§ Il corsivo

Ritorno in Grecia
(Appunti di viaggio di un greco-salentino)




Brizio Montinaro



Non è il primo viaggio che faccio in Grecia. E per questo, data la lontananza della mia meta, decido di escludere la via del mare che mi occuperebbe molto del poco tempo che ho a disposizione. A chi va in Grecia per la prima volta invece consiglio il viaggio classico con partenza in nave da Brindisi, sbarco a Patrasso, proseguimento fino ad Atene in pullman con breve sosta presso il suggestivo canale di Corinto. Almeno una volta nella vita, come gli antichi per S. Jacopo di Compostella, in Grecia bisogna andare così. Il mare realizza di più l'idea del viaggio - perduta per i moderni mezzi di trasporto - ed aggiunge un pizzico di fascino all'avventura preparando alla situazione acquatica che sarà predominante per chi intenda visitare la Grecia meridionale e le isole. Avendo io già compiuto l'altro viaggio nel continente visitando l'Epiro, la Macedonia, la Tessaglia, la Beozia, l'Eubea e l'Attica - viaggio che definirei invernale più intimo, attraverso la povertà di una Grecia che l'assoluto silenzio del Governo non pubblicizzando sconsiglia - decido di partire per un'isola del Dodecaneso estiva, lontana e poco frequentata dall'orda turistica: Kàrpathos.
Tutte le volte che vado in Grecia, anche se per motivi di lavoro o solo come visitatore, il mio atteggiamento non è mai quello del turista, dello straniero, etnocentrico. Non è e non può essere. La mia nascita avvenuta a Calimera, nella Grecìa salentina, ha un peso imponderabile ma sempre consistente. Il mio non mi è apparso mai un viaggio verso una terra ignota, straniera, da vedere per la prima volta. Già le stesse formalità doganali, irrazionalmente, mi sembrano assurde, inopportune. Mi pare di muovermi sempre nella mia stessa terra, con persone, cose ed abitudini consolidate. Ogni richiesta di passaporto mi sorprende, ma è la sola cosa che mi fa rendere conto di essere italiano, anche se un italiano speciale. Fortunato. No, Il mio non è un viaggio verso ma un viaggio dentro. E' un momento di riflessione, di confronto solitario. Non è un viaggio di andata. E' un viaggio di ritorno. lo ogni volta ritorno in Grecia, come un vecchio emigrante che si è allontanato dalla sua terra per necessità e dalla quale manca da tantissimo tempo. Tanto, da non potersi misurare con vite d'uomo. La nostalgia, il batticuore non mi sono mai estranei. Come quel vecchio emigrante ho sempre un velato timore, mai confessato, di non trovare le cose che mi aspetto e che vagamente sento di aver lasciato. Il quando non lo ricordo, non lo so mai di preciso. Tanto tempo fa.
Parto in aereo per Kàparthos con un volo Olimpic. Biba Kalùlis, simpaticissima ed efficientissima dipendente della compagnia aerea, mi fa il biglietto e la sua presenza rassicurante mi accompagna per tutto il viaggio. So che andare in Grecia d'estate può comportare per il viaggiatore alcuni rischi. Non ultimo quello di non trovare il posto per tornare il giorno fissato nonostante si sia chiuso per tempo il biglietto.
A Kàrpathos si arriva con un piccolissimo aereo da Rodi. Questa città mi è subito familiare. L'immagine del porto la conosco già. Provo la confortante e dolce sensazione dell'esserci già stato. Da quando ero bambino ricordo perfettamente questa colonna sormontata da un cervo e questo palazzo con le buffe campate raso terra. Non ricordo colori. Solo forme, pure forme. Anche il mare e il cielo sono grigi nella mia memoria e il gruppo di militari, ai piedi della colonna, che però ora non vedo. Del cielo manca un pezzo, come in una vecchia foto da cui è stato, per chissà quale vicenda, strappato un angolo. Ma sì, tutto è chiaro. Tra le facce di quei militari affiora quella ossuta di mio padre. Mi aveva tanto raccontato quand'ero bambino di quel suo soggiorno a Rodi, da militare. Foto nella mano. Non mi sovviene in che anno. Doveva essere nel periodo dell'occupazione del Dodecaneso da parte dell'Italia. Gli italiani sono rimasti in quelle isole dal 1912 al 1947. E' strano come abbiano lasciato da occupanti un così buon ricordo da queste parti. Tutti, anche a Kàrpathos, ne parlano come di un buon periodo.
