§ Gli "Annali" di Corbino

Dove va l'economia




Rosario Romeo



Cinquant'anni fa apparve il primo volume degli Annali dell'economia italiana di Epicarmo Corbino: quasi un avvertimento negli studi di storia economica italiana, che fino allora, per il cinquantennio liberale, dal 1861 al 1915, si erano limitati a rapide sintesi o ad indagini monografiche su specifici problemi di storia finanziaria o bancaria o su singoli settori produttivi. L'opera di Corbino, portata a termine in cinque volumi nel 1928, si sviluppava invece sul filo di una esposizione analitica che investiva tutti i principali aspetti dello svolgimento economico della nuova Italia; e soprattutto si fondava su una vasta base documentarla criticamente analizzata, e commentata alla luce delle discussioni intellettuali e politiche che avevano accompagnato la crescita del Paese. Uno strumento di lavoro senza confronti, anche per chi in seguito avesse voluto ripensare a fondo la materia. E di un ripensamento v'era in certo modo bisogno.
Negli Anni Trenta, infatti, sul terreno della ricostruzione storica si scontravano ancora le ideologie e gli schemi intellettuali che avevano guidato l'opera e i conflitti degli uomini del periodo post-unitario. Al liberismo dottrinario degli economisti - che del resto era anche espressione di una specifica visione politica e morale della storia d'Italia - si contrapponeva dunque il marxismo chiuso e polemico del Rodolfo Morandi e degli credi del socialismo a cavallo fra i due secoli. Erano punti di vista che affondavano le loro radici nella realtà della vita italiana, ma che appunto per questo potevano essere superati solo da concezioni intellettualmente più indipendenti e Più avanzate.
Adesso L'Istituto post-universitario per lo Studio dell'Organizzazione Aziendale (Ipsoa), presieduto appunto da Epicarmo Corbino, ha voluto onorare l'anziano studioso ripubblicando ancora una volta gli Annali dell'economia. Ma alla nuova edizione dei cinque volumi ha affiancato un disegno assai ambizioso, affidandone la prosecuzione a un gruppo di una ventina di studiosi il cui lavoro, coordinato da Gaetano Rasi, copre il periodo successivo a quello trattato da Corbino, dalla prima guerra mondiale al giorni nostri. Per ragioni ovvie, nella nuova edizione è stato riprodotto, senza modifiche, il testo originario dei volumi dovuti a Corbino, solo corredato da un'appendice di dati quantitativi. Ma ciò che il riguardo verso l'anziano Maestro giustificava per questa parte non poteva essere giustificato nel volumi dedicati al periodo successivo. Non si poteva, cioè, non tener conto dei progressi che gli studi e i metodi della storia economica - una disciplina in rapidissima evoluzione negli ultimi decenni - hanno registrato dal tempo in cui apparve l'opera di Corbino. Nella nuova serie, che raggiunge dimensioni imponenti - 15 volumi di testo e due di documentazione fotografica - superando probabilmente ogni opera analoga dedicata ad altri Paesi per lo stesso periodo, metodi e impostazioni aggiornatissime occupano dunque un posto centrale. Finora, i volumi di questa nuova serie già pubblicati sono due soltanto. Ma dell'opera si annuncia il compimento entro il 1983; e i volumi già apparsi investono periodi di decisiva importanza - la prima guerra mondiale e la Ricostruzione dal 1945 al 1952 -, e costituiscono un invito e uno stimolo vigoroso a una approfondita riflessione sul destino della società italiana nell'ultimo secolo.
Che la prima guerra mondiale fosse per l'Italia un cimento inevitabile, e che la terribile prova potesse essere evitata al nostro Paese da un più coerente atteggiamento di Giolitti è un problema decisamente affrontato da Gaetano Rasi e che induce ad allargare il discorso alle stesse ragioni di vita dello Stato nato dall'unificazione monarchica del 1861. E certo comunque che la guerra significò un completo rovesciamento dei principi e dei criteri con i quali fu governata l'economia del Paese fino allora. A un liberismo poco modificato nelle sue linee di fondo dal dazi protettivi adottati non solo dal nostro ma da tutti i maggiori Paesi (a eccezione dell'Inghilterra) dopo la crisi del 1873, si sostituirono adesso controlli, vincoli, e interventi dello stato a sostegno del settori più importanti per l'economia di guerra, che nel giro di pochi anni sconvolsero interamente il sistema produttivo preesistente.
