SVIMEZ: Rapporto 1982 sull'economia del Mezzogiorno




Antonio Talamo



Il rapporto della SVIMEZ sullo stato di salute dell'economia del Mezzogiorno viene abitualmente presentato al primi di ottobre, in un clima autunnale ingrigito dal rinnovi contrattuali, dalla lievitazione dei prezzi, dal presagi di ,nuove difficoltà economiche.
Quando a Napoli, nella sala delle assemblee dell'ISVEIMER, si dà corso alla lettura della cartella clinica, che è firmata dal Prof. Pasquale Saraceno, il Mezzogiorno descritto dagli indicatori economici dell'anno precedente appare già lontanissimo. C'è la congiuntura che lo trascende con l'inflazione che torna sopra il 16%, c'è l'irrisolta questione del costo del lavoro e l'aggravarsi della crisi siderurgica. I due o tre ministri, la dozzina di economisti, i banchieri, i burocrati, i meridionalisti di vario titolo che sanno di parlare di un Sud improbabile nella coscienza degli italiani con l'aria che tira sull'intero sistema, sbrigano la formalità del dibattito e ripartono verso altri affanni. E mentre si riaccendono le dispute tra monetaristi e strutturalisti, economia sociale e ortodossia liberale, fra occupazione e rigore, le ragioni del Sud invocate da Pasquale Saraceno tornano nel limbo dei problemi di cui parlare con prudenza in attesa che siano ripristinate le condizioni di funzionamento del sistema. La questione Mezzogiorno, da assumere come elemento essenziale nel programmi di riassestamento non solo economico ma civile e sociale del Paese, e predicata con sempre minore convinzione, diventa ancora una volta un fattore residuale. Questo mentre, avverte Saraceno, la geografia delle compatibilità si allarga e la scala europea delle disuguaglianze rischia di relegare il Mezzogiorno in una posizione ancora più periferica.
Vediamole, allora, le cifre di questo Sud i cui programmi di sviluppo sembrano impantanarsi ancora una volta in mezzo al guado della crisi, a secco di risorse da destinare agli investimenti produttivi.
Nel 1981 è andata male in agricoltura. E andata male, intanto, per quegli elementi imprevedibili che sono la pioggia, la grandine e gli altri accidenti meteorologici che rendono per sua natura insicura la condizione di chi vive del lavoro della terra. Ma alle avversità climatiche si sono aggiunte altre circostanze, questo sì imputabili all'uomo. Vi sono cause strutturali non nuove, prima fra tutte lo scarso sostegno in sede comunitaria concesso alle colture mediterranee. Mancano i meccanismi di tutela e di preferenza indispensabili al loro sviluppo mentre, per una quota esigua di produzioni continentali, le politiche di settore hanno privilegiato ancora una volta le esigenze delle più solide e meglio rappresentate agricolture centro-europee. E allora non c'è da meravigliarsi se si è avuta una scarsa propensione agli investimenti e all'ammodernamento degli impianti. Non c'è da aspettarsi miracoli quando i prezzi non tengono dietro all'aumento del costo dei mezzi di produzione. E se diminuisce il reddito agricolo, anche per effetto dell'intermediazione parassitaria si sa, aumenta la tentazione di abbandonare la terra, di andarsene.
L'occupazione in agricoltura ha subito una perdita di 73.000 unità, che èconsiderevole e non del tutto fisiologica.
Percentualmente la riduzione di manodopera è del 4,9%, quasi doppia rispetto al 2,6% del Nord dove, in ogni caso, la redistribuzione delle forze di lavoro diventa elemento di razionalizzazione del sistema produttivo.
Tradotta in valore aggiunto, la perdita nel settore è del 5% (nel Centro-Nord èappena dell'1%). Trent'anni fa, quando l'agricoltura dava un terzo del valore aggiunto del Mezzogiorno, sarebbe stata una calamità; oggi rappresenta appena un decimo e dunque non c'è da farne un dramma, tanto più che a compensare la perdita è bastato un incremento dell'1% del valore aggiunto dei settori extragricoli.
