Un museo per il manifesto




Nello Wrona



Non ha mai avuto vita facile. Come "grido sulla parete", è stato considerato, di volta in volta, mezzo espressivo, comunicazione estetica, messaggio accattivante, portavoce ideologico, documento di storia e di costume. li manifesto murale riflette da sé, una vasta raggiera di interpretazioni, combinate ad un uso e consumo semplicemente propagandistico di apparente e limitato rilievo.
Il manifesto nasce per il tessuto connettivo urbano, è destinato a coprire e legittimare uno spazio vuoto e inconcludente: ma la sua definizione, al di là delle certezze su contenuti e forme, è precaria e contingente. Sfugge ad ogni presa di coscienza che non sia appunto relativa alle circostanze immediate e occasionali e, pur essendo essenziale e funzionale alla realtà esterna, la sua presenza passa inosservata.
Come categoria estetica del nostro secolo, l'affisso, o manifesto, ripete il destino delle cose adattate alle necessità commerciali e speculative, mutate da esperienze, soprattutto artistiche, profondamente diverse: con l'acculturazione di massa, la pittura da camera è diventata da strada e il quadro affisso pubblicitario. Ma la mutazione è andata ben oltre, sovrapponendo l'idea pubblicitaria a quella artistica e canalizzando contorni, colori e geometrie nell'intensità primaria dell'appello visivo.
L'arte, quindi, sacrificata al punto che l'affisso "è un foglio con figure e scritte vistose, ripetuto all'infinito sui muri della città: frettolosamente attaccato di notte, presto si ritrova, sgorbiato, lacerato, ricoperto. Pittura superficiale ed effimera, vuoi essere veduta senza esser guardata, le basta deporre il suo futile messaggio nei bassifondi della memoria di chi, passando, l'affera con la coda dell'occhio e non ci fa caso. Al momento giusto, per la sua stessa leggerezza di sughero, riaffiorerà e produrrà il suo effetto"(1).
Il manifesto, come discreto consigliere, con le sue metafore e sottintesi: un riferimento, convenzionale e spregiudicato, di aspirazioni, di sogni, di illusioni, di idealità e di miti "confinati" di una comunità civile in un certo momento e in un certo luogo della sua storia. La prospettiva critica è ora rovesciata. L'idea pubblicitaria, nonostante la sua provvisorietà, crea un sistema di assorbimento in cui i valori della comunicazione definiscono uno stile e un progetto di vita, tanto che "le sedi dove si rappresenta la cultura non sono i musei, le gallerie private o altri luoghi analoghi; sedi deputale non ci sono: è la città come metafora del nostro vivere comunitario lo spazio di ogni intervento.
L'importanza dei testi nasce non dal destinatario, ma dalla coerenza interna e dalla funzione che essi sono in grado di conquistarsi nei confronti del pubblico" (2).
Due compiti particolarmente delicati - traduzione di un contenuto artistico originale nel linguaggio dell'effimero e trasposizione del messaggio visualizzato nell'urbano - riconducibili ad una stessa matrice etimologica che vuole il manifesto accompagnatore fedele ed interprete di una scelta e del suo definitivo orientamento (3).
Il manifesto, come funzione del linguaggio-messaggio, è nato con le (e dalle) prime forme di aggregazione civile dotate di un supporto politico-commerciale.
Se Pompei conobbe e strumentalizzò il graffito murale, di derivazione sacra, in prospettiva propagandistica (4), Roma imperiale consacrò il manifesto, elevandolo a unico e solo interprete della volontà politica del Senatus (5). Nel primo e nel secondo caso, il graffito, o avviso, è ancora soggetto alle forme e ai contenuti dell'imperatività religiosa e statuale: la pubblicità è sempre vischiosamente vincolata al singolo fatto o avvenimento; non ha un riferimento strutturale con la realtà circostante. Il manifesto è fine a se stesso, vive di automazione, è destinato a morire per autoconsunzione, o per il venir meno della situazione che lo ha "provocato". Non crea, in pratica, un genere né tanto meno una categoria.


