§ LO SPETTRO DEL '29

CRACK?




UIrico Buttini,
coll. V.A.S. e G.D.M.




Quando l'incertezza, la confusione e quindi il disorientamento aumentano, è opportuno fermarsi un momento a riflettere, almeno per capire ciò che é andato e sta andando storto nell'economia mondiale. Ho detto economia mondiale (e non solo economia italiana) perché la crisi economica ha progressivamente contagiato gran parte dei Paesi dell'Ovest e dell'Est.
La stessa dinamica politica lo dimostra. Parecchi Paesi si spostano o verso destra o verso sinistra senza essere poi in grado di mutare la rotta della politica economica. Reagan, nonostante tutte le promesse, non riesce a tagliare le spese sociali, per cui deve aumentare le tasse che voleva diminuire. Olof Palme vince le elezioni, ma svaluta immediatamente e inaugura una rigidissima politica dei redditi. Mitterand blocca prezzi e salari. All'Est, niente di nuovo. La Jugoslavia e la Romania - per non parlare della Polonia - adottano anch'esse drastiche misure di contenimento di salari e di prezzi.
L'economia italiana é quella che sta peggio, almeno tra i Paesi occidentali. Perché stia peggio è noto: un disavanzo pubblico che nessuno controlla più, un'inflazione che ha ripreso il volo, larghi buchi nei conti delle aziende autonome e delle imprese a partecipazione statale. Ma ciò che più sconcerta è una situazione sindacale da far rimpiangere persino i tempi in cui il sindacato impazzava, e una situazione politica che ormai sembra aver dei tutto dimenticato che i governi, centrali e locali, ci sono per prendere qualche decisione.
Perché l'economia mondiale sembra aver infilato un tunnel senza via d'uscita? Per rispondere adeguatamente sarebbe necessario scrivere parecchi volumi. Ci dobbiamo limitare a qualche spunto per la riflessione.
1) Vi è un grande cambiamento nel funzionamento dell'economia mondiale che non ha ancora trovato una corrispondente risposta di politica economica. Il processo di industrializzazione, e quindi di integrazione, delle economie nazionali ha proceduto a ritmo serrato con effetti grandemente positivi sul benessere economico dei vari Paesi. D'altro canto, l'integrazione economica significa che ogni Paese è, molto più di prima, soggetto a cambiamenti provenienti dall'esterno.
Se i giapponesi ti portano in casa gli orologi a metà prezzo, la tua industria degli orologi deve fare qualcosa. Che cosa deve fare? 0 ristrutturarsi, per competere con i figli del Sol Levante, o sviluppare produzioni diverse. Per fare questo, si richiedono un ampio investimento e un'elevata mobilità delle risorse. Se queste due condizioni mancano, i concorrenti vincono.
2) Inoltre, è del tutto evidente ormai che la politica economica internazionale èuna politica più adatta, nonostante i rapporti tra banche centrali e l'azione del Fondo Monetario Internazionale, per i tempi degli Stati-Nazione (circondati da solide barriere doganali) che per il tempo attuale in cui, nonostante l'insorgenza di protezionismi, la direzione di marcia è quella delle libertà degli scambi.
Oggi, chi ha difficoltà nella bilancia dei pagamenti sceglie, oppure è costretto a difendersi da solo, causando danni agli altri Paesi che non possono non reagire.
Per evitare questi danni è evidente che occorre un certo grado di concentrazione delle politiche economiche dei vari Paesi, almeno in date aree, come l'Europa. Ma qui incontriamo il primo problema politico irrisolto nonostante il cammino dell'economia. Cioé: l'economia ha camminato più rapidamente della politica internazionale, e oggi ne subiamo le conseguenze.
3) Vi è un altro problema aperto della politica economica contemporanea, un problema che potrebbe interessare da vicino anche la questione delle riforme istituzionali, di cui si parla oggi in Italia. i] mondo occidentale esce dal secondo conflitto mondiale con un corpo di dottrina economica - la dottrina keynesiana - che attribuisce all'azione illuminata dei governi, attraverso la spesa pubblica, la capacità di influire in modo positivo sul "sentiero" di crescita dei redditi e dei l'occupazione, senza dover rinunciare, come invece era stato il caso della Germania nazionalsocialista, alla democrazia.
Queste conclusioni erano basate su ipotesi politiche ben precise: in primo luogo che, una volta individuate corrette linee di politica economica, queste potessero essere isolate da "domande politiche" in conflitto con la razionalità economica e difese poi dall'azione corrosiva dei gruppi d'interesse.
Credo che non si debba insistere molto per provare che queste condizioni "politiche" della dottrina keynesiana siano solo parzialmente soddisfatte. La politica economica non è fatta dai "saggi" di Harvey Road, come era nella concezione elitaria di Keynes, ma da politici sicuramente in buona fede, ma impegnati in una lotta allo spasimo per la rielezione: politici quindi - e gruppi di interesse - portati a favorire progetti di spesa pubblica di breve periodo rispetto a quelli di lungo periodo, e comunque tendenti a sottovalutare gli effetti di lungo periodo delle decisioni di breve.
Come dice James Buchanan in Democray in Deficit, mettere il keynesismo in questa struttura di decisione politica è piuttosto complicato, ed è molto probabile che dal tritacarne escano disavanzi pubblici e inflazione.
Ciò non vuoi dire che la democrazia non ammetta sviluppi, come non vuoi dire che occorra abbracciare posizioni opposte. La signora Thatcher che, con più costanza di altri, sta applicando dottrine monetariste, sta ancora attendendo, nonostante i successi sull'inflazione, una ripresa duratura e soprattutto quella riorganizzazione dell'industria britannica che era e rimane l'obiettivo principale della sua azione.