Che significa tutto questo nel gran libro dei conti dell'economia italiana? In una situazione di ristagno (nel 1981 il prodotto nazionale lordo è leggermente diminuito e ciò era accaduto solo un'altra volta negli ultimi sette anni), il relativo migliore andamento dell'economia meridionale tappa qualche buco dell'altra area guadagnando (nonostante la deludente annata agricola) quello 0,3% di prodotto lordo perduto nel Centro-Nord.
Ma non è tutt'oro quel che luce. E' vero che nel settore industriale il Mezzogiorno ha avuto risultati migliori che nel resto del Paese; è ancora vero che l'industria manifatturiera ha dato un 1,4% di valore aggiunto rispetto all'1,6% perduto nel Centro-Nord. Ma è nell'attività edilizia che si è avuto il maggiore incremento (3,4%) e resta da calcolare quanta parte di questa crescita vada assegnata alla ricostruzione dei paesi terremotati.
Inoltre, al modesto andamento positivo dell'industria manifatturiera concorrono essenzialmente gli impianti di grande dimensione appartenenti a gruppi pubblici o comunque esterni all'area meridionale (produzioni metallurgiche e siderurgiche + 1,7%, chimiche e farmaceutiche + 6,5%, meccaniche e dei mezzi di trasporto + 2,8%); meno bene, purtroppo, sono andate le cose nel comparti come quelli delle produzioni tessili, dell'abbigliamento, delle pelli, cuoi, calzature in cui le aziende sono locali e di dimensioni più ridotte.
Questo, grosso modo, il quadro d'assieme, l'aspetto generale, con il pallore, le aritmie, le escursioni termiche da cui desumere un primo giudizio sullo stato di salute del Mezzogiorno. Naturalmente ogni cifra, in positivo o in negativo, ha un suo primo esito sociale in termini di occupazione.
Abbiamo già visto che gli addetti in agricoltura sono diminuiti al Sud di 73.000 unità e nonostante questo nel 1981 I posti di lavoro sono aumentati nel complesso dello 0,7% (contro lo 0,3% nel Centro-Nord). Tradotto in numero di occupati significa un saldo attivo di 45.000 unità dovuto al 32.000 dell'industria delle costruzioni, agli 82.000 nuovi addetti al servizi e al 4.000 dell'industria manifatturiera.
Quest'ultima cifra appare deludente, se si pensa a quelli che erano i programmi di espansione della base più propriamente produttiva del Sud e alla esiguità (di cui il rapporto però non parla) delle perdite di occupazione dovute a processi di razionalizzazione della produzione e di riorganizzazione del lavoro in fabbrica, cui si comincia a mettere mano. Si pensi ai segnali che vengono dall'Italsider di Bagnoli e dell'ARNA di Pianodardine, dove si annuncia una perdita in partenza di occupazione rispetto ai progetti iniziali, per garantire al nuovo insediamento dell'Alfa Romeo margini di efficienza.
La SVIMEZ fa invece alcune riflessioni sull'aumento delle opportunità di lavoro nel settore terziario al Sud e al Nord, dove l'incremento è stato più rilevante. L'aumento dell'occupazione terziaria nel Nord, osserva il rapporto, è di natura non transitoria. I consumatori e le imprese si fanno sempre più esigenti. Dove aumenta il reddito delle famiglie, è più elevato il grado di industrializzazione, più intensi sono ti processi di innovazione e di riorganizzazione produttiva, la richiesta quantitativa e qualitativa di servizi tende a crescere considerevolmente. Ma l'adeguamento dell'offerta alla crescita della domanda dei servizi non si può ottenere solo aumentando la produttività: va adeguato anche il numero degli addetti. Va aggiunto che il Nord fornisce una quota difficilmente quantificabile, ma certamente consistente, degli inputs di servizi qualificati per la stessa industria meridionale.