Pigàdia è il vecchio nome di Kàrpathos, un paesino non bello, sul mare, di appena duemila abitanti. Il porto è delizioso; e lungo il piccolo porto si snoda l'esistenza con i cafenion, i ristoranti, i magazzini pieni di poca roba messa alla rinfusa. La vita dell'isola dipende dalle condizioni del mare. Montagnosa, non permette l'esistenza dell'agricoltura. Qui tutti sono pescatori o pastori. Le buone condizioni del mare permettono quindi una ricca pesca e l'arrivo delle piccole navi con i rifornimenti. Il mare è meravigliosamente colorato.
Qui ho trovato una casetta da affittare. Sembra una casa di bambole. Su una via che porta verso le rocce montagnose in fila, a decrescere, si stendono quattro stanze: una camera da letto con un delizioso vecchio letto carpatico dipinto di celeste e addobbato con bande di stoffa bianca ricamata coperte da sottili fogli di plastica trasparenti, quadri con vecchie foto di famiglia, piatti in, terracotta dipinti; poi un'altra camera da letto più piccola, una ancora più piccola cucina, un minuscolo bagno. La camera da letto non comunica con il bagno e la cucina; ogni volta quindi bisogna entrare e uscire di casa per poter circolare in casa. Questo che all'apparenza sembra un disagio mi dà in realtà la possibilità di godere, di frequente e in ore insolite, della vista meravigliosa del porto con il mare sempre di colore diverso. La mattina sono i galli a darmi la sveglia, e le pecore.
Qualche asino raglia disperato. E' incredibile la disperazione dell'asino quando raglia. Sembra un mondo felice, come quando a Calimera non c'erano i rumori e le uniche voci che si elevavano sulle umane erano quelle animali.
La mattina, svegliato all'improvviso dal gallo, non so bene dove mi trovo come quando, bambino, fui svegliato da un altro gallo chiuso in una cassetta e dimenticato la notte in casa insieme alle altre masserizie da traslocare al mare, appena venuto il giorno, come ogni anno, agli inizi dell'estate. Sentivo allora, come adesso, nell'aria quieta del mattino le voci di mio padre e di mia madre che parlavano di non so quali cose nella nostra lingua greca. Non ricordando contenuti, risento le stesse voci affettuose, rassicuranti di allora che s'intrecciavano tra loro per tessere il mio bene e organizzare la mia vita di bimbo.
La gente qui è di una gentilezza disarmante e lontana nel tempo. Pare priva di qualsiasi interesse, sorride e offre sempre qualcosa: pane, uva, formaggio. Gli squilibri e le lacerazioni della "polverosa Atene" paiono sopiti. I ritmi scorrono lenti, umani. Ogni frenesia è lontana, nei Paesi del progresso. Per le strade si è avvolti da una soffice matassa di saluti, di auguri: "Calimera", "Calispera", "Sto calò". Mi pare che da un momento all'altro debba incontrare le mie vicine di casa: la Luigia, la Maria, la Effa. Parlare mi imbarazza. Il vecchio emigrato che è in me esita a formulare parole per timore di non essere capito o, aperto il dialogo, di non essere in grado di capire gli altri. L'ambiente lo ritrovo, ma le persone, la lingua? I saluti, le poche parole essenziali sono le stesse; la pronuncia è la mia. Sono al tavolo di un ristorante, il migliore di Pigàdia.
Semplice e senza pretese. Qui tutti si chiamano allo stesso modo: Nico, osta, Janni, Manoli. Azzardo il primo nome che mi viene in mente e si presenta uno dei due giovani che servono.- Nico Loizos che poi è il proprietario. Chiedo cosa hanno da mangiare e avvio una dialogo sull'onda della simpatia. Nico e Janni il cameriere sono due tra le persone più simpatiche che abbia conosciuto a Kàrpathos. Mi propone di mangiare psari, pesce. Buona idea. Ma prima vorrei assicurarmi che sia... mi fermo, non so come dire. La mia mente vaga veloce alla ricerca di un termine che possa tradurre la parola fresco ma si perde, si confonde. "Fresco" suggerisce Nico. Gli chiedo se parla italiano. "No, neanche una parola".
Per dire fresco dunque in greco si usa lo stesso termine italiano.
La mia lingua temo non regga all'urto con quella greca. E' priva di moltissimi aggettivi, di termini astratti e di quasi tutti i moderni.
L'emigrato a tavola soffre di amnesie. Si ricorda come si dice cucchiaio, pane, acqua, sale, olio, carne, pesce ma non si ricorda come si dice forchetta; tentenna, si avvilisce. Perchè ha dimenticato? Forse quand'era in Grecia non esisteva ancora la forchetta?
