§ L'ECONOMIA

CONTRO LA CATASTROFE




Aldo Bello



Non si è mai parlato tanto di economia. Non si è mai scritto tanto. E sarà la pressione delle cose, la cui gravità spinge a riflessioni preoccupate; o la caduta del totem, forse anche inespressi, che però subordinavano sempre l'economia all'ideologia; o qualcos'altro ancora, timore per la posta in gioco, paura per la perdita di democrazia: ma è un fatto che, negli ultimi tempi, si verifica una sorprendente convergenza tra gli economisti. Per la prima volta essi sembrano del tutto d'accordo nell'analisi della situazione e abbastanza d'accordo sui rimedi per curare la crisi. Le divaricazioni profonde, le divergenze stridenti, le polemiche e gli scontri che li dividevano, sembrano molto attenuati, e le appartenenze politiche non hanno più peso e lo spessore del recente passato nelle loro prese di posizione. Si direbbe che la scienza economica italiana stia raggiungendo un assetto unitario, e che la famiglia degli economisti incominci ad assomigliare di più, ad esempio, a quella del matematici o dei fisici, e di meno a quella dei filosofi e dei sociologi: la prima essendo fatta di persone che sostanzialmente parlano la stessa lingua, la seconda di persone che si caratterizzano da sempre per una effervescente e divergentissima pluralità di opinioni.
Forse è presto per dirlo, ma pare di scorgere nelle valutazioni degli economisti, proprio nel momento in cui tutto si presta a giudizi politici e dunque tutto è "più politico" di ieri, una tendenza a privilegiare i dati scientifici e tutto ciò che c'è di "oggettivo" nell'economia. E' quasi un rovesciamento di fronte, ove si pensi che solo fino a poco fa gli economisti continuavano a parlare da "servi del principe", cioé da politici nel senso pieno della parola. Se questa sensazione è fondata, è giusto rallegrarsene, perché vuoi dire è in corso una chiarificazione dei ruoli che dovrebbe finalmente consentire al "politico puro" di avvalersi, per le decisioni che è chiamato a prendere, dell'apporto scientifico, dunque rigoroso e corretto, degli economisti, come di altri esperti; e all'"economista professionale" di dedicarsi alle analisi oggettive dello stato dell'economia, senza dover continuare a giustificare formalmente i sistemi economici imposti da esigenze di partito. La garanzia di chiarezza dei ruoli, dei compiti e delle responsabilità non può che far bene alla democrazia.
La nostra struttura produttiva è molto meno fragile di quanto si dice, anche se abbiamo accumulato vistosi ritardi in alcuni settori-chiave. La capacità di fare industria, di investire, di produrre, non è più ristretta a poche famiglie, è diventata un fenomeno diffuso in ampi strati della popolazione e del Paese. La cultura media della gente si è enormemente elevata e si è fatta più uniforme. La qualità delle nostre maestranze rimane di prim'ordine. Siamo, bene o male, e pur con tutte le lacerazioni che ci affliggono, una delle poche democrazie del mondo.
Se cerchiamo di riflettere e di far riflettere sugli aspetti positivi di ciò che, in almeno vent'anni, abbiamo realizzato, mostrandoci secondo la regola francescana, "garbatamente allegri", non è perché sottovalutiamo le piaghe che ci offendono, ma perché solo se saremo coscienti di quel che abbiamo e di quel che è in gioco, sapremo esercitare la necessaria fermezza. E' stato scritto che abbiamo bisogno di serenità. Abbiamo bisogno anche di fermezza e di coerenza. In questi anni ci stiamo giocando, né più né meno, la tenuta industriale del Paese. I problemi che abbiamo di fronte derivano da fattori internazionali e di evoluzione del ciclo tecnologico. Sono problemi difficili da influenzare. Ma molti altri derivano