Mentre a Milano o a Torino l'espansione del terziario è segno di salute, quaggiù rappresenta spesso una forma surrettizia di assistenza e, quando fornisce servizi, questi sono di qualità il più delle volte scadente. "Se nel Nord la dimensione conseguita dal settori produttori di beni fa si che il terziario possa stabilmente sostenere l'occupazione complessiva, nel Mezzogiorno, viceversa, l'aumento dell'occupazione, anche nel terziario, direttamente o indirettamente dipende sempre in larghissima misura dalle possibilità di ampliamento dell'ancora limitata base industriale". Si è parlato di occupazione ma è l'altro verso della medaglia, l'amaro capitolo "disoccupazione", che domina il quadro meridionale con gli elementi di disagio sociale e di deterioramento della vita civile, specialmente nelle aree metropolitane.
Nel 1981 il tasso di disoccupazione è del 6,7% nel Centro-nord e quasi doppio, del 12,2%, nel Mezzogiorno. Includendo gli occupati in cassa integrazione si arriva quasi al 14%.


E' in relazione al tasso di disoccupazione eccezionalmente elevato nel Mezzogiorno e al rischio che aumenti ulteriormente per effetto della dinamica naturale dell'offerta di lavoro - nota con preoccupazione la relazione introduttiva - che può essere valutata in tutta la sua gravità la riduzione degli investimenti; anche se tale riduzione l'anno scorso è stata meno sensibile al Sud (-9,8% contro il - 16,4% nel Centro-nord), occorre tener presente che la quota degli investimenti destinati al Mezzogiorno è pari al 30% del totale. Se si considerano i soli investimenti industriali, la quota meridionale è appena del 20% che è poca cosa rispetto alla fame di lavoro e all'obiettivo di ridurre il divario Nord-Sud.
Ed eccoci giunti all'aspetto più problematico dell'analisi della SVIMEZ: il divario, dopo trent'anni di politica meridionalistica, non accenna a diminuire.
La crisi petrolifera del 1973 modifica in maniera irreversibile gli squilibri economici a livello planetario. Crolla per l'economia occidentale la fiduciosa aspettativa di un illimitato sviluppo basato sul dominio delle fonti di approvigionamento delle materie prime. I Paesi di nuova industrializzazione cominciano ad attrezzarsi per offrire sul mercati a prezzi competitivi molte delle produzioni, anche tecnologicamente avanzate, di cui erano tributari all'Occidente industriale. L'unico modo per fronteggiare la concorrenza dei Paesi emergenti (dove il costo del lavoro è decisamente inferiore), è quello di specializzare le produzioni, di sviluppare le tecnologie e rinnovare i processi lavorativi. La struttura industriale del Mezzogiorno, per il suo modesto contenuto tecnico, è la più vulnerabile. I suoi prodotti sono praticamente gli stessi sul quali i Paesi emergenti fanno le prime esperienze di industrializzazione, ma con il vantaggio di non dovere scontare i vincoli e i costi da lavoro europei.
Nel quinquennio 1970-75 gli investimenti industriali nel Mezzogiorno, al tempo della localizzazione di alcuni grandi impianti, erano intorno al 32%; dopo lo shock petrolifero vanno progressivamente scemando fino ad arrivare al 20% dello scorso anno. A questo c'è da aggiungere che si è andata esaurendo l'emigrazione verso l'estero e il Nord Italia. E si spiega, dunque, nonostante un modesto miglioramento al Sud del prodotto pro-capite (passato dal 4 milioni del '73 al 4 milioni 700 mila dell'81), il ciclico riaprirsi della forbice tra le due aree, cui non è estraneo il fattore demografico. Da qualche tempo, si sa, la popolazione cresce solo al sud.