La stessa impostazione "pubblicitaria" troviamo fino al XV secolo. L'avviso murale è un "genus" ibrido e differenziato che risente ancora della concorrenza di banditori e araldi (6). Stampare un manifesto si traduce in una operazione economica dispendiosa e poco redditizia, vista l'impossibilità di procedere a riproduzioni in serie dello stesso avviso.
La svolta radicale si ha sol o con l'introduzione dell'uso della carta, importata dall'Oriente nel XII e XIII secolo, e con i caratteri mobili, quindi scomponibili, del Gutemberg.
La carta offre maggiore garanzia e convenienza delle pergamene ricavate dal cuoio degli animali. E' più manegevole e duttile, costa poco e si ottiene con processi ridotti di lavorazione.
Nascono così le prime carte da gioco (con l'ausilio della xilografia), i manifesti satirici, i bollettini commerciali e i calendari, nonchè gli avvisi delle botteghe e i fogli volanti.
Il risultato, in prospettiva meno immediata, è interessante perchè si giunge "alla sostituzione nell'uomo "tipografico" di una percezione visiva al posto di quella sensitiva dell'uomo "manoscritto", all'affermazione della lettura silenziosa al posto di quella ad alta voce; ad un processo di omogeneizzazione degli schemi mentali e degli strumenti culturali imposto dalla stampa, con la creazione di un vero e proprio 'pubblico'" (7).
Il successo del nuovo strumento di comunicazione arriva solo, però, con la rivoluzione francese, in una Parigi tappezzata da manifesti e avvisi politici, bandi di cattura, denunce scritte e anonime. Siamo ancora, è vero, nel campo del soggettivo, sulla scia dello slogan (analogo fenomeno durante le contestazioni studentesche del 1968 in Europa, e la crisi del 1978 in Italia: "Uno, cento, mille Moro") e della immediatezza. L'avviso conserva la matrice ideale del graffito e non si presta ad essere generalizzato come fenomeno costante e duraturo.
Lo sarà inevitabilmente solo dal XIX secolo, con l'invenzione della litografia e della cromolitografia: il manifesto tende ad ingrandire le proprie dimensioni, i colori sostituiscono la piattezza del bianco-nero, le figure e le immagini predominano sul testo. E' finalmente, icona.
La rivoluzione industriale prima, e la tendenza ad assumere la spinta consumistica come parametro di crescita e di evoluzione sociale poi, lo imporranno definitivamente come merce e prodotto, facendo del '900 il secolo dell'immagine".


Per la sua stessa frammentarietà, il manifesto non è suscettibile di una catalogazione formale che lo inquadri, oggettivizzandolo, in uno schema piuttosto che in un altro. La varietà dei generi spiega l'impossibilità dell'operazione: manifesto politico, commerciale, culturale, religioso, propagandistico... Tentare di raggrupparli, secondo i contenuti, la forma o le prospettive sostanziali del messaggio riportato significherebbe frantumare un discorso, anche storico, che va visto soprattutto nella sua sintesi figurativa.
Si può, comunque, tentare un accostamento parziale, seguendo la trama di un riferimento (o più riferimenti) geografico e culturale che evidenzi J'evoluzione nel tempo.
In tal senso, il "Museo del Manifesto", ideato da Rocco Coronese, a Parabita, con il compito di catalogare l'opera creativa restituendola all'esterno, al pubblico, cioè, nella su uniformità di fatto di costume.
L'iniziativa, non di poco conto, se valutiamo l'incidenza degli Istituti d'Arte e delle Accademie di Belle Arti disseminate nella provincia di Lecce e la novità di un luogo di "immagini", unico e solo nel suo genere in tutta Italia.
Nel "Museo" è ricostruita, ancora parzialmente, la storia della manifestistica, ufficiale e non, di questo secolo.
Il manifesto, o quindi, come lettura popolare e come messaggio culturale dal "destino popolare". Ma è anche raccolta di lavori firmati da Steinlen, Cappiello, Seneca, Cassandre, Depero, Picasso, Dudovich, fino agli autori moderni: Testa, Tovaglia, Ruffolo, Lenica.
Due pertanto, le chiavi di lettura. Il manifesto, o l'"affiche", come creazione artistica che evidenzia l'autore e la sua professionalità (lo stesso Matisse si cimentò nella grafica pubblicitaria, Joan Mirò ha disegnato il manifesto ufficiale per i Mondiali di Calcio in Spagna); il manifesto come "favola", o racconto, che deve essere ricostruito morfologicamente e restituito, in un secondo momento, nella sua struttura. Nel primo caso, il manifesto sarà una variabile che incide sui significati esplicativi del prodotto; nel secondo, combinandosi alle arti "minori" e ai gusti del pubblico, fungerà da cerniera tra i vari piani della comunicazione, permeabilizzando strati culturali e orientamenti individuali.
Il "Museo" di Parabita nella sua sostanziale uniformità, si presenta, quindi, come una fabula da decodificare e disaggregare, riportando le componenti unitarie alla situazione, o fatto evidenziato ed evidenziabile, che ha motivato il manifesto.