E si ricorda come si dice giorno, notte, mattina, sera perchè non si ricorda l'apòievma, il pomeriggio? Pur se ricorda la struttura sintattica della lingua arriva al punto di chiedere l'angùri (cetriolo) convinto che gli portino il cocomero che invece èil carpuzi, parla di pòlemo (guerra) per parlare di lavoro (dulià), dice di andare a dormire: "Pao n'aploso", e i greci capiscono che va a stendere la biancheria,disperato allora vorrebbe rompere tutto (clano) e invece, poveretto, non dice altro che vorrebbe scoreggiare, dal momento che questo è in Grecia il significato di clano.
Suscita ilarità affettuosa. Ma non è lui a sbagliarsi. Nella sua terra si dice proprio così, le stesse parole hanno un significato diverso. Ma anche le parole che conosce con sicurezza hanno spesso accenti sbagliati, contorcimenti di sillabe: il genero lo chiamo grambò invece di gamvròs e dice chrondò invece di chondròs. Nella sua memoria però ci sono dei punti fermi : i numeri e i tantissimi termini dell'ambito domestico usati forse, a suo tempo, da una società semplice, quasi certamente contadina o pastorale. Il suo parlare, comunque, suscita curiosità, qualche volta meraviglia per l'uso di alcuni termini in disuso da secoli, e tanto affetto. A Pigàdia, a Diafàni, a Ólimpos, ovunque vada mi chiedono di dove sono.
- Di Calimera - rispondo.
- Buongiorno - ed equivocando sul nome del mio paese che significa appunto buongiorno rincalzano - Di dove sei?
- Di Calimera!
- Di Calimera -, insisto.
- Va bene. Buongiorno. Ma di dove sei?
- Sì, si ho capito. Buongiorno, buongiorno. Ma vorrei sapere dove sei nato.
- A Calimera. E il nome del mio paese. Un nome augurale.
- Ah! In uno dei paesi dove parlano greco, in Sicilia.
- No, in Puglia. A sud di Lecce. Presso Otranto.
Tutti i greci, con i quali parlo, o non sanno dell'esistenza di italo-greci o li situano in Sicilia. Quasi tutti ignorano che le isole linguistiche greche sono nel Salento e in Calabria.
Ólimpos è una delle cose più notevoli, da non perdere assolutamente, di tutta l'isola di Kàrpathos. E' un paesino di origine medievale sorto, intorno al 1400, su quei monti dove trovarono rifugio i paesani scappati da Vrucùnda e Saria dopo la distruzione del loro villaggi. Mulini a vento sul mare, minuscole chiesette bianche come per tutta l'isola, case arroccate una sull'altra. Sulle terrazze la vita. Qui pare di essere indietro nel tempo, "almeno di cento anni", dicono. E questo perchè Ólimpos è quasi completamente isolato dal resto dell'isola che, d'altra parte, è già isolata di per sè. Le case, gli antichi letti, i costumi delle donne, l'economia, il modo di vivere insomma con una particolare visione del mondo fanno di questo villaggio un grande museo vivente di folklore, ma soprattutto un'isola di antica umanità.
Conta circa seicento abitanti ma negli anni passati ne contava più del doppio. Come in tutta l'isola, anche qui la mancanza di lavoro e le condizioni di vita estremamente precaria hanno spinto più della metà della popolazione ad emigrare verso l'America, il Canada in particolare, e l'Australia. Qui non c'è donna che non lavori. In casa, al telaio o a ricamare, la più fortunata, sulle pendici pietrose del monte a pascolare le capre tutte le altre. Le donne fanno i lavori pesanti dell'uomo: caricano e scaricano enormi pesi, arano quella zolla di terra arabile ancora con il vecchio aratro, sgobbano come muli. Gli uomini tutto il giorno al cafenion a bere ouzo e a giocare a tavlètas, le donne a fare il pane, a infornare in caratteristici piccoli forni, a sfornare. Gli uomini emigrano, le donne spesso rimangono. Se costrette a lasciare la loro terra, depongono gli antichi abiti, che poi indossano nuovamente al ritorno: da Montreal, da New York o da Sydney. Se vivono a Ólimpos o a Diafàni la loro sorte è segnata: casa e lavoro. Mai un posto pubblico, mai un divertimento. E non le sfiora nemmeno l'idea di una protesta.