Ciò che si vuoi dire è che sarebbe opportuno allungare in qualche modo la vita del governi, per sganciare i politici da logiche parziali e di breve periodo, e comunque troppo influenzate da gruppi d'interesse e dalle burocrazie, private e pubbliche.
4) Vi è infine un punto che può anch'esso spiegare le incertezze del cammino economico attuale. Il mondo sta vivendo una grande rivoluzione tecnologica: la rivoluzione collegata all'uso dei microprocessori e allo sviluppo dell'informatica. Questo grande cambiamento, che incomincia a interessare anche l'Italia, porta con sé la complessa e grave questione della disoccupazione, anche perché le nuove tecnologie cominciano a diffondersi nel settore del servizi che, nel passato, ha assorbito parte del lavoratori espulsi dall'agricoltura e dall'industria.
E' molto probabile che quella relazione diretta tra aumento della produzione e aumento dell'occupazione, che era ritenuta in passato come certa e sicura, non sia più valida.
Il grande economista Wassily Leontief ha osservato che, in queste condizioni, se una economia deve funzionare senza estesi controlli sociali, il lavoro non fatto dalle macchine deve essere "ripartito", come deve essere ripartito il reddito. La storia, anche la storia recente, mostra che le società hanno risposto a queste sfide attraverso la revisione delle loro istituzioni economiche e del loro valori per giungere a un uso efficiente della tecnologia e aumentare in tal modo il benessere della comunità.
Nell'ardore e nel clamore della lotta politica, nell'incertezza che oggi sovrasta il mondo, è difficile spingere lo sguardo lontano, alla ricerca delle vere cause che turbano le odierne società e l'economia mondiale. D'altra parte, è solo evitando di lasciarsi travolgere dal contingente che i profondi cambiamenti in atto in campo politico, economico e sociale potranno essere meglio capiti e dominati.
La domanda che ci si pone da più parti, è se avremo fra non molto un crack che in qualche modo ricordi quello che determinò il grande crollo di Wall Street, nel 1929. In altre parole: è da tre anni che due spettri aleggiano sull'umanità, e sono quelli della guerra mondiale e della grande crisi. Una guerra, che non si fermi al livello "regionale" (e di guerre del genere ce ne sono parecchie in corso) e che coinvolga i due massimi contendenti planetari, segnerebbe con ogni probabilità la fine di tutte le civiltà sulla terra. Una grande depressione che colpisse l'Europa, finirebbe con l'estendersi rapidamente al Terzo e al Quarto Mondo, coinvolgerebbe l'America e trascinerebbe con sé anche i sistemi economici dell'Est. In un caso o nell'altro, si tratterebbe, secondo Galbraith, di una strada "che incomincia davanti a un cimitero e finisce nel fiume".
Segni di nervosismo ci sono, e il pericolo di una guerra planetaria non si deve considerare mai del tutto scongiurato. La grande diplomazia è sempre al lavoro, e con alterne vicende le "ritirate" riguardano ora l'uno, ora l'altro dei due blocchi. Se salterà questo delicato equilibrio, se la "ritirata" di uno solo dei due blocchi sarà costretto a superare la longitudine vitale, qualcuno "premerà il bottone", e ne saremo tutti coinvolti. In un contesto così complesso, politica ed economia sono un tutt'uno, si determinano vicendevolmente e vicendevolmente si condizionano all'interno di ciascun blocco e nei confronti dell'altro blocco. Ecco perché è importante la risposta alla domanda: siamo alle soglie di un altro '29?
Sarebbe errato chiederci se quello che successe al Wall Street nell'ottobre 1929 può ripetersi, con crolli delle quotazioni azionarie paragonabili a quelli di poco più di mezzo secolo fa. Perché la risposta sarebbe sì, il grande crack di borsa potrebbe ripetersi, anche se le probabilità sono molto minori, perché oggi ci sono limiti precisi alle operazioni allo scoperto, mentre nel '29 non c'erano limiti del genere, e gli speculatori giocavano in borsa con denaro preso a prestito. A quell'epoca, le voci più assurde e improbabili trovavano credito, mentre oggi questo non avviene più. Abbiamo norme che, in qualche misura, impediscono la manipolazione del mercato. Ma quando i prezzi salgono rapidamente, possono precipitare ancor più velocemente. Ora, Marx ha affermato che la storia si ripete, la prima volta in chiave di farsa, la seconda in chiave di tragedia. La storia economica non si ripete secondo questa regola. Vediamo quali furono i problemi che determinarono la grande depressione, nel periodo fra il 1929 e il 1931. Prima di tutto, il sistema bancario si trovò con una massa di crediti inesigibili, che provocarono il fallimento di migliaia di banche. Come stanno le cose ora? Le maggiori banche di New York, di Chicago, di Londra, di Francoforte, hanno in essere ingenti prestiti concessi a Paesi stranieri. Quattro o cinque anni fa ero molto preoccupato per la circostanza che non conoscevamo l'esatto ammontare di queste esposizioni, né sapevamo quale fosse la capacità di rimborso dei Paesi debitori. Diverse grandi banche erano sulla lista nera degli organi di vigilanza, per via dei prestiti concessi a nazioni in difficoltà, come la Turchia, lo Zaire, il Perù. La mia impressione è che oggi (malgrado la dichiarata insolvenza del Messico, che pure è un campanello d'allarme) la situazione è molto migliore di quanto non fosse cinque o sei anni fa. In parte, ciò è dovuto al fatto che l'inflazione favorisce molti cattivi debitori. Ma questo non significa che il problema sia risolto. Al contrario, le esposizioni delle banche sul mercato dell'eurodollaro, privo di ogni controllo ufficiale, rappresentano un grosso pericolo. Insomma, quelle che è avvenuto alla Franklin National Bank (grazie anche alla gestione di Michele Sindona), potrebbe succedere alla Chase, o alla First National of Chicago, e le ripercussioni potrebbero essere ancora più serie di quelle provocate dai quasi-fallimenti della Lockheed, della Crysler, o dalla bancarotta della Penn Centrai.
