Le decisioni che
si dovranno prendere sulla spesa pubblica costituiscono la vera scelta
che condizionerà non soltanto tutti gli impegni della politica
economica italiana per il 1983, ma anche le prospettive a medio e a
lungo termine del nostro Paese. Poco o niente resterà fuori:
i vincoli di cambio con il resto della Comunità Economica Europea,
la politica salariale, Il controllo dei costi industriali, la previdenza.
Tuttavia, l'aver caricato di poteri taumaturgici una serie di obiettivi
cifrati, quali il famoso "tetto" dei 50 mila miliardi al disavanzo
pubblico, comportato oggi il rischio di scivolare sempre più
su questioni astratte e dottrinarie, senza che si possano individuare
con sufficiente libertà psicologica i veri nodi da intaccare.
L'incredibile spettacolo al quale per mesi abbiamo assistito, protagonisti
i responsabili dei singoli dicasteri che si davano la caccia per sottrarsi
a vicenda le ultime poche lire da mettere in bilancio, è stato
il primo risultato di una eccessiva "politicizzazione" del
problema di una ristrutturazione della spesa statale, quasi che le competenze
amministrative siano divenute competenze di partito e non di programmazione
economica generale.
Il primo vuoto da riempire appare proprio quello di un quadro certo
di riferimento entro cui muoversi, un quadro che sarà tanto più
credibile quanto maggiore potrà essere la sua profondità
di campo. Qualche anno fa, su queste stesse colonne della "Rassegna"
avvertivamo già la necessità che le autorità monetarie
(Tesoro e Banca d'Italia) impegnassero tutta la loro autorevolezza nel
presentare un proprio programma triennale finanziario, compatibile con
l'obiettivo della disinflazione, prima che le decisioni "reali"
potessero essere prese dal soggetti cui competono: Governo e Parlamento
per la finanza pubblica, parti sindacali ed imprenditoriali per il costo
del lavoro. Il tentativo di stabilire in tal modo un qualche "gioco
d'anticipo" piuttosto che "di rimessa" è fallito
però proprio sulla ostinata resistenza dei soggetti politici
a rinunciare alle loro "autonomie" e alle "sovranità"
decisionali.
Si è avverato, dunque, quel che noi e altri commentatori immuni
da interessi di parte avevamo temuto. Le decisioni "reali"
hanno preceduto la definizione delle compatibilità finanziarie
tra inflazione, crescita del reddito, volume di investimenti, risultando
del tutto incoerenti tra loro, e anzi alimentando una serie di leggerezze
imperdonabili. In più, non essendosi determinato nemmeno a posteriori
un quadro di riferimento, i colpevoli di tanta immoderatezza e faciloneria
hanno potuto, da un lato, godere di una ingiustificata impunibilità
e, dall'altro, di un comodo sistema per scaricare sull'avversario politico
di turno le responsabilità del mancato raggiungimento degli obiettivi
dichiarati a parole.
Se si va a rileggere quel che scrisse Giorgio La Malfa nel luglio 1978
stendendo il "piano di rientro" dall'inflazione per il Ceep,
si ritrovano alcune delle indicazioni che avrebbero potuto essere più
facilmente seguite: per esempio, un unico "tavolo" al quale
governo, imprenditori e sindacati potessero definire contestualmente
politica dei redditi, bilancio pubblico e politica monetaria. Più
ardita e stimolante era stata la proposta avanzata da noi e da altri
economisti e commentatori (soprattutto Mario Monti e Paolo Glisenti):
affidare a un soggetto (la Banca d'Italia) istituzionalmente dedito
alla lotta all'inflazione e che ha dimostrato di essere più efficiente
nell'analisi e nell'azione, il ruolo di energia levatrice. Il fuoco
delle polemiche che si è abbattuto su Ciampi dopo la sua ultima
relazione fa pensare che non soltanto un ruolo dirigistico, ma anche
una più semplice funzione consuntiva della Banca d'Italia vengono
tuttavia rigettati a priori in sede politica.