Molto si polemizzò allora contro queste "bardature di guerra", e molto si criticarono le misure adottate dalla finanza pubblica per fronteggiare gli enormi fabbisogni delle forze combattenti. Si disse che un uso più vigoroso della leva fiscale e un minore ricorso al prestiti pubblici avrebbero mostrato con maggiore sincerità ed evidenza che le risorse cui si attingeva non erano e non potevano essere se non quelle esistenti, e non quelle delle generazioni avvenire; e Molto si auspicò, a guerra finita, che delle "bardature" ci si liberasse al più presto e al più presto si tornasse alla "normalità" dell'anteguerra. Illusioni, per gran parte, come dimostrarono fra gli altri Giorgio De Angelis e Gaetano Trupiano rispettivamente per ciò che riguarda la politica monetaria e creditizia e la politica fiscale. Probabilmente l'alternativa fra prestiti e imposte non era così drammatica come allora ritennero molti osservatori; e soprattutto era ingannevole il mito di un ritorno alla "normalità" dell'anteguerra, quando, insiste per parte sua Gaetano Rasi, le tensioni introdotte dal conflitto nel sistema economico richiedevano invece un uso più esteso e più accorto degli strumenti dell'intervento pubblico. Erano strumenti nati sotto l'urgere della necessità, ma che proprio per questo non andavano considerati soltanto frutto dell'errore e dell'arbitrio delle classi dirigenti, ma risultanti di meccanismi ormai instaurati nel seno della più profonda realtà economica, e che dunque era utopistico credere di poter cancellare con un colpo di spugna sul passato. Era insomma il problema dell'economia programmata che faceva la sua apparizione nel mondo contemporaneo e che, presente in varie forme nelle politiche economiche del fascismo, riapparve con nuova gravità nel secondo dopoguerra, al momento di avviare il processo di ricostruzione. Alla politica di ricostruzione italiana si è rimproverato da più parti - dall'ortodossia keynesiana e dall'estremismo di sinistra - di aver semplicemente affidato al meccanismi del mercato la ricostruzione del vecchio edificio lungo le linee già esistenti, invece di profittare dell'occasione che allora si offriva di avviare la società su nuove strade. Ma è di grande interesse constatare, sulla scia di Giano Accame e di Gaetano Rasi, che in realtà le sinistre non avevano un concreto programma economico alternativo a quello dei Corbino e degli Einaudi, e che, travolta almeno per il momento ogni politica di programmazione per essere stata, almeno in parte, la politica economica del fascismo, non rimase di fatto altra scelta che quella proposta dalla scienza economica liberista. E d'altra parte, ogni intervento di tipo diverso, dal cambio della moneta a un deflazionismo meno rigido dì quello che si rimproverò alla difesa della lira da parte di Einaudi, avrebbe richiesto una efficienza amministrativa e una tempestività di decisioni che erano già escluse dalle condizioni dei tempi di allora. Sta di fatto, poi, che i successi della ricostruzione italiana apparvero e furono in certo senso "miracolosi" assai più di quelli raggiunti da Paesi rimasti più fedeli del nostro alle prescrizioni dell'economia keynesiana.
I progetti materiali del popolo italiano dopo la seconda guerra mondiale furono dunque considerevoli e possono essere considerati un successo storico di primaria grandezza: un successo che ha modificato il volto della Penisola come poche volte è accaduto nel passato. Resta da vedere se basta l'avere rialzato ponti e capannoni, e assicurato agli italiani tanta maggiore abbondanza di beni materiali, per garantire che la collettività si sia interiormente rinsaldata e che soprattutto abbia acquistato un più alto e stabile significato nella coscienza di tutti i suoi componenti. E un interrogativo che ritorna con particolare insistenza nelle pagine dedicate da Giano Accame al secondo dopoguerra.
L'Italia senza obbiettivi nazionali e percorsa da una crisi grave d'identità non nasconde forse, sotto l'apparente progresso materiale, i germi di una occulta e inarrestabile decadenza, alla quale sembrano accennare lo smarrimento degli spiriti e lo scardinamento delle strutture della vita collettiva, da noi tanto maggiore che altrove? Sono domande che qua e là sono affiorate in questi anni, ma sempre soffocate dal tumulto e dall'urgenza dei problemi del presente. Forse è venuto il momento di prestare ad esse un orecchio più attento, ora che la crisi energetica e il rallentamento dei ritmi di sviluppo hanno messo fine a quella politica di trasferimento dei beni e servizi in misura crescente alle categorie più forti e più minacciose, in cui per molti anni ci siamo abituati a vedere la maggiore e quasi unica arte di governo.

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