La grossa differenza, la vera differenza della quale gli storici dell'economia debbono tenere conto, è che nel periodo fra il 1929 e il 1935 si viveva nel mondo dell'ortodossia, le regole erano assolutamente vincolanti, non solo ai fini dell'azione, ma anche a quelli del pensiero. Nessuno si sarebbe sognato, mentre negli Stati Uniti ottomila banche stavano fallendo, di mettere sotto pressione la tipografia della Zecca e, stampando danaro, salvare così le banche con un atto dello Stato.
Se andiamo a rileggerci i documenti dell'epoca, gli articoli di giornale, le minute delle riunioni segrete dei responsabili della Banca Centrale, vediamo che tutti davano per scontato l'obbligo di mantenere un rapporto costante fra le riserve monetarie e il circolante. E questa religione continuò a prevalere fino all'avvento di Adolf Hitler. Il quale, per ignoranza o per astuzia, cambiò completamente le regole del gioco.
Oggi non si potrebbe più verificare, come si verificò allora, una corsa al ritiro dei risparmi dalle banche, con conseguente fallimento a catena degli Istituti di Credito, soltanto perché i governi, per motivi costituzionali, non possono attivare la rotativa delle banconote. Le moderne democrazie che prevalgono nel mondo Occidentale, (anche nei Paesi monetariamente più ortodossi, come la Svezia o la Germania Occidentale), non consentirebbero l'innesto di un processo deflazionistico, di un circolo vizioso provocato dalla paura. Un circolo vizioso che può essere interrotto mediante la creazione di carta moneta.
Si dirà: la grande depressione iniziò poco più di cinquant'anni fa con il crollo della borsa; oggi, il mercato delle valute e quello dell'oro sono in ebollizione. Che cosa significa?
Ecco: l'interpretazione più diffusa del fenomeno dice che il mercato dell'oro, e ora anche quello dell'argento, quest'ultimo dopo alterne vicende, sono segnali d'allarme, indicazioni che il sistema monetario non funziona, così come è strutturato. Personalmente, però, sono convinto che l'oro non ha alcun potere monetario. Mi spiego. Prendiamo il mercato dei semi di sola. E un mercato di produzione e di consumo, nel quale il margine della speculazione è definito dalla previsione di un divario fra i livelli della domanda e dell'offerta. I prezzi, insomma, possono oscillare, e anche in misura sensibile, ma sempre intorno al prezzo reale della merce, verso il quale tendono in ogni caso. Per l'oro, invece, il discorso èdiverso. Gli impieghi industriali di questo metallo, ossia il consumo, sono assolutamente secondari. Non esiste, quindi, un prezzo di parità al quale si possa fare riferimento. Per cui il mercato - che è estremamente ristretto - è in balia della speculazione. Ricordiamoci che De Gaulle e la sua convinzione che l'oro potesse tornare alla base del sistema monetario internazionale sono morti e sepolti, da un pezzo".
Joan Robinson, unica donna nell'olimpo degli economisti, professore emerito di economia a Cambridge, è considerata l'erede naturale di Keynes, anche se nei confronti del maestro ha sviluppato una critica serrata, nel tentativo di far coincidere keynesismo e marxismo. Ecco quanto ci ha detto: "Keynes credeva nella possibilità di un capitalismo riformato, con la piena occupazione e senza più povertà. Era convinto che una più equa distribuzione del reddito avrebbe portato i consumi a un livello tale da garantire quasi li pieno impiego, senza bisogno di troppi investimenti. Il che è certamente vero per le popolazioni del Terzo e forse anche per quelle del Quarto Mondo, che se avessero di che mangiare a sufficienza, acquisterebbero più prodotti dell'industria locale. Nei Paesi sviluppati, per contro, se la pubblicità smettesse di creare falsi bisogni, la gente finirebbe per preferire allo shopping la cultura e il tempo libero. Ma per raggiungere obiettivi così ambiziosi, Keynes pensava bastasse spiegare ai cittadini come comportarsi in modo razionale, e questi avrebbero agito di conseguenza. Galbraith commette più o meno lo stesso errore, quando sostiene che una pubblica opinione qualificata può convincere i grandi gruppi industriali a seguire politiche più illuminate. Mentre invece avviene il contrario: sono i detentori del potere economico a influenzare il pubblico e a sostenere quei governi che non mettono in pericolo i I loro potere. Ci vuoi altro per cambiare veramente le cose, è necessaria una grande svolta politica, che non può certo essere indolore. Questo Keynes non l'aveva capito. Kalecki, che pure sul piano teorico era giunto alle stesse conclusioni, non era ottimista come lui. Ma Kalecki aveva un retroterra marxista. Legittima obiezione: Marx prevedeva la fine del capitalismo, escludeva quindi la possibilità di riformarlo. Bene: fra Marx e Keynes non c'è incompatibilità. Si potrebbe anzi dire che il primo ha gettato le fondamenta, il secondo ha curato le rifiniture. Comunque é chiaro che anche il pensiero di Marx va rivisto. Ha più di cento anni, e nel frattempo tante cose sono cambiate. Per esempio, Marx non aveva previsto l'enorme forza d'urto del nazionalismo che si sarebbe scatenata negli anni '30. Aveva previsto la caduta dei saggi di profitto, e questa c'è stata. Ma aveva anche pronosticato la diminuzione dei salari, e invece questi sono cresciuti realmente nella maggior parte dei Paesi industrializzati. Il sistema si è evoluto in direzioni diverse da quelle che Marx si aspettava. ]n sostanza, la versione complessiva che egli ci ha dato di come il capitalismo opera è giusta: ma molti dettagli sono sbagliati. Ed è su questi che Keynes ha lavorato. Ecco perché il capitalismo ha un futuro, anche se molto travagliato. D'altro canto, le economie di tipo sovietico hanno i loro problemi, anche gravissimi. I grandi miti della sinistra europea stanno cadendo ad uno ad uno. Non è più possibile essere socialisti nel modo idealistico in cui lo si era un tempo. Ma io credo che, al di là di tutto, il rischio peggiore che abbiamo di fronte è questa sfrenata corsa agli armamenti, che minaccia di portarci alla guerra nucleare. E' un pericolo spaventoso. La più grossa tempesta monetaria, al confronto, è una cosa da nulla".