Non può, dunque, stupire che il peso della spesa pubblica sia
passato nell'ultimo anno dal 47 al 52 per cento del prodotto interno
loro e che l'indebitamento abbia raggiunto il livello più alto
del dopoguerra, eccedendo in misura abnorme quello degli altri principali
Paesi dell'Ocse. In prospettiva, la situazione appare addirittura drammatica:
a questi ritmi, il debito pubblico italiano dovrebbe crescere di altre
sette volte nel prossimi dieci anni, contro aumenti prevedibili di 2-3
volte in Paesi come la Francia, il Regno Unito, la Repubblica Federale
Tedesca; il credito totale interno si espanderebbe esclusivamente in
conseguenza del maggiore fabbisogno statale e, anche qualora si tenga
conto dei trasferimenti finanziari alle aziende del settore pubblico,
la quota di credito utilizzata dall'economia - già oggi incredibilmente
inferiore al 50 per cento - continuerebbe a scendere fino a stringere
la produzione in una morsa implacabile. Fin da ora, comunque, possiamo
vantarci di un primo record negativo: un indebitamento pubblico complessivo
che toccherà I 320 mila miliardi quest'anno e che, avendo già
raggiunto il 71 per cento del prodotto interno lordo, ci pone tra i
Paesi con i maggiori squilibri finanziari interni. Siamo, con ogni probabilità,
ai prodromi di una crisi finanziaria gravissima, tale da sovvertire
tutti i problemi "reali" che in questo periodo occupano la
scena nazionale, se essi dovessero restare irrisolti o comunque venissero',
affrontati con soluzioni di facciata; poco importerà che lo Stato
sia l'unico operatore al riparo da ogni rischio di insolvenza. Un "effetto
domino" di bancarotte contabili prenderà l'avvio dalle famiglie,
il cui risparmio viene deglutito per oltre metà dallo Stato,
e si estenderà alle imprese costrette ad operare, in un quadro
di tassi d'interesse sempre più alti e di restrizioni quantitative
al credito ed impegnate ormai a misurare i propri successi ed insuccessi
quasi esclusivamente nell'abilità con cui gestiscono la tesoreria
con ottica speculativa e meno nella "expertise" degli investimenti.
L'economia non e tutto, soprattutto l'economia non è un fatto
tecnico. A livello di crisi, a livello delle misure necessarie oggi,
e un fatto essenzialmente politico e come tale è all'attenzione
e al centro dell'azione di studiosi e di politici. Bene. Non va dimenticato
che la crisi italiana e in certa misura parallela a quella di altri
Paesi; c'è dappertutto una degenerazione dello Stato assistenziale;
c'è un'indisciplina degli animi; c'è un'anarchia corporativa.
Non dimentichiamo neppure che ci sono dei motivi obiettivi di crisi
che non dipendono dal popolo né dal governo: così la crisi
energetica, il peggioramento delle ragioni di scambio, le immense forsennate
spese di riarmo, le trasformazioni tecnologiche accellerate, l'affacciarsi
al mercato mondiale di Paesi di nuova industrializzazione e i peculiari
problemi del Terzo e del Quarto Mondo.
Detto questo, occorre però riconoscere anche che la nostra crisi
e particolarmente acuta, ha tratti propri, e comunque le difficoltà
altrui per un Paese di trasformazione come l'Italia sono un motivo di
ulteriore pericolo e non certo un motivo di pigra consolazione. Certo,
il cosiddetto "vincolo esterno" è un fatto obiettivo,
che non appartiene né a Lama né a Merloni, e neppure ad
Andreatta o a Formica. Questo vincolo esterno ci impone una presenza
competitiva sul mercato europeo, a cui noi siamo aperti, o sul mercato
mondiale, per mantenere la nostra bilancia in equilibrio, diversamente
le conseguenze pericolose che sono già in atto possono ulteriormente
aggravarsi. Quanto è il disavanzo della bilancia commerciale,
che e più importante a questi scopi che non quella valutaria?