Nelle regioni meridionali, anche dopo il '73, c'è comunque, tutto sommato, un relativo, lento miglioramento delle condizioni di vita, come dimostra l'esiguo e altrettanto relativo aumento del reddito pro-capite. Ma per valutare la sostanziale tenuta dell'economia meridionale, il rapporto SVIMEZ si affida a tre indicatori: le variazioni del prodotto, dell'occupazione (che, si badi bene , e cosa ben diversa dalla "disoccupazione" che va valutata, tra l'altro, sull'incremento di forza lavoro) e della produttività. Dal quali si può vedere che nell'industria manifatturiera nel Sud si è avuto un aumento di produzione e di occupazione, ma è rimasto immutato lo scarto di produttività rispetto al Nord (intorno al 25%). C'è da dire che questo inguaribile ritardo del Mezzogiorno (continuiamo a parlare dell'industria manifatturiera, dando per scontato il divario di produttività in agricoltura e nel servizi) è quasi tutto imputabile alle imprese locali e agli impianti di piccole dimensioni. Gli scarti bel settore tessile, abbigliamento, pelli, cuoio e calzature sono addirittura del 41%. In questi comparti è accaduto che nel Centro-Nord la produzione è aumentata e il numero degli addetti è diminuito. Nel Mezzogiorno il prodotto e cresciuto di meno e l'occupazione è aumentata. La rivincita del Sud si ha negli altri settori: nella metallurgia, per esempio, dove la produttività media è stata in alcuni momenti più elevata che al Nord.
Tutti i dati si riferiscono genericamente al Mezzogiorno. Senonchè Mezzogiorno, secondo la geografia della Cassa, è anche Ascoli Piceno. Così molte industrie sollecitate a localizzare le nuove iniziative nel Sud, hanno trovato vantaggioso insediarsi in quell'enclave che, al fini degli incentivi finanziari, assimilava una provincia delle Marche all'Irpinia o all'Aspromonte.
Indubbiamente era giusto rimediare a certe distrazioni "geografiche", che non sempre rispettando la linea di demarcazione tra benessere e sottosviluppo. Per lo stesso motivo la legge istitutiva della Cassa considera Mezzogiorno tutto quanto immiseria di uomini, risorse, vita civile a Sud di Roma, dalla Via Cristoforo Colombo in giù.
Fu così che il margine settentrionale dell'area della Cassa divenne negli anni passati un polo magnetico verso cui furono irresistibilmente attratte le nuove iniziative industriali, soprattutto quelle di medie dimensioni. Sud per Sud, a parità di vantaggi, tanto valeva scegliere quello che fosse il più vicino possibile al Nord. Negli ultimi dieci-quindici anni i finanziamenti e i contributi in conto capitale concessi alle industrie hanno privilegiato di più, come si sa, la ragione delle economie esterne che l'intensità del bisogno di nuovo lavoro.
Basta percorrere l'autostrada verso Roma e in prossimità di Frosinone ci si accorge subito che si è giunti ai confini della zona dell'intervento straordinario. Una fabbrica dopo l'altra inalberano le insegne, le ragioni sociali (in cui spesso ricorre la parola "Sud") di una imprenditorialità fiduciosa nella possibilità di sviluppo del Mezzogiorno, ma non tanto da arrischiarsi a scendere al di sotto di un certo parallelo geografico.
Vi furono altre zone del Sud in cui il processo di industrializzazione e in genere le opportunità di sviluppo produttivo, propiziati dall'intervento straordinario, raggiunsero risultati considerevoli. E a questi seguirono processi di propagazione dello sviluppo, per esempio quello che lungo la fascia adriatica si spinse fino in Puglia.
Esistono, dunque, differenti gradi di sviluppo (o di mancato sviluppo) e, a non tenerne conto, si rischia di curare con la stessa medicina il raffreddore e la polmonite.
Qualche anno fa si cominciò a parlare di pelle di leopardo per indicare l'arcipelago dei diversi gradi di sviluppo in un panorama comunque di acque stagnanti. Così, partendo da un'ipotesi di riordinamento degli interventi, si parlò insistentemente dell'esigenza di ridisegnare l'arca della Cassa.
Il precedente rapporto adombrava questa possibilità. Quest'anno (benchè siamo alla vigilia della nuova legislazione per il Mezzogiorno) non ve n'è alcun cenno. Il motivo è evidente. Si vuole mettere in risalto un altro elemento di squilibrio che passa questa volta all'interno delle regioni meridionali, ricreando a scala ridotta in un più breve perimetro culturale, sociale, economico ma con effetti non meno devastanti, momenti di conflitto e alternative che finiscono per consolidare nuove egemonie e subalternità.