Caposcuola dei "ragazzi di Chicago", economisti liberisti che rifiutano la teoria keynesiana e ritengono necessario ridare alla libera iniziativa e al mercato il controllo dell'economia, il premio Nobel Milton Friedman insegna all'Università Stanford, in California. Gli abbiamo chiesto quale rimedio consiglierebbe per l'economia mondiale se ci si dovesse trovare di fronte a un'altra depressione come quella del '29. "Non credo che, nelle condizioni attuali e prevedibili per il futuro, si possa ragionevolmente profetizzare un'altra grande depressione come quella del 1929-33. La caratteristica principale di quell'evento storico fu, particolarmente negli Stati Uniti, la deflazione monetaria. Oggi, il problema dominante è quello opposto, l'inflazione. Dalla grande depressione ad oggi, sono intervenuti mutamenti fondamentali nelle istituzioni e nei modi di pensare. E non solo negli Stati Uniti. I mutamenti nelle strutture degli Istituti di Credito e del sistema bancario, e nel sistema fiscale, hanno modificato sostanzialmente le reazioni cicliche dell'economia occidentale. E i cambiamenti avuti nell'atteggiamento del pubblico nei confronti dell'inflazione e della deflazione hanno modificato completamente le reazioni a livello politico ai mutamenti economici. A mio parere, gli effetti complessivi di queste alterazioni delle istituzioni e dei modi di pensare fanno sì che una depressione di notevole gravità, ossia paragonabile a quella cominciata nel 1929, sia oggi inconcepibile.
La depressione che iniziò verso la metà di quell'anno fu una catastrofe di dimensioni senza precedenti per gli Stati Uniti, e poi anche per il resto del mondo. Nel 1933, il reddito monetario della nazione americana era dimezzato, il prodotto totale si era ridotto di un terzo e un lavoratore potenziale su quattro era disoccupato. Ma fu anche una immane catastrofe per il mondo. Il diffondersi della depressione ad altri Paesi causò diminuzione della produzione, lievitazioni della disoccupazione, fame e miseria dappertutto. In Germania, la depressione contribuì all'ascesa al potere di Hitler, preparando così lo scoppio della seconda guerra mondiale. In Giappone, rafforzò il già notevole potere dei circoli militaristici che sognavano di creare la "sfera di co-prosperità della grande Asia Orientale". In Cina, le conseguenza della depressione distrussero il sistema monetario, indebolirono il governo nazionalista impegnato nella lotta contro i giapponesi e, successivamente, contro i comunisti, e crearono le premesse dell'iperinflazione che segnò il destino di Chang Kaishek e l'avvento al potere di Mao Tse-tung.
Le conseguenze della grande depressione furono, quindi, di ordine politico, ma anche filosofico e sociale. Ad esempio, il crollo convinse moltissimi cittadini, negli USA e altrove, che Carlo Marx aveva ragione nel condannare il capitalismo, giudicandolo un sistema fondamentalmente instabile e suscettibile di provocare crisi anche più gravi. Convertì il pubblico all'opinione, che in precedenza aveva avuto corso crescente fra gli intellettuali, che il governo dovesse svolgere un ruolo più attivo nell'economia, che dovesse intervenire attivamente per controbilanciare l'instabilità provocata dall'iniziativa privata e che dovesse, insomma, diventare un elemento equilibratore, promuovendo la stabilità e garantendo la sicurezza economica dei cittadini. Questo mutamento nella percezione che il pubblico aveva del ruolo del mercato, da una parte, e dei governi, dall'altra, fu un importante catalizzatore della rapida crescita degli apparati governativi, e in particolare di quelli centralizzati, negli ultimi cinquant'anni.
La depressione provocò anche un drastico giro di boa nel pensiero economico. Distrusse, infatti, la convinzione della maggior parte degli economisti, che si era rafforzata negli anni '20, che la politica monetaria fosse un potente strumento di promozione della stabilità economica. Quello che avvenne fra il 1929 e il 1933 convinse molti della erroneità di questo convincimento e spinse alcuni all'estremo opposto, e cioé all'affermazione che "la moneta non conta". Per riempire il vuoto lasciato dall'apparente collasso della teoria prevalente fino ad allora, il più brillante economista di questo secolo, Keynes, offrì la teoria alternativa, lanciando la rivoluzione keynesiana, che non solo conquistò gran parte degli economisti, ma fornì una diagnosi e una terapia che giustificavano massicci interventi governativi nell'economia.