Vorremmo ricordare che nel 1980 abbiamo avuto un disavanzo commerciale
di 18.700 miliardi, nel 1981 di 17.600 miliardi, e nel primi otto mesi
dell'82 di 14.700 miliardi. Ciò significa, se non ci sarà
un peggioramento, circa 22.000 miliardi nel corso dell'intero anno.
Una conseguenza diretta è una grave riduzione delle riserve della
Banca d'ltalia: al 30 aprile '82 avevamo valute convertibili per cinque
miliardi e 800 milioni di dollari, con una diminuzione di tre miliardi
e 700 milioni dal 31 dicembre dell'anno precedente.
Contro queste riserve c'erano 48 miliardi di dollari di debiti esteri,
di cui 33 miliardi di medio e di lungo termine, e 13 miliardi di indebitamento
bancario netto. In altre parole, l'indebitamento bancario netto era
più del doppio delle riserve di valuta disponibili.
Tanto per fare un paragone, ricordiamo che il totale dei debiti del
Comecon (quasi tutti a media o a lunga scadenza) è di 70 miliardi,
contro i nostri 48. Il Comecon comprende l'Unione Sovietica, ma per
soli 20 miliardi. Noi, cioè, siamo molto più indebitati
che non l'Urss.
C'è una lira debole, abbiamo avuto ripetute svalutazioni, che
non hanno dato nessuno stimolo a maggiori vendite. Al massimo ci hanno
permesso di mantenere un certo ritmo di vendite, ma hanno anche alimentato
l'inflazione attraverso l'aumento dei prezzi interni. Ci sono differenziali
di inflazione molto gravi. Nel giugno 1981 avevamo un'inflazione del
20 per cento, oggi è del 15-16 per cento, ma gli Stati Uniti
sono al 9 per cento, il Giappone al 3 per cento, la Germania occidentale
al 5 per cento, il regno Unito al 10 per cento. Quanto alla Francia,
che ha avuto un peggioramento, ha però adottato dopo l'ultima
svalutazione misure molto drastiche, i cui effetti si son fatti presto
sentire. Siamo dunque a un livello di inflazione molto pericoloso, abbiamo
altissimi tassi di interesse che non sono frutto di un capriccio, bensì
della necessità di mantenere un certo volume di credito perché
non ci sia un'influenza negativa troppo forte sulla bilancia dei pagamenti.
Abbiamo una notevole disoccupazione: la Cassa integrazione è
a livelli di guardia. e nel prime tre mesi dell'anno è peggiorata
del 7,7 per cento rispetto al 1981. Abbiamo un alto costo del lavoro:
gli incrementi annuali dell'82 sull'81 sono stati in Italia finora del
18,6 per cento, contro il 7 per cento degli Stati Uniti, il 6 per cento
del Giappone, il 3,6 per cento della Germania Federale, il 10 per cento
del Regno Unito.
I motivi di questa situazione, largamente provocata dal differenziali
nel tasso d'inflazione, sono vari: c'è il disavanzo pubblico
"allargato", che in percentuale del prodotto interno lordo
e molto superiore a quello di altri Paesi nostri concorrenti; c'è
la scarsa efficacia e c'è la scarsa efficienza dell'amministrazione
dei servizi pubblici, anche sociali.
Quant'è, ad esempio, il disavanzo pubblico allargato? Si dice
di 70 mila miliardi: però I 70 mila miliardi non comprendono
una serie di poste che erano indicate nel discorso del Presidente del
Consiglio del 24 giugno, con cui si arriva ad 80 mila miliardi, che
però non comprendono quella parte dei residui passivi che inevitabilmente,
disse allora Spadolini, dovrà essere spesa, perchè la
tecnica del rinvio (per quanto bravo sia il ragioniere generale dello
Stato e per quanto bravo possa essere il ministro del Tesoro) non può
essere praticata indefinitamente. Si arriva così intorno al 90
mila miliardi. Questo, senza tener conto delle maggiori richieste che
i ministeri hanno fatto per la legge finanziaria e il bilancio del 1983.