Solo i giorni in cui c'è panighìri, la sagra per il santo del paese o, il 15 di agosto, la festa grande in onore della Madonna o ancora in altre occasioni rituali (funerali, matrimoni ecc.) hanno il diritto di partecipare a situazioni collettive pubbliche. Il panighìri è scandito in tre parti: liturghìa, faghetò, chorò. La mattina, cioè, si svolgono le funzioni liturgiche della chiesa, poi c'è il pranzo in comune e, dal pomeriggio fino a notte, il ballo, Per l'occasione tutti indossano il loro abito migliore; le donne abiti per bellezza e ricchezza veramente unici. Mani, collo e petto ornati da etti ed etti di oro. Grosse sterline montate in pesanti collane e bracciali fanno mostra di sé. Tutti partecipano al pranzo organizzato dalla chiesa, che è gratis ma, al dunque, più che pagato per le notevoli offerte che vengono deposte ai piedi dell'icona della Madonna. Piccole orchestrine formate da violino, liuto, lira e a volte zampogna suonano fino a notte inoltrata il pentozàlis, la susta e lo zervòs che è una tipica danza carpatica. Nulla mi riporta ai ritmi salentini.
Birra, ouzo e retsìna a fiumi eccitano gli animi. La musica sul cocuzzolo del monte si perde nelle tenebre portata via a folate dal meltèmi, un vento di ponente intento a spirare a guance gonfie per tutto agosto.
E così ad Apèri con i suoi quattrocento abitanti, a Volàda, ad Arkàssa, a Mesohòri, a Menetès. A Menetès, nella tipica chiesa bizantina, assisto al battesimo di quattro bambini; uno ha undici anni. I genitori hanno atteso il ritorno dal Canada per far battezzare il figlio. I battezzandi, completamente nudi secondo il rito greco ortodosso, vengono immersi in un calderone di rame rosso. Grida di gioia e festa per tutti gli altri bambini.
A Pigàdia assisto ad un matrimonio. Il clima e il comportamento è quello dei nostri matrimoni della fine del secolo scorso o dei primi anni di questo, da quanto risulta da certe pallide fotografie gelosamente custodite dai nostri padri. Al banchetto con musica e balli è invitato indistintamente tutto il paese. Se gli sposi sono di due paesi diversi, allora al matrimonio vengono inviati in blocco i due interi paesi. La spesa è enorme. Ma allora, i cinquemila abitanti dell'intera isola di Kàrpathos sono ricchi? L'economia, il tenore di vita, il comportamento lasciano supporre il contrario. La loro è una vita modesta, senza macchine. Sconcertante per il turista. L'unica immensa ricchezza mi appare la magnifica ospitalità, la generosità, la casa sempre aperta. E così è. Non conoscono il consumismo,- la scorza della ricchezza. Ma, altri cinquemila figli di questa terra, legati a filo doppio alla loro casa, alla loro famiglia, assenti e presenti nello stesso tempo, guadagnano dollari in America e li accumulano qua. E'' impressionante sentire parlare, d'estate, i bambini in quest'isola popolata solo da vecchi. Conoscono perfettamente due lingue: il greco e l'inglese. Sono nati a New York, Brooklyn, Toronto, Miami e si chiamano Mary, John, Eirene in memoria dei greci Maria, Janni, Irini.
Auto di grossa cilindrata, soprattutto Mercedes, d'estate vengono trasferite su quest'isola senza strade o nel migliore dei casi con strade in terra battuta. E' il vezzo dell'emigrante che si ripete sotto un altro cielo.
Ed ecco le imponenti macchine con targa straniera dei miei vicini di casa che intimorivano negli anni '60 noi ragazzi e facevano crepare d'invidia i grandi. A Calimera, a. Soleto, a Supersano.
Sotto questo cielo terso dimentico le incrostazioni angosciose del progresso. Qui, dell'albero della vita, si scorgono solo le radici che non fanno rumore e non si agitano come la cima esposta.
Sui davanzali delle finestre, orlate di celeste, vasi con odorose piante di basilico; dentro le case il vecchio dimenticato telaio al lavoro, che tesse storie di silenzi e di rassegnazione. Una voce canta.

An pèsano, aftèntimu,
chòseme 's tin avlìddasu
na me patìsu' a pòdiasu
na cherestì e psichèddamu

Se morissi, mio signore,
sotterrami nel tuo cortile
perchè mi pestino i tuoi piedi
e la mia anima gioisca.

così cantava la Nina "zontanì", al telaio, nella prima stanza, bianca, vuota e rimbombante e vicina a casa mia. L'aereo mi riporta alla realtà dei "comforts". Riaffioro all'oggi dei problemi superflui. Ressa all'aeroporto.
Ma perchè centinaia e centinaia di migliaia di persone occupano d'estate la Grecia? Per apprezzare forse ciò che poi nei loro Paesi disprezzano? Perché non vanno via in punta di piedi? Penso a questa mia terra lontana, d'inverno, silenziosa, sofferente. Senza bambini e senza vento.


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