Quella grande depressione non fu la conseguenza del fallimento dell'iniziativa privata, ma dei pubblici poteri. E il fallimento si ebbe in una sfera, quella della "coniazione della moneta, della sua regolamentazione e della sua valutazione in moneta straniera", la cui responsabilità era stata affidata ai pubblici poteri molto tempo prima. Il Federal Reserve System, che all'epoca era la massima autorità monetaria americana, impose all'economia un onere schiacciante. H suo comportamento determinò o facilitò il declino della quantità di moneta, nella misura di un terzo, fra il '29 e il '33. Creato nel 1913 a seguito di una crisi precedente, quella del 1907, proprio allo scopo di impedire il ripetersi di eventi del genere, stette a guardare senza far nulla, mentre un terzo delle banche commerciali americane andava in fallimento. Il Federal Reserve Board non seppe far nulla per fermare un'ondata di panico finanziario molto più vasta e disastrosa di quelle che l'avevano preceduta nella storia, e finì per soccombere alla propria inettitudine, chiudendo i battenti per un'intera settimana, durante la cosiddetta "vacanza bancaria" del 1933. Dal punto di vista scientifico, sappiamo oggi che la depressione, lungi dal dimostrare che "la moneta non conta", offrì invece una tragica testimonianza dell'importanza della moneta. Ovviamente, molti altri fattori, oltre alla politica monetaria, influirono sul corso della depressione, e contribuirono a spiegarne la gravità e la durata. Ma è letteralmente inconcepibile che la depressione possa essere durata tanto a lungo o abbia raggiunto la gravità che raggiunse, se la Banca Centrale avesse agito tempestivamente per evitare il declino della quantità di moneta. Oggi un fatto del genere non può verificarsi più, a meno che non prevalga la cecità più assoluta".
Il canadese John K. Galbraith è lo storico ufficiale del grande crollo del '29. Questo il quadro che ne fa: "Ci sono giorni, che vengono riconosciuti dalla storia, dopo i quali cambia tutto. li 7 dicembre 1941 fu uno di questi giorni. E probabilmente lo fu anche l'11 novembre 1918, quando, in tutto il mondo, gli uomini si resero conto con grande sorpresa che il massacro della prima guerra mondiale era veramente finito. Un caso analogo è quello del giorni dell'agosto 1945, quando caddero le bombe e cominciò l'era nucleare. Ma ci volle tempo prima che l'importanza di quell'evento venisse realizzata e di conseguenza nessuno ricorda le date precise.
In questo contesto, il 24 ottobre 1929 ha un suo posto importante nella storia. Questa data, il giorno del grande crak di Wall Street, rimane nella memoria della società anche dopo! che sono passati più di cinquant'anni, e per buoni motivi. Dopo quel giorno, la vita, per milioni di persone non fu più la stessa.
Prima di quel "giovedì nero" d'ottobre, quegli americani intelligenti e di buone maniere le cui opinioni si ritenevano riflettessero l'opinione del pubblico erano, secondo il consenso generale, una razza ottimista, fiduciosa anche nella competenza e nell'onestà degli uomini che gestivano i grandi affari finanziari e industriali. Questi americani avevano pochi dubbi circa l'efficacia generale e l'affidabilità del sistemo economico in cui operavano. Molti vedevano, nella loro crescente ricchezza, la prova che questo sistema premiava i migliori. Ma questi americani non saranno mai più così liberi dal dubbio dopo gli eventi dell'ottobre '29.
Per milioni di operai, contadini, mezzadri e piccoli commercianti la devastazione di quei giorni d'ottobre fu un'eco distante. Non potevano supporre che le loro vite sarebbero state influenzate da quello che succedeva a Wall Street. Si sbagliavano, e di molto. Nel giro di qualche mese, e per molti nel giro di settimane, gli eventi di New York si sarebbero tradotti in eliminazione di posti di lavoro, riduzioni dei prezzi, chiusure di banche e cancellazione di ipoteche. Le conseguenze dell'attacco di Pearl Harbour sulle vite degli americani furono più visibili e più eroiche. Nel complesso, però, non furono più dolorose. Per molti americani, la guerra significò la comparsa di posti di lavoro inaspettati, responsabilità, movimento e pochissimi pericoli. Non sono molti, invece, coloro che ricordano con piacere la depressione.
Il giorno del crak a New York fu un giorno interessante, così come interessanti furono quelli che lo seguirono, quando le cose peggiorarono. Ma, come sempre, lo storico deve essere cauto per non attribuire troppa importanza al momento culminante.
C'è sempre la tentazione di attribuire al grande dramma della data storica un'importanza che appartiene invece ai momenti antecedenti. L'attacco a Pearl Harbour non fu più importante della decisione giapponese di inviare le portaerei dalle quali sarebbe partito, o delle correnti politiche ed economiche, eventi fortuiti e disastri che porteranno al potere, in quelle isole così civili, uomini capaci di aberrazioni militari e politiche così macroscopiche. Il crack del '29 fu reso inevitabile dalla pazzesca speculazione che lo precedette. Quella deviazione dalle regole della ragione supera ovviamente in importanza gli eventi che si verificarono nel giorno famoso. E dietro il boom speculativo c'erano le forze - economiche, culturali, psicologiche e politiche - che rendevano suscettibili gli americani. Non si può utilmente analizzare il crack se l'analisi non si estende a quel che accadde prima.
Questa ricerca delle cause più profonde e più generali non esclude di per sè gli effetti sull'economia del collasso del mercato azionario. E' stato detto che già nei primi mesi del '29 l'economia, reagendo ai propri imperativi ciclici, aveva cominciato a indebolirsi. Il crack fu semplicemente la risposta a questa realtà più profonda. Era errato, addirittura antiscientifico, attribuire conseguenze più ampie a qualcosa così intrinsecamente superficiale come qualche giorno di panico a Wall Street. Contemporaneamente, i banchieri di Wall Street, i brokers e le ditte d'investimento non avevano certo interesse a sottolineare il ruolo che avevano avuto. Per quanto li concerne, non hanno nulla in contrario a che la colpa della successiva tragedia economica venga attribuita ad altri.