Sul 90 mila miliardi ci siamo. Questo disavanzo preme enormemente sul
tassi di interesse e sottrae mezzi al mercato produttivo e agli investimenti.
Ci si chiede: come mai, nonostante ciò, l'inflazione è
scesa di quattro-cinque punti? E scesa perché siamo in pieno
periodo di stagnazione: la produzione industriale, registrando aumenti
medi dell'I,I per cento, in pratica non è cresciuta; e il Pii,
aumentando anno per anno tra il 10 e il 12 per cento in termini monetari,
praticamente diminuisce in termini reali. Se ci fosse una ripresa? Se
la ripresa internazionale, per quanto debole, trascinasse una qualche
ripresa interna? Questo eserciterebbe una forte pressione sulla situazione
italiana con una ripresa di inflazione, un ulteriore disavanzo commerciale
e quindi anche una ulteriore flessione della lira. Che cosa significano
queste cose? Significano che abbiamo bisogno urgente, anzi urgentissimo
(bisogno di ieri, non di oggi o di domani) di ridurre in Italia il volume
del disavanzo pubblico per potere allentare la pressione inflazionistica.
Dobbiamo inoltre guardare un poco più lontano, cioé agli
investimenti che facciamo in misura del tutto insufficiente e senza
i quali questa nostra debolezza internazionale, che per noi significa
una debolezza vitale, diventerebbe ancora più grande.
"L'indebitamento complessivo a fine '81 si situa" ha scritto
il Governatore della Banca d'Italia "sui 48 miliardi di dollari,
pari a circa il 15 per cento del prodotto interno lordo e al 100 per
cento delle attività ufficiali". Dunque: in percentuale,
l'indebitamento estero e superiore al debito interno del settore pubblico
del 1981, che e stato pari al 12,6 per cento del Pil. Ed è superiore
alle riserve ufficiali nette espresse in dollari, (cioé , oro,
valute convertibili, Ecu, diritti speciali di prelievo, posizione di
riserva sul Fondo Monetario Internazionale). A formare le attività
sull'estero complessive concorrono i prestiti concessi dall'Italia e
le operazioni di finanziamento dei flussi mercantili: l'ammontare dei
crediti netti concessi a fine 1981 e stato di 14 mila miliardi, Non
tenendo conto della componente aurea delle riserve, le attività
ammontano a 35 mila miliardi. La posizione netta verso l'estero risulta
quindi negativa per 13 mila miliardi, contro un sostanziale equilibrio
registrato l'anno precedente. "Negli anni più recenti",
chiarisce la Banca d'Italia, "il nostro Paese ha ampliato l'indebitamento
verso l'estero in misura maggiore degli altri Paesi, a eccezione di
quelli socialisti in via di sviluppo. Nell'ambito comunitario, la consistenza
dei debiti riferita al prodotto interno lordo risulta superiore a quella
italiana nel caso di Irlanda, Danimarca e Grecia".
Solo nel 1981 I prestiti esteri nel controvalore in lire, al cambi di
fine anno, si sono raddoppiati, (l'aumento è dovuto per circa
un terzo alla forte rivalutazione del dollaro): dal 22.995 miliardi
di lire del 1980 sono passati a 41.079 miliardi "Questo ingente
afflusso di fondi", chiarisce Ciampi, "è da porre in
relazione, oltre che alle condizioni restrittive del credito interno,
all'ampia disponibilità di fondi sul mercato internazionale".
