raggiunto nel 1975 al culmine della fase recessiva
seguita alla crisi petrolifera, si sono tuttavia mantenute costantemente
tra il 2 e il 3%. Le perdite sono dovute sia al livello inadeguato del
margine operativo lordo (7-8%) sia all'incidenza degli oneri finanziari
(6-7%) che assorbono quasi interamente il margine operativo lordo.
I risultati complessivi sottintendono tuttavia situazioni profondamente
diverse. Mentre le imprese pubbliche (per lo più grandi) hanno
subìto perdite di gestione costantemente superiori al 5% (dopo
la punta del 6,8% del 1975), le imprese private, dopo la perdita del
2,6% registrata nel 1975, hanno chiuso negli anni successivi quasi in
pareggio. Considerando poi le sole "piccole imprese", si nota
che il risultato di gestione, negativo per lo 0,6% nel 1975, e tornato
positivo in tutti gli anni successivi.
Il grado di capitalizzazione resta invece modesto per tutte le imprese.
A fine 1980 I mezzi propri costituivano mediamente il 15,5% del passivo,
risultante dal 13% delle imprese pubbliche e dal 18% delle private.
Ciò riflette in larga misura la flessione dell'autofinanziamento
che, pari ancora al 59% della formazione lorda di capitale nella media
del periodo 1963-1968 (per il gruppo di società rilevate dalla
Banca d'Italia), e sceso al 51% nel quinquennio successivo e al 47%
nel periodo 1974-1979. La flessione e stata particolarmente accentuata
per le imprese a partecipazione statale, il cui autofinanziamento ha
coperto in quest'ultimo periodo solo il 22% della formazione lorda di
capitale contro il 63% delle imprese private. L'elevata dipendenza dal
finanziamento esterno che ne e derivata ha accresciuto l'esposizione
delle imprese alle fluttuazioni dei mercati finanziari, costituendo
un ulteriore vincolo per la gestione della politica monetaria.
In una situazione di elevata instabilità dei prezzi, come quella
che caratterizza l'economia italiana dall'inizio degli anni Settanta,
il finanziamento delle imprese produttive, e soprattutto il finanziamento
degli investimenti, e stato ostacolato dall'elevata preferenza per la
liquidità dei risparmiatori e dalla richiesta di fondi a fronte
di attività a breve sull'interno e sull'estero. Soprattutto in
presenza di un ampio disavanzo pubblico, il finanziamento delle imprese
viene "spiazzato" da quello del Tesoro.
I principali problemi riguardano la formazione del capitale di rischio,
la domanda di titoli a lungo termine, il costo dell'indebitamento.
a) L'inadeguata formazione di capitale di rischio, caratteristica strutturale
del nostro sistema produttivo, riflette in primo luogo carenze di offerta,
in quanto gli aumenti di capitale offerti in sottoscrizione al pubblico
non sono spesso quelli delle imprese con le migliori prospettive di
redditività. Anche la domanda potrebbe tuttavia essere notevolmente
accresciuta con una migliore funzionalità della Borsa e l'arricchimento
della gamma degli strumenti e degli intermediari.
Va in ogni caso sottolineato che una maggiore capitalizzazione delle
imprese, opportuna in un periodo di stabilità, diviene necessaria
in una situazione di elevata fluttuazione ciclica e di forte instabilità
dei prezzi e dei tassi. L'espansione della domanda di azioni iniziata
nel 1980, pur avendo consentito nel 1981 di collocare azioni per circa
7.000 miliardi contro una media di 3.000 miliardi nel triennio precedente,
ha confermato con il successivo calo che i problemi strutturali del
mercato azionario restano in buona parte da risolvere.
b) Lo spostamento della domanda verso i depositi e i titoli a più
breve scadenza, oltre che accrescere la liquidità e quindi l'instabilità
dell'intero sistema economico, ostacola il finanziamento degli investimenti,
in particolare di quelli a più a lungo ciclo di ammortamento,
e rappresenta quindi uno dei modi attraverso i quali l'inflazione esplica
i suoi effetti destabilizzanti e disallocativi. Per contrastare tale
tendenza e riequilibrare la domanda di attività finanziarie vanno
ancora incoraggiati la diffusione di titoli a rendimento variabile con
margini crescenti in funzione della durata, un maggiore ruolo delle
aziende e degli istituti di credito nella trasformazione delle scadenze,
l'utilizzo dello strumento fiscale per incentivare la sottoscrizione
da parte del pubblico dei titoli a più lunga scadenza.