Spesso, quando cercano di essere profondi, gli economisti riescono soltanto a sbagliare. Non può esserci infatti alcun serio dubbio che il collasso del valore dei titoli, il collasso delle fortune di coloro che giocavano in borsa, l'immediato effetto sugli investimenti e sui consumi, e l'effetto soltanto leggermente più remoto sulle prospettive dell'attività economica e degli investimenti ebbero un'influenza traumatica sulla produzione, sul reddito e su I l'occupazione. Sui prezzi delle materie prime e su importanti categorie di consumi privati, in particolare quella del prodotti di lusso, l'effetto fu già visibile prima della fine dell'anno. Nella più ampia prospettiva storica, l'importanza del boom e del crack è stata più generalmente accettata.
Forse di questo dovremmo compiacerci. C'è una certa soddisfazione nel sapere che un evento che tanto concentrò l'attenzione del mondo finanziario non fu senza effetti economici più profondi. Banchieri, brokers e uomini il cui genio finanziario è variamente definito, amano essere considerati importanti, anche se -in questo caso - la loro importanza è dovuta al fatto che persero il senno.
La storia non ha bisogno di essere difesa: la sua forza è la sua realtà. Ma ho pensato che fosse importante tenere viva la memoria di quello che successe nel 1929 e negli anni successivi. Perchè nè le regolamentazioni pubbliche, nè il migliore livello morale dei promotori societari, brokers, venditori di titoli, operatori del mercato, banchieri e gestori di fondi d'investimento possono evitare queste ricorrenti epidemie speculative e le loro conseguenze. La prevenzione è affidata alla memoria delle illusioni passate, e al risveglio da queste illusioni".
Al contrario di quanto sosteneva Keynes, secondo Rostow "il lungo andare ci accompagna per ogni giorno della nostra vita". Il secondo dopoguerra è ormai sufficientemente lungo per poter essere visto in prospettiva storica. Sentiamo, anche a livello di esperienza epidermica quotidiana, che moltissime cose sono cambiate nello spazio di una generazione. Ma non sempre siamo in grado di misurare i mutamenti assoluti e relativi avvenuti durante quest'arco di tempo. Un modo probabilmente tedioso ma forse non inutile di cominciare a ripercorrere all'indietro il cammino che ci ha portato al punto cui oggi siamo giunti, è quello di cercare di misurare la nostra ricchezza relativa e i suoi mutamenti.
Esercizi apparentemente semplici, come il confronto internazionale di misure, quali il reddito nazionale, implicano una serie di difficoltà logiche, sulle quali sarebbe troppo lungo soffermarsi. L'uso dei tassi di cambio di mercato tra le varie monete produce, ad esempio, una distorsione che è difficile valutare. Uno dei metodi alternativi di affrontare il problema consiste nell'immaginare un ipotetico consumatore medio del Paese più ricco (gli Stati Uniti) e di chiedersi quanti beni e servizi potrebbe acquistare se disponesse del reddito medio di un abitante del Paese che si vuole confrontare, qualora i prezzi relativi restassero quelli degli USA.
Anche in questo caso la misura è "distorta", (tipicamente, si tende a sopravalutare il reddito del Paesi più poveri), ma, almeno, la distorsione è controllabile e conosciuta. Un gruppo di ricercatori guidato da Kravis compie da anni esercizi di misurazione con tale metodo per conto dell'ufficio statistico delle Nazioni Unite. Assumendo che questo sia il modo accettabile per confrontare il reddito pro-capite di vari Paesi, vediamo come sono mutate, tra il 1950 e il 1977, le posizioni relative rispetto a questa importante variabile che indica sostanzialmente il livello dello sviluppo economico.
In questo arco di tempo, il reddito per abitante degli USA è cresciuto del 2,1% l'anno, (tutti i dati che forniamo sono espressi in termini reali, come dicono gli economisti: tendono, cioè, a misurare le quantità, indipendentemente da variazioni di prezzi). Una crescita del genere implica quasi un raddoppio del benessere dell'americano medio durante i 27 anni considerati, (supposto, ovviamente, che il benessere dipenda solo dai beni e servizi di cui si dispone, cosa di cui si può certo discutere all'infinito e senza trovare una risposta). L'Europa Occidentale (inclusa l'area mediterranea) aveva nel '50 e nel '77, un reddito per abitante corrispondente, rispettivamente, al 40 e al 59% di quello americano. Va detto, tuttavia, che la "rincorsa" dei Vecchio Continente rispetto ai più ricchi cugini d'oltre Atlantico si è verificata quasi tutta tra il '50 e il '70, con una crescita media annua del 3,9%. Nei seguenti anni di crisi, invece, lo sviluppo europeo - calcolato sempre partendo dai dati Kravis - non si discosta significativamente da quello americano. L'Europa rallenta, mentre gli Stati Uniti mantengono su per giù il loro tasso di crescita secolare. Uno sviluppo di lungo periodo attorno al 2% annuo costituisce non solo una "performance" tutt'altro che trascurabile in prospettiva storica (in tal modo i nostri figli sarebbero due volte più ricchi di noi), ma probabilmente il massimo che possiamo attenderci, se tutto va bene, per i prossimi anni. La brillante eccezione è costituita dal ventennio 1950-70. Parallelamente alla "rincorsa" operata dagli europei nel loro complesso, si sono verificati alcuni mutamenti nelle posizioni relative di alcuni Paesi dei continente. Vediamo i più rilevanti.
Il Regno Unito, fucina della prima industrializzazione, figurava nel 1950 al secondo posto in Europa, con un reddito per abitante pari al 60% di quello statunitense; nel '60 era passato al quarto posto (65%), nel '70 al nono (64%) e nel '77 al decimo (61%). Dunque, tra il '60 e il '77 lo sviluppo delle Isole Britanniche è stato più lento di quello americano.