La crescita del debito estero tollerata dalla Banca centrale per poter
finanziare i continui disavanzi della bilancia commerciale ha raggiunto
un livello tale da richiedere oggi mille miliardi di lire al mese per
rimborsi. Metà di questa somma serve solamente al pagamento degli
interessi. Dal piano di ammortamento nell'anno '82 risulta un rimborso
in conto capitale di circa 5.900 miliardi. La Banca d'Italia stima l'onere
per il pagamento degli interessi, secondo valutazioni che scontano il
permanere dei tassi sul livelli attuali, su un importo pressoché
analogo.

Se all'indebitamento a medio e a lungo termine si aggiunge quello a
breve, il quadro della situazione non può che diventare più
allarmante. I debiti commerciali a breve termine sono passati nel 1981
da 10.900 a 16.600 miliardi di lire. Inoltre, la posizione debitoria
delle Aziende di Credito è cresciuta da 14.750 a 16.069 miliardi.
"Un'improvvisa contrazione di questi debiti", ha precisato
il Governatore, "potrebbe avere un impatto negativo sulle riserve".
Appare quindi opportuno un contenimento dell'indebitamento a breve termine
a tutto vantaggio delle scadenze a più lungo periodo.
Il debito estero dell'Italia non è però tutto qui: dalle
statistiche ufficiali mancano i debiti che le aziende italiane accendono
all'estero attraverso le loro holding per gli investimenti esteri. Anche
questa esposizione ha una certa importanza nella valutazione del "rischio-paese"
da parte dei banchieri internazionali che fanno credito all'Italia.
"Proprio per tutelare il merito di credito del Paese", ha
ricordato Ciampi, "é stato istituito un meccanismo di coordinamento
e informazione nel settore dei prestiti esteri". Questo coordinamento,
avviato nell'autunno del 1981 e presieduto dal Direttore Generale del
Tesoro, ha anche il compito di ridurre i rischi patrimoniali e di cambio,
nonché di regolare l'indebitamento in funzione dell'andamento
delle partite correnti (merci e servizi).
Malgrado tutto, gli italiani sono un popolo di risparmiatori. La quota
di reddito nazionale che essi destinano al risparmio è superiore
ancora a quella di molti Paesi industrializzati. La voglia di risparmiare
- la propensione al risparmio, come dicono i tecnici - sta però
diminuendo in modo sensibile. Questo fenomeno, se non si modificherà,
potrà dare origine in un futuro prossimo a problemi di difficile
soluzione. Vediamo perché.
Nel corso degli ultimi dieci anni, l'inflazione ha fortemente condizionato
la formazione del reddito delle famiglie italiane. In concomitanza con
le più elevate punte inflazionistiche, nel 1974, nel 1977 e nel
1978, si sono avuti anche i minori tassi di crescita del reddito. Oltre
che sulla formazione del reddito, l'inflazione ha influito in senso
negativo anche sulla propensione al risparmio.
La prima forte impennata dell'inflazione si è verificata nel
1973, dopo la stretta creditizia seguita alla crisi del petrolio. L'anno
successivo, nel '74 le famiglie italiane hanno risparmiato meno.
Negli anni seguenti, la propensione al risparmio ha ripreso e mantenuto
una tendenza crescente fino al 1978. In seguito, con il riaccendersi
dell'inflazione nel 1979 e nel 1980, la disponibilità da parte
degli italiani ad accumulare. risparmi e nettamente diminuita. Le politiche
monetarie restrittive adottate per contenere l'inflazione hanno avuto
un peso non solo sulla formazione del risparmio, ma soprattutto sulla
distribuzione di questo tra i vari, possibili impieghi.
E aumentata in modo significativo la quota di risparmio indirizzata
all'investimento immobiliare: le famiglie italiane hanno reagito all'inflazione
comperando o costruendo più case. Questo fenomeno ha determinato,
fra l'altro, l'impennata dei prezzi degli immobili nell'80/81. Si è
comprato però troppo e troppo in fretta. Ora non si compra quasi
più e i prezzi sono scesi.