La SVIMEZ approfondisce l'analisi dei divari interni alle regioni meridionali, che sono ora più vistosi dello stesso divario tra un Sud globalmente considerato e il Nord. E riferisce l'esempio dell'Abruzzo e della Calabria, che erano agli antipodi nel 1973 e lo sono ancora oggi, con la sola differenza che le distanze, quanto a prodotto lordo per abitante, sono considerevolmente aumentate. Non dimentichiamo, comunque, che fatto 100 il livello del Centro-Nord, quello dell'Abruzzo è intorno a 74.


Nell'ordine, le regioni per le quali si è avuto un miglioramento della posizione relativa sono il Molise, la Basilicata e la Sardegna. Ma ci vuol poco a modificare gli indici là dove la base produttiva di partenza è insignificante. Si fa il caso dei 3.300 addetti del nuovo insediamento di Termoli della Fiat, che rappresentano il 25% dell'occupazione manifatturiera della ragione. Per Molise e Basilicata, inoltre, l'incremento demografico è stato modesto.
Il divario è aumentato, oltre che in Calabria, nelle tre più grandi regioni del Sud, la Campania, la Puglia e la Sicilia.
In testa la Campania, che ha la più consistente concentrazione dell'industria manifatturiera e il più grande deserto alle sue spalle. E' il classico esempio dello squilibrio territoriale tra il sud della "polpa" e quello dell'"osso", tra le aree interne e la fascia costiera.
Del tutto differente la realtà pugliese: la parte settentrionale della regione con le provincie di Foggia e Bari, in cui si avverte la contiguità con quella direttrice di sviluppo adriatica da cui discende una tipologia industriale più vicina a quella dell'Italia centrale, ha un tessuto a maglie sempre più strette di aziende piccole e medio-piccole; il sud pugliese è invece più simile a un modello proverbialmente meridionale di quella tale industrializzazione senza sviluppo: o meglio di uno sviluppo indotto dalla presenza di grandi impianti (siderurgia a Taranto, chimica a Brindisi), che denunciano il loro limite soprattutto in presenza di situazioni di crisi.
La Sicilia è per alcuni aspetti paragonata alla Campania. Anche qui una, questione urbana (avviata però a soluzione grazie a una migliore utilizzazione del relativo progetto speciale per le aree metropolitane); c'è poi una zona che risente a sua volta della crisi dei grandi impianti, qualche promettente area di insediamenti vivi e vitali (come l'area industriale di Avellino per la Campama) e infine un vasto deserto di iniziative con fenomeni di degrado sociale e civile.
Ma detto questo si ha ancora un quadro approssimativo. I divari andrebbero misurati con più esattezza all'interno di ciascuna regione, fra provincia e provincia.
"Risulta quindi confermato - osserva il rapporto - che, pur nella sua sostanziale unità, la questione meridionale si articola oggi in una molteplicità di problematiche regionali e locali che, lungi dal poter essere affrontate con misure uniformi, richiedono interventi differenziati, corrispondenti alla loro marcata specificità.
In alcune aree o regioni saranno in prevalenza richiesti interventi diretti agli obiettivi - comuni al Centro-Nord - di superamento della crisi industriale e di difesa e potenziamento dell'agricoltura; e in altre saranno viceversa necessari soprattutto interventi diretti alla creazione di nuove capacità produttive e di nuovi posti di lavoro.
A ben vedere sono proprio questi i termini semplificati in cui può oggi esprimersi la concezione meridionalistica dello sviluppo italiano: doversi intendere la modernizzazione della nostra economia non solo in termini di aumento della produttività dei posti di lavoro esistenti, ma anche di creazione di nuovi posti di lavoro per dare occupazione alla quota, ampia e crescente, di forze di lavoro che sono inutilizzate per motivi non congiunturali e che si concentrano nel Mezzogiorno.
Certo nessuno nega più che esita questo secondo problema; ma caratterizza la posizione meridionalistica il pensiero che ad esso vada attribuito lo stesso grado di urgenza del primo".