Sul lato opposto si collocano i casi della Germania Federale e della Francia. La prima occupava nel '50 il nono posto (con un reddito per abitante pari al 41% di quello USA), ma già dieci anni dopo seguiva la Svezia come Paese più ricco d'Europa. Nel '77, la Germania, che durante gli anni di "crisi" mostra una delle migliori capacità mondiali di adattamento, finisce con l'avere il reddito per abitante più elevato del continente (81% di quello USA). La "rincorsa" della Francia inizia più tardi, ma produce esiti altrettanto brillanti e forse più sorprendenti, essendo, nel '77 e sempre secondo i dati Kravis, il secondo Paese europeo dal punto di vista del reddito per abitante.
La lega del Paesi più poveri resta composta, lungo tutto il periodo considerato, da Spagna, Grecia, Portogallo e Turchia. L'Irlanda segue la Gran Bretagna nel declino relativo e raggiunge nel '77 i meno ricchi, con un reddito pro-capite pari a quello della Spagna. Ottima, invece, in questo gruppo, la rimonta della Grecia che passa, tra il '50 e il '77, dal 19 al 43% dei reddito americano: ma qui, forse, il gioco del prezzi relativi ha un pò truccato i dadi.
E l'Italia? In prospettiva di lungo periodo c'è forse motivo per ridimensionare alquanto il "miracolo" di buona memoria. La posizione relativa del nostro Paese nella classifica economica europea resta, in questi anni e secondo questi calcoli, piuttosto stabile, malgrado il fatto che il suo reddito per abitante passi dal 28 al 47% di quello statunitense. Negli anni '50 l'Italia si sviluppa a un tasso sensibilmente superiore a quello del gruppo del più- poveri. Ma dopo l'inizio del decennio successivo, Spagna e Grecia compiono una "rincorsa" sostenuta, mentre la crescita italiana subisce un relativo rallentamento, cosicchè, nel '77, i tre Paesi mediterranei non presentano il divario nel livello di sviluppo che esisteva nel '60. Tra il '70 e il '77, secondo questi conti, il reddito italiano medio è diminuito relativamente, seppure di poco, rispetto a quello americano.
Nel complesso, a parte il declino relativo del Regno Unito e l'emergere della Germania Federale negli anni '50 e della Francia nel decennio successivo, la posizione dei vari Paesi nella "classifica" del benessere medio del loro abitanti èrimasta abbastanza invariata sia durante il ventennio della "rincorsa" dell'intero continente rispetto al Nordamerica, sia nei successivi anni di sostanziale allineamento del tassi di crescita delle due aree.

In prospettiva di lungo periodo, dunque, gli effetti del "boom" economici vanno forse un poco ridimensionati, (con l'eccezione probabile dei caso giapponese, che ha visto un reddito pro-capite passato dal 18 al 67% di quello statunitense durante il periodo che abbiamo considerato). Il lungo andare è ancora più lungo dello spazio di un'intera generazione. I risultati ottenuti in duecento anni di "sviluppo economico moderno" non si sovvertono facilmente nel giro di venti o trent'anni. Lo stesso Regno Unito, che secondo l'opinione di molti studiosi è in relativo declino da oltre un secolo, ha ancora un reddito per abitante superiore di un terzo rispetto a quello dell'Italia "del miracolo".
Passiamo al caso Italia. Quattro cartelle zeppe di cifre, proiezioni, analisi elaborate dal Ministero del Lavoro, portano a una conclusione: nel 1983 l'Italia sfiorerà i tre milioni di disoccupati, un record senza precedenti, una soglia mai toccata, neppure negli anni più difficili del dopoguerra. Negli ultimi mesi dell'82, gli iscritti alle liste di collocamento erano poco più di due milioni e 300 mila, e i cassintegrati circa 350 mila. Tra l'autunno e l'inverno, con la crescita zero prevista dagli esperti, sono andati in fumo altri 300 mila posti di lavoro. I guai sono incominciati con l'autunno. Da settembre, infatti, anche l'ultimo pilastro dell'industria italiana ha fatto sentire sinistri cedimenti: fallimenti, licenziamenti, cassa integrazione hanno investito le piccole e medie imprese. E' andato in crisi quel tessuto industriale sul quale, negli anni scorsi, politici ed economisti si erano esercitati, assicurando che le fortune del Paese, più che dalla grande industria, dipendevano dall'originale e creativa attività delle piccole e medie aziende. Piccolo è bello, si diceva. E oggi, a Nord e a Sud, anche i piccoli e i medi non sanno più a che santo votarsi.
Che l'occupazione nell'industria fosse in pericolo, si sapeva da tempo. Dall'autunno '80, da quando il mondo produttivo è entrato in recessione, le grandi italiane hanno tentato in tutti i modi di espellere manodopera. Ma alla fine, i conti in un modo o nell'altro sono sempre tornati, perchè tenevano le piccole e medie aziende, che da sole danno lavoro al 75% degli addetti all'industria Poi, questo precario equilibrio si è spezzato. I meccanismi di compensazione non hanno funzionato più.
Tutto è incominciato con la crisi dell'auto. L'esplosione della cassa integrazione alla Fiat e all'Alfa Romeo ha progressivamente messo in ginocchio le piccole e medie imprese collegate. Nell'estate 1981 in Piemonte le imprese in cassa integrazione erano 167, oggi sono circa 450. In Lombardia, in un anno, il numero delle imprese che hanno fatto ricorso alla cassa integrazione è triplicato. Di esse, una buona metà hanno meno di 100 dipendenti e il 42% non supera i 500 addetti.