E invece in diminuzione dal 1978, con un forte calo nel 1980, la quota
di risparmio destinata agli impieghi finanziari. Nella composizione
interna di tale risparmio vi sono state notevoli modifiche: già
nel 1974 gli italiani si erano orientati verso impieghi a breve termine,
privilegiando l'investimento in depositi bancari. A partire del 1979,
l'elevato livello dei tassi d'interesse corrisposti dal titoli del debito
pubblico ha determinato un mutamento d'indirizzo del risparmiatore.
Questi ha infatti dirottato quasi un terzo delle sue disponibilità
dal conto corrente ai Bot.
Il risparmio italiano, dopo essere stato tosato dalla caduta dei corsi
delle obbligazioni nel 1974, dopo aver tentato a più riprese,
ma sempre con esiti disastrosi, la vita della Borsa, (ricordiamo i crolli
più clamorosi: 1960-61, al tempi di Virgillito; 1973-74, con
Sindona; 1981-82, con Calvi e altri), si è diretto verso i più
appetibili titoli di Stato: Bot e Cct. Ma il denaro che confluisce su
questi titoli come viene usato? Forse per investimenti produttivi di
ricchezza che potrà poi venire redistribuita, sotto forma di
interessi, ai possessori dei titoli? Nulla di tutto questo: il denaro
raccolto con la sottoscrizione di Bot e di Cct serve, quasi interamente,
per pagare le spese correnti dello Stato. Quindi, non produce ricchezza:
viene speso, e basta.
Fin tanto che il risparmio prodotto dagli italiani era in aumento, un
certo equilibrio, sia pure precario, era possibile. Ma se gli italiani,
come sembra, si mettono a risparmiare meno? Come farà lo Stato?
Non pagherà gli stipendi agli impiegati pubblici? Congelerà
i titoli?
Passiamo ora alle prospettive. La pagella semestrale delle previsioni
economiche dei 24 Paesi dell'Ocse (ma sono sette quelli che contano)
e in realtà un rapporto che contiene, come sempre un'analisi
generale delle tendenze più recenti e delle prospettive a breve
termine per l'intera arca, oltre a un'analoga analisi particolare Paese
per Paese: come dire, la pagella della classe e quella di ciascun allievo.
Per quanto riguarda l'Italia, gli specialisti dell'organizzazione internazionale
prevedono che, a differenza dell'evoluzione osservata nel 1981, il sostegno
dell'attività non dovrebbe essere più assicurato nell'82
e nell'83 dal settore estero, ma piuttosto da una faticosa ripresa della
domanda interna, insufficiente tuttavia a impedire un ulteriore aumento
della disoccupazione. Il tasso di impedire un ulteriore aumento della
disoccupazione. Il tasso di questa raggiungerebbe il 10 per cento della
popolazione attiva. Si suppone che le remunerazioni lorde dei salariati
aumenteranno termini reali del 2,5 per cento nell'82 e del 3 per cento
nel 1983.
Sulla base di ipotesi tecniche che prevedono il mantenimento dei tassi
di cambio e la stabilità dei prezzi del petrolio in dollari (ma
franco francese e lira sono stati intanto nuovamente svalutati), l'aumento
dei prezzi all'importazione. rallenterà considerevolmente, in
modo da rendere possibile il mantenimento dei prezzi al consumo al di
sotto del 16 per cento, conformemente all'obiettivo delle autorità
per l'82. Sembra invece più difficile la riduzione al 13 per
cento, obiettivo fissato per il 1983, a meno che l'aumento dei costi
interni non rallenti fin da ora. La pressione fiscale potrebbe svilupparsi
anche nel corso dell'83, sicché il prelevamento netto del settore
pubblico sulle famiglie (imposte dirette e versamenti previdenziali)
aumenterà probabilmente di nuovo. Il risparmio precauzionale
potrebbe svilupparsi di fronte al deterioramento del mercato del lavoro,
ma questa tendenza potrebbe essere compensata nel 1983 da un aumento
della propensione delle famiglie al consumo per il rallentamento dell'inflazione.