I risultati di questa politica hanno già cominciato a manifestarsi;
il collocamento sul mercato di titoli a reddito fisso (esclusi i Bot),
diminuito da 20.000 miliardi nel 1978 a 2.000 miliardi nel, 1980, e
risalito a 12.500 miliardi nel 1981; gli acquisti netti del pubblico,
negativi per oltre 1.000 miliardi nel 1980, hanno superato nello scorso
anno I 7.000 miliardi. La ripresa della domanda di titoli, pur ancora
contenuta soprattutto per quelli di più lunga durata, e stata
incentivata dalla diffusione dei titoli a rendimento variabile, il cui
collocamento sul mercato è salito nei due ultimi anni da 800
a circa 7.000 miliardi, pari a oltre la metà dei titoli a medio
e lungo termine complessivamente collocati sul mercato.
La maggiore ricettività del mercato obbligazionario e la ricerca
di nuovi canali di finanziamento hanno consentito una netta ripresa
anche dell'attività degli istituti di credito speciale. La loro
operatività resta tuttavia condizionata dalla difficoltà
della provvista per il credito agevolato, i cui meccanismi non consentano
il ricorso alle forme di raccolta più gradite al mercato, almeno
finché non verrà approvata dal Parlamento il disegno di
legge di riforma del credito agevolato.
c) Il problema del costo dell'indebitamento va affrontato tenendo presente
che la remunerazione del risparmio, soprattutto delle sue forme meno
liquide, non può essere disgiunta dal tasso d'inflazione, non
solo per esigenze equitative, ma anche e soprattutto di efficienza allocativa,
dato che l'inadeguatezza del tasso di interesse può determinare
- come in effetti e avvenuto in taluni periodi - una riduzione della
propensione al risparmio e/o un dirottamento del risparmio verso beni
di rifugio e altri impieghi speculativi all'interno e all'estero.

Nel complesso, il costo dell'indebitamento in termini reali ha avuto
sensibili oscillazioni, risultando talora addirittura negativo; nel
corso del 1981 ha raggiunto, per l'effetto concomitante della decelerazione
dell'inflazione e dell'aumento dei tassi imposto dai vincoli derivanti
dall'operare in un mercato internazionale, valori positivi di una certa
entità, restando in ogni caso inferiore ai livelli raggiunti
nei principali Paesi industriali e segnatamente negli Stati Uniti.
In effetti, l'incidenza del fatturato degli oneri finanziari sostenuti
dal gruppo di imprese rilevate e aumentato tra il 1974 e il 1980 solo
di un punto, passando dal 5,7 al 6,8%, benché nello stesso periodo
il costo dell'indebitamento sia salito dal 10,5 al 18%. Ciò e
stato possibile in quanto l'incidenza sul fatturato dell'indebitamento
finanziario e diminuita dal 54,6 al 37,8%, in parte per effetto degli
interventi di razionalizzazione e risparmio di capitali realizzati dalle
imprese, ma in buona parte certamente per effetto dell'inflazione, la
quale, se da un lato "gonfia" i tassi, dall'altro "svaluta"
l'indebitamento. Va inoltre tenuto presente che, data la correlazione
dei tassi di interesse con il tasso di inflazione, gli oneri finanziari
- a parità di indebitamento - tendono a variare in misura corrispondente
non al tasso di inflazione, ma alla sua variazione; l'aumento della
loro incidenza sul fatturato nelle fasi di accellerazione dei prezzi
rappresenta quindi - entro certi limiti - un fenomeno fisiologico, destinato
a trovare compensazione nella fase di decelerazione dei prezzi, quando
l'incidenza degli oneri finanziari sul fatturato dovrebbe diminuire.