Subito dopo l'automobile è stato il turno delle grandi imprese di elettrodomestici. Aziende come Indesit, Emerson, Voxson si sono trovate sull'orlo del baratro e hanno evitato la chiusura solo perchè hanno sospeso a zero ore quasi tutti i lavoratori. Anche in questo caso, i contraccolpi per le piccole imprese subfornitrici sono stati pesanti. Soprattutto in Brianza, nell'area torinese e a Caserta, una delle poche provincie della Campania a non avere avuto finora grossi problemi.
Poi è toccato alla siderurgia. Cassa integrazione di massa all'Italsider, sospensione e licenziamenti alla Falck, crisi alla Breda e agli altri impianti del gruppo Finsider, con effetti a cascata sull'intero settore. Persino i "tondinari" di Brescia, usciti sempre indenni dalle periodiche crisi di mercato, hanno problemi di non poco conto, dagli stabilimenti del "re del tondino", Lucchini, alla più piccola ferriera. Medie imprese tradizionalmente solide come la Caleotto di Lecco (300 addetti), o la Pietra di Brescia (1.200 dipendenti), rischiano di chiudere i battenti. A Sud, in cassa integrazione i seimila di Bagnoli: e sono restati senza lavoro i 14 mila lavoratori dell'indotto. Lo stesso discorso vale per l'Italsider di Piombino, dove il dilagare della cassa integrazione ha messo in crisi i tremila lavoratori delle imprese che ruotano intorno all'acciaieria.
L'onda lunga della recessione ha investito anche le ultime isole felici, le piccole e medie imprese autonome. Quelle, cioè, che, avendo un mercato e un prodotto proprio, non dipendono dalle commesse della grande industria. I primi segnali negativi erano venuti all'inizio dei 1982. Il protrarsi della stretta creditizia, la caduta del salari per effetto della cassa integrazione e lo stillicidio del licenziamenti avevano provocato una drastica contrazione del consumi interni. Ma inizialmente i piccoli imprenditori autonomi erano riusciti a limitare i danni, forzando le esportazioni, tanto che nei primi sei mesi dell'82 le vendite all'estero erano aumentate del 30%. La batosta è arrivata a settembre, anche nelle aree più forti della piccola e media impresa, come Veneto, Emilia, Toscana, Marche.
Il più colpito è il settore meccanico, dalla Riello alla Galileo, alla Benelli di Calenzano, alla Piaggio. Sono le cifre a dirlo: su 321 milioni di ore complessive di cassa integrazione pagate dall'Inps nel 1982 in tutta Italia, il 55% riguarda proprio l'industria meccanica. Clamoroso anche il crollo del settore del legno e del mobilio, mentre tira ancora, ma a costo di preoccupanti licenziamenti, quello tessile e dell'abbigliamento. Per i licenziamenti in questo campo, imputate le job killers, le macchine che uccidono posti di lavoro, come le chiamano i sindacalisti inglesi. Innovazioni tecnologiche che l'industria italiana è decisa a introdurre a tappe forzate, per non regredire al livello dei Terzo Mondo. Ma nel brevissimo periodo, il nuovo assetto produttivo quasi certamente renderà molto difficile il riassorbimento della cassa integrazione.


Le cifre del disastro italiano sono impietose. Il disavanzo pubblico per l'82 è stato calcolato in 75 mila miliardi di lire, ma alcuni esperti dicono che ha realmente superato i 100 mila miliardi. L'indebitamento pubblico interno ha raggiunto i 350 mila miliardi e ogni anno, di soli interessi su questo debito, lo Stato paga dai 40 ai 45 mila miliardi, raccolti generalmente attraverso l'emissione di Bot. L'indebitamento esterno è di 50 miliardi di dollari, pari a circa 75 mila miliardi di lire. La bilancia dei pagamenti correnti sfiora i 9 mila miliardi di deficit, il disavanzo commerciale ha superato i 15 mila miliardi. L'inflazione ha ripreso a marciare a una velocità che ha toccato punte del 24%. Così, la nostra moneta non regge alla spinta ascensionale dei dollaro e perde terreno anche nei confronti del marco tedesco e dei franco svizzero. Per sostenerla, la Banca d'Italia spesso si svena.
L'"Azienda Italia" si avvia al fallimento? Il nostro sistema economico è irrecuperabile o è ancora possibile salvarlo? Qualche mese fa, Guido Carli, ex governatore dell'Istituto di emissione ed ex presidente della Confindustria, ha parlato di "terapia d'urto" per questa azienda malata. Ma dice Antonio Pedone, docente di Scienza delle Finanze a Roma, consigliere dei Cnel e consulente scientifico, con Spaventa, del Centro europeo ricerche: "Certo che la terapia d'urto per un malato grave come l'Italia in questo momento può essere una cura efficace. Ma bisogna stare attenti a non smarrire le ragioni per cui viene imposta. Essa ha come obiettivo l'inversione delle aspettative inflazionistiche. Per raggiungere tale obiettivo occorre una terapia credibile, nel senso che la medicina deve avere effetto per un certo periodo di tempo. Non è credibile una terapia che duri, per esempio, quattro giorni, dopo i quali si ritorna all'allegra finanza pubblica. Questa cura drastica deve quindi avere due requisiti: essere massiccia ed essere credibile. Il terzo requisito è quello -della sua diffusione, e non solo per rispondere a un criterio di equità". Si riparla di "terapia classica", quella usata in molti Paesi tra la prima e la seconda guerra mondiale. In che cosa consiste? Nel controllo dei prezzi, nell'imposizione di imposte patrimoniali, nel consolidamento del debito pubblico, nella tassazione delle rendite finanziarie, nella stretta monetaria e nel controllo dei salari, fino alla riduzione dello stesso salario, come avvenne nel nostro Paese nel periodo fra le due guerre: azioni da avviare di volta in volta per una terapia "reale" e "profonda", e non epidermica. Comunque, per una terapia che non duri un'eternità. Il peggio, dunque, deve ancora venire.


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