Tenuto conto del livello sempre alto dei tassi d'interesse, del mantenimento
delle restrizioni del credito, dell'importanza dei margini di capacità
di produzione non utilizzati e del calo sensibile dei profitti nel 198
I, gli investimenti produttivi potrebbero essere diminuiti un pò
nel corso dell'82. L'investimento privato non si riprenderà che
l'anno prossimo. Dopo aver progredito più rapidamente che i mercati
nell'81, le esportazioni potrebbero essere aumentate quest'anno allo
stesso ritmo della domanda. A tassi di cambio immutati, la competitività
delle esportazioni sul piano dei prezzi e dei costi si deteriorerà,
provocando nuove perdite di parti di mercato nel 1983. i
Le importazioni, fortemente calate l'anno scorso, sono riprese parallelamente
al rifiorire della domanda globale. Tenuto conto dei prezzi delle materie
prime, in particolare del petrolio, i termini dello scambio potrebbero
migliorare, il che permetterebbe di stabilizzare il deficit commerciale
sul sette-otto miliardi di dollari. In totale, il deficit del conto
delle operazioni correnti potrebbe essersi leggermente ridotto e riportato
a sei miliardi e mezzo di dollari per l'82 e mantenersi a circa il 2
per cento del prodotto interno lordo nell'83. L'analisi generale annuncia
una ripresa dell'attività in Europa e in Giappone, prima di estendersi
agli Stati Uniti. Due ostacoli maggiori sussistono sulla via dello sviluppo:
l'aumento della disoccupazione che sembra inarrestabile e l'anemia dell'investimento
causato dagli alti tassi d'interesse. Nell'area Ocse lo sviluppo potrebbe
raggiungere lo 0,5 per cento nell'82 e il 2,5 per cento nell'83. L'inflazione
a due cifre sembra arginata. Dopo avere sfiorato il 13 per cento nel
1980, l'aumento dei prezzi al consumo dovrebbe attestarsi sull'8 per
cento. Purtroppo, si tratta di medie calcolate a partire da situazioni
congiunturali nazionali molto diverse. L'anno venturo Germania Federale,
Austria, Giappone, Olanda e Svizzera saranno al di sotto del 5 per cento,
altri nove Paesi tra il 5 e il 10, altri cinque (e tra questi l'Italia)
oltre il 15.
La disoccupazione si aggraverà tra la fine dell'82 e l'intero
'83, anche tenendo conto della prevista ripresa dell'occupazione in
alcuni settori produttivi. Il tasso di disoccupazione nella zona Ocse
potrebbe passare dal 7,5 per cento della popolazione attiva del secondo
semestre '81 al 9 per cento del primo semestre '83, coinvolgendo così
trentadue milioni di persone. In Europa rischia di toccare il 10,5 per
cento.


Altro aspetto del problema-Italia. Uno dei cardini del futuro assetto
della finanza locale è indicato da tempo nella perequazione e
nel riequilibrio. Per scegliere gli strumenti, individuare l'entità
delle risorse da destinare a tale obiettivo e dare un indirizzo preciso
alla manovra, occorre però una approfondita conoscenza della
situazione.
Un importante contributo in questo se I riso è fornito dalla
recente pubblicazione della situazione finanziaria delle Province e
dei Comuni nel 1981: uno studio curato dal Servizio finanza. locale
del ministero degli Interni e che, in 63 pagine di tabelle e grafici,
pone in evidenza alcuni importanti fatti, fino a questo momento più
intuiti che provati, e conferma anche alcune elementari leggi economiche.
E quest'ultimo il caso dei Comuni di più piccola dimensione che
hanno costi per persona maggiori degli enti gradatamente più
grandi, e ciò fino alla dimensione-limite di 500.000 abitanti.
Col crescere della dimensione demografica, si assiste ad un incremento
della spesa che raggiunge punte -molte elevate nel Comuni di massima
dimensione. Si tratta quindi della "curva ad U" molto spesso
dimenticata.