Il rallentamento dell'inflazione rappresenta quindi, unitamente al contenimento
del disavanzo pubblico e al riequilibrio della bilancia dei pagamenti,
il necessario presupposto sia per un graduale abbassamento del costo
del denaro, sia per una piena ripresa dei mercati finanziari. Sarebbe
tuttavia illusorio attendersi dalla riduzione dei tassi di interesse
la soluzione di problemi aziendali di diversa natura.
L'attuale processo inflazionistico ha inciso profondamente sui comparti
produttivi e sulle imprese maggiormente impegnati nella realizzazione
di progetti di investimento. I piani finanziari, prevalentemente basati
su fonti di finanziamento esterne a tasso fisso e con scadenza a lungo
termine, hanno dovuto essere riformulati per tenere conto sia degli
indirizzi di politica creditizia sia delle condizioni dei mercati finanziari.
La preferenza dei risparmiatori per la liquidità ha reso problematico
il ricorso al mercato obbligazionario nelle forme tradizionali. E' stato
intanto necessario favorire una politica di diversificazione dell'offerta
che ha riguardato la durata, le forme di emissione e il rendimento dei
titoli. In particolare, dato l'elevato rischio dei prestiti a tasso
fisso e di lunga durata, ampio spazio e stato i riservato alle emissioni
di obbligazioni con indicizzazione finanziaria, il cui volume, per quanto
riguarda gli istituti di credito mobiliare, presenta tra il 1980 e il
1981 un aumento dal 27 al 53% del totale.
L'elevatezza dei tassi di interesse - che nel 1981 hanno assunto valori
reali positivi - e l'attesa di ulteriori forti variazioni dei prezzi
dei beni di investimento hanno indotto le imprese a modificare le strategie
di gestione con riguardo sia agli aspetti reali che a quelli finanziari.
Sotto il profilo reale, le imprese hanno teso a concentrare in periodi
di tempo più ristretti la realizzazione dei progetti di investimento
e a razionalizzare la gestione delle scorte e in particolare il collocamento
di titoli a tassi fissi. Ne sono derivati effetti negativi per il finanziamento
del sistema del credito agevolato ed in generale per il funzionamento
dell'attività di investimenti.
Sotto il profilo finanziario, esse hanno anticipato la domanda di fondi
in corrispondenza all'accelerazione nel realizzo dei progetti di investimento
e variato la composizione delle fonti di finanziamento fino a fare ricorso
a nuovi circuiti alternativi a quelli finanziari tradizionali.
In particolare, le imprese hanno svolto un'azione di affidamento della
strategia finanziaria diretta:
- al contenimento delle attività finanziarie a breve; obiettivo
perseguito attraverso: la razionalizzazione della gestione di cassa
che, a livello di gruppi, ha spesso portato alla centralizzazione della
stessa; l'aumento della velocità di circolazione delle attività
finanziarie medesime; l'utilizzo, nel caso di impreviste esigenze di
cassa, di strumenti di mercato monetario (accettazioni bancarie);
- alla scelta di una struttura dei finanziamenti che limitasse, anche
in prospettiva, gli oneri per il conto economico e riducesse il peso
dell'indebitamento a più breve scadenza.
Si e manifestato, così, un ampio ricorso agli strumenti di finanziamento
diretto, quali le azioni e le obbligazioni, sia convertibili sia a tasso
variabile.
Nel 1981 l'attività di collocamento di azioni si e ragguagliata
a poco meno di 7.000 miliardi, importo questo circa doppio rispetto
a quello registrato nell'anno precedente. Un tale ricorso al mercato
azionario e da collegare a molteplici cause. Tra queste appare rilevante,
accanto alle difficoltà di approvvigionamento di fondi presso
il sistema bancario e alla necessità di contenere l'indebitamento,
anche l'espansione dell'attività borsistica nei primi mesi del
1981. Per quanto concerne, infatti, le società quotate in Borsa,
la tendenza a finanziarsi con capitale di rischio si e ampliata a seguito
delle favorevoli attese di sottoscrizione dei titoli azionari connesse
alla crescita dei listini. Nella prima parte dell'anno, in coincidenza
anche con le assemblee di approvazione dei bilanci, sono state impostate
le ricapitalizzazioni delle maggiori società quotate, molte delle
quali coadiuvate da consorzi bancari di garanzia. Peraltro, la crisi
che ha investito la Borsa verso la metà dell'anno ha costretto
diverse società a rinviare gli aumenti di capitale progettati.