Il rapporto a questo punto fa un bagno di realismo. Non può non riconoscere che oggi si naviga a vista in acque procellose, fra Scilla e Cariddi, fra vincoli esterni e vincoli interni e, per continuare nella metafora, senza la capacità di individuare un possibile approdo.
I vincoli interni sono quelli che riempiono ogni giorno le cronache politiche e sindacali, l'alto grado di protezione e l'attribuzione di quote crescenti di reddito a gruppi i cui interessi sono più efficacemente presidiati in sede di spesa pubblica e in sede contrattuale. E l'unico sconfinamento del documento nel contingente economico, nella pedagogia del buon governo che l'autorevolezza di Pasquale Saraceno può certamente concedersi. L'inflazione è un meccanismo perverso e qui se ne parla in quanto è elemento di ostacolo alla politica meridionalistica.
Per riattivare il processo che aveva cominciato a ridurre il divario tra Nord e Sud, e si e interrotto, ma soprattutto per colmare gli squilibri che si vanno manifestando all'interno delle regioni meridionali occorre stabilità monetaria. Ma non basta una qualsiasi politica antinflazionistica: questa non deve ostacolare, come di fatto accade, l'industrializzazione del Sud, e inoltre deve avere ben presente che un disegno meridionalistico non è fatto di tanti segmenti di intervento ma ha tempi lunghi e, dunque, richiede con coerenza e continuità le decisioni necessarie perchè la lotta all'inflazione e il ripristino delle condizioni per il funzionamento del sistema siano finalizzati all'occupazione meridionale e alla riduzione dei divari. Le compatibilità meridionali della politica economica non sono un atto di fede ne una concessione di eccedenze di capitali di investimento da trasferire al Sud in tempi di vacche grasse.
Trent'anni di intervento straordinario, dice la SVIMEZ, l'impianto di un nucleo consistente di industrie moderne e l'emergere di nuovi segni di vitalità imprenditoriale hanno reso nel complesso l'ambiente meridionale più idoneo a un conveniente esercizio dell'industria. Certo, aggiunge, rispetto agli Anni Cinquanta, nel quali cominciò a operare la prima disciplina organica degli interventi nel Mezzogiorno, sussiste una differenza fondamentale: allora si diede inizio all'azione straordinaria nel quadro di una previsione di sviluppo sostenuto dell'economia italiana, uno sviluppo che qui si verificò effettivamente e che, bisogna dire, invano lo schema Vanoni tentò di orientare in senso conforme alla riduzione dei divari; "oggi la prospettiva è del tutte) diversa e, ammesso che siano ancora possibili nell'attuale situazione di grande incertezza previsioni di medio-lungo periodo, essa non potrebbe certo essere quella degli Anni Cinquanta. Questa incertezza sugli orientamenti di politica generale e sull'entità e sulla qualità dello sviluppo che essa potrebbe consentire è la circostanza che rende estremamente difficili le scelte relative alla nuova legge sul Mezzogiorno e che potrebbe persino dar ragione del grandissimo ritardo con cui essa verrà approvata. Si tratta, infatti, non di avere comunque una legge, ma di riferirne le norme a una determinata concezione dello sviluppo meridionale, in una situazione caratterizzata da un'azione antinflazionistica non esauribile in breve tempo e da una crisi industriale che non ha carattere temporaneo".
Il rapporto conclude proprio su questo punto, con una nota di pessimismo che si legge tra le righe. La proposta governativa coglie bene l'esigenza di dare all'intervento straordinario il respiro di un programma decennale. E sarebbe dunque, auspicabile secondo una "tradizione" (ma sarebbe meglio dire una "ragionevolezza") spesso anticipatrice della politica meridionalistica, che analoga prospettiva di lungo termine venisse adottata in sede di programmazione nazionale per realizzare quell'integrazione tra politica meridionalistica e politica generale sempre sollecitata dalla SVIMEZ, specie da quando si è cominciato a predicare la "centralità" del Mezzogiorno.
Ma l'auspicio sembra senza speranza. Non siamo un popolo di programmatori: e questo Saraceno lo sa.


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