Tale metodo di ricerca è possibile (e necessario), per esempio; nel terreno del manifesto politico. Non solo per la locandina politico-elettorale, che è di facile lettura perchè contiene, già risolti, gli schemi e gli indirizzi di un programma o di una iniziativa di partito, ma anche per tutti quei manifesti, soprattutto dall'Est europeo, che nel. simbolo - nell'icona - rappresentano un intero sistema di vita e una concessione politica della società.
La reinterpretazione significa, in pratica, assorbire non solo l'idea del prodotto, ma tutto un genus culturale che è il punto di partenza e il punto di arrivo del messaggio pubblicitario.
Pensiamo, per un momento, a frasi e concetti che, per trasposizione, sono oggi bagaglio del linguaggio giovanile. Se il Maggio francese ha lanciato slogan e graffiti che resistono all'usura del tempo ("La trasparenza non funziona più") e i movimenti presessantotteschi italiani frasi, di derivazione alessandrina o da Antologia Palatina, che hanno ispirato scrittori e registi cinematografici ("La mamma è buona, mangiala prima che si raffreddi"), i ragazzi di oggi, giovani e meno giovani, dispongono di un moderno, forse irrazionale, vocabolario consigliato dalla cultura del manifesto ("chi non mangia la Golia ... "; "Liscia, gassata, o Ferrarelle" ... ).
Il manifesto, dunque, impone una moda, non solo nel sistema dei consumi e della vendita di un prodotto, ma anche nel linguaggio alternativo a quello ufficiale. Un linguaggio nel linguaggio, con la sovrapposizione di due spinte culturali: una sostanzialmente conservatrice e ancorata ai modelli generali dei supporti e delle strutture capitalistiche; l'altra, proiettata al recupero di un codice di comunicazione più immediato e spontaneo. Ma non spicca solo la diversità linguistica. Il manifesto ha aperto le porte alla cultura popolare, o di dominio popolare, cosa che in altri tempi sarebbe stata impensabile. Se gli Anni Trenta lanciarono il manifesto della bicicletta "autarchica" o dell'"Ardita Fiat", nel quale l'immagine commentava da sola il prodotto (e la sua genesi morfologica), oggi si fa ricorso a personaggi che hanno fatto storia, imponendo un costume', da Mussolini a Garibaldi, da Napoleone alla Gioconda leonardesca, per citare solo alcuni dei personaggi che attualmente spiegano e decifrano il messaggio.
Il manifesto, in definitiva, come un libro aperto e uno spettacolo che avrà maggiore o minore successo di "vendita" in rapporto al gusto del pubblico (moda del momento) e alla disponibilità dello stesso a lasciarsi coinvolgere, quasi ludicamente, nel percorso produzione-consumo. Solo a questo punto, il messaggio da manifesto diventa simbolo, il simbolo cultura (collettivizzata) e la cultura sistema di trasmissione e di ricezione del messaggio idealizzato.


NOTE
1) Giulio Carlo Argan, "Tanto di Cappiello", in L'Espresso, 26 luglio 1981, p. 87.
2) Arturo Carlo Quintavalle, in Panorama, 13 luglio 1981, p. 22
3) "Manifestus" = "preso per mano"; per est. "preso sul fatto". Giacomo Devoto, Avviamento alla etimologia italiana, Milano 1979. Voce Manifesto.
4) Gli esempi sono numerosi. Fatta eccezione per una colonna ricoperta da strati sovrapposti di papiri, scoperta a Ercolano nel 1897, la forma più usuale di comunicazione è data dai graffiti di questo tipo:
- "Vicini", votate alla magistratura Lucio Stazio Recetto perchè lo merita. La scritta è del vostro vicino Emilio Celere. L'invidioso che cancella possa stare male!", di stampo elettorale; oppure:
- "Mercurio qui vi offre il guadagno, Apollo la salute e l'oste Settimiano il vitto e l'alloggio. Chi verrà si troverà bene. Viaggiatore, stai attento a dove vai", dedicata ai commessi di viaggio e rappresentanti di commercio.
Non manca l'annuncio estemporaneo. Amoroso: "Buongiorno, Vittoria, ovunque tu sia, possa tu starnutire graziosamente"; o male augurante: "Sammio a Comelio: impiccati".
5) Roma accredita il manifesto negli organi ufficiali di comunicazione. Superfata la figura dell'anagnoste, accanto al banditore prendono corpo, e si formalizzano sotto Cesare, gli "Acta diurna", gli "Acta Senatus" e le "Tabulae publicae".
"Res omnes singulorum annorum mandabat litteris pontifex maximus referebatque in album et proponebat tabulam domi, potestas ut esset populo cognoscendi". (Cicerone, De Orat., 2, 52).
"Inito honore, primus omnium instituit, ut tam senatus quam populi diurna acta confierent et publicarentur". (Svetonio, De vita duodecim Caesarum libri Vili, libro 1, par. 20).
Diffusa anche a Roma, comunque, la consuetudine di servirsi del graffito come espressione, anonima e generica, di fatti e avvenimenti, al punto che una scrittura su muro così sintetizza la situazione: "Admiror, paries, te non cecidisse ruina qui tot scriptorum taedia sustines".
Prevale, già, però, il contenuto pubblicitario, da locandina: "Pro salute Neronis Claudii Caesaris Augusti... venatio, athletae et sparsiones erunt: V, IV KaIendas Martias. Claudio Vero feliciter". E ancora: "Auli Suetti Certi aedilis familia gladiatoria pugnabit Pompeis Pridie Kalendas lunias. Venatio et vela erunt".
6) I banditori pubblici si diffusero in Francia, dove nel Medioevo formarono una corporazione con un proprio statuto. Durante i secoli XIII e XIV i commercianti non ebbero altro mezzo per raccomandare i loro prodotti. Solo nel secolo XVI essi presero a girovagare con le proprie mercanzie, divenendo banditori di se stessi, e, a poco a poco, la pubblicità verbale fu sostituita dall'affisso che il venditore esponeva accanto alla sua merce.
7) Luigi Balsamo, A. Tinto, "Le origini del corsivo nella tipografia italiana del Cinquecento", Milano, 1967, p. 13.


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