Più precisamente: contro le 659 mila lire di spesa procapite
annua nel Comuni con più di mezzo milione di abitanti vi sono
infatti le 226 mila lire di spesa dei Comuni fra I 5.000 e I 10.000
abitanti. La spesa decresce fino a 20.000 abitanti (si parte dalle 287
mila lire dei Comuni sotto mille abitanti) e riprende a crescere sensibilmente
per i Comuni fino a 60.000 abitanti.
Quanto alle grandi città, si va dalle 818.000 lire di Milano
(che è nettamente sopra la media di fascia) alle 657.000 di Torino,
alle 618.000 di Roma, che è lievemente sotto la media. C'è
poi il caso di Palermo che spende solo 457.000 lire.
Analizzando sempre i dati complessivi per fascia demografica è
utile un raffronto con gli anni precedenti. Il dato più significativo
riguarda il rapporto fra la spesa media dei Comuni sotto i mille abitanti
e quella dei grandi Comuni, che nel '78 era di uno a tre. Nell'81 tale
rapporto si è ridotto, diventando di uno a 2,5.
Un'altra serie di dati che invita alla riflessione riguarda l'analisi
regione per regione. Le sorprese non mancano. In Piemonte, quasi tutti
i Comuni di qualsiasi fascia demografica sono sotto la media nazionale,
mentre in Lombardia sono sotto media i centri fino a 5.000 abitanti
e sopra media quelli da 10.000 abitanti in su. Nel Veneto sono sotto
media tutti i Comuni, ad eccezione di quelli fra 120.000 e I 300.000
abitanti. In Emilia-Romagna, in Toscana, in Umbria e nelle Marche tutti
gli enti locali sono più o meno abbondantemente sopra la media.
Decisamente grave è la situazione della Campania e della Sardegna,
completamento sotto media. Proseguendo in questa analisi, appare significativo
infine il confronto fra Lombardia e Puglia. Nel primo caso sono sotto
media i Comuni fino a 5.000 abitanti e sopra media gli altri, e cioè
l'esatto contrario di quanto si verifica nella regione pugliese. Significa
che almeno nel piccoli centri il Nord è più sottosviluppato
rispetto ad un'area meridionale.
Un capitolo dell'indagine riguarda la spesa in conto capitale. Il tetto
massimo, ovviamente, e nei Comuni con oltre mezzo milione di abitanti,
che nell'81 hanno speso un milione e 383 mila lire. Il minimo (463 mila
lire) si registra nei Comuni fra i tre e i cinquemila abitanti. Sempre
per quanto riguarda le grandi città, va rilevato che Roma ha
speso 1.777.000 lire per abitante; Palermo 680.000 lire; Torino un milione
e mezzo: e Milano "solo" 920 mila, lire.
Il discorso da fare é anche quella della destinazione di questi
quattrini. E qui si entra nel campo dello "stile" degli amministratori,
nella loro capacità di gestione della cosa pubblica, nella competenza
e nella visione di un uso "sano" dei finanziamenti.
La sensazione, ma non solo la sensazione, è che ci siano sperperi
e dispersioni su larga scala (15.000 miliardi di lire destinati agli
Enti Locali fino all'82, con richiesta di aumento fino a 17.000 miliardi
di lire, sono cifre da vertigine).
Non esiste nè potrà esistere, una raccolta di dati sulla
"dispersione". Né esiste un elenco dei servizi mancanti.
Tuttavia, c'è la certezza che al crescere delle dimensioni demografiche
corrisponde il crescere della quantità e della qualità
dei servizi: ma la spesa corrente impegnata per sostenere questi livelli
aumenta a un ritmo nettamente superiore rispetto a quello della spesa
per gli investimenti. Tutto ciò dimostra l'estrema complessità
e varietà di situazioni che condizionano l'efficienza degli Enti
Locali come centri di produzione e di servizi anzichè come soggetti
burocratico-amministrativi.

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