Riguardo ai titoli obbligazionari, favoriti dall'introduzione dell'esenzione
fiscale sugli interessi, si e esteso il ricorso all'emissione di obbligazioni
convertibili e all'indicizzazione finanziaria, con una forte tendenza
delle imprese a diversificare i parametri di variabilità e le
loro condizioni. La banca d'Italia, al fine di assicurare la necessaria
trasparenza del mercato, ha applicato al comparto delle società
per azioni linee-guida dirette ad evitare l'utilizzo di parametri non
facilmente identificabili.
L'importo delle obbligazioni convertibili si e decuplicato nel 1981
nei confronti dell'anno precedente; l'incremento deriva da motivazioni
di convenienza che riguardano sia il risparmiatore sia l'emittente.
L'investitore, infatti, attenua l'alea della svalutazione monetaria,
poiché acquisisce, oltre al rendimento dell'obbligazione, la
facoltà di esercitare il diritto di conversione, ottenendo un
titolo con diritto sul patrimonio dell'impresa. La società emittente,
d'altra parte, può finanziarsi senza dover ricorrere ad un aumento
immediato di capitale e può collocare i propri titoli a tassi
di interesse meno elevati di quelli correnti. Le limitazioni delle emissioni
convertibili consistono soprattutto nell'incertezza sui tempi dell'esercizio
del diritto di conversione e nella conseguente difficoltà, per
l'emittente, di programmare la gestione finanziaria nel lungo termine.

L'atteggiamento delle imprese e stato, infine, caratterizzato dal tentativo
di migliorare la struttura finanziaria attraverso il ricorso a strumenti
non tradizionali, quali il leasing e il factoring. Tali istituti, infatti,
consentendo l'utilizzo dei mezzi necessari al processo produttivo senza
pervenire all'acquisizione diretta degli stessi e facilitando il realizzo
dei crediti commerciali, permettono di contenere il grado di indebitamento
e di influire positivamente sulla gestione della liquidità con
indubbi vantaggi economici, tanto più elevati quanto maggiore
e il differenziale fra costo dei fondi e rendimento del capitale investito
nell'impresa.
In proposito va notato che, da un punto di vista generale,. l'espansione
di queste attività può considerarsi positivamente per
i riflessi sulla produttività, sul costo finale dell'investimento
e sulla struttura patrimoniale e finanziaria delle imprese. Infatti,
in presenza di aspettative di non decelerazione del processo inflazionistico,
il ricorso alla locazione finanziaria permette di contenere i tempi
e i costi di realizzazione delle decisioni di investimento, agevolando,
da un alto, l'intensificazione del fattore capitale e recando, dall'altro,
benefici al conto economico delle imprese in connessione al più
rapido processo di ammortamento implicito nella previsione fiscale di
integrale deducibilità dei canoni. Inoltre, l'utilizzo dei servizi
di leasing e di factoring aumenta l'elasticità della gestione
patrimoniale e finanziaria, riducendo il peso delle attività
immobilizzate, accrescendo la velocità di rotazione di quelle
a breve e contenendo il grado di indebitamento e, quindi, il rischio
finanziario.
Tuttavia, occorre osservare che la crescita del numero degli intermediari
operanti nei settori indicati, derivante anche dalla costituzione di
società funzionalmente o patrimonialmente non collegate con istituzioni
creditizie, e il ricorso al mercato di titoli atipici di massa possono
porre problemi sotto l'aspetto dell'efficienza allocativa e ostacolare
il mantenimento di condizioni di trasparenza e di ordinato sviluppo
del mercato dei capitali. Tali considerazioni portano a convenire sull'opportunità
di seguire con attenzione i circuiti finanziari alternativi a quelli
creditizi, anche ai fini di una regolamentazione sul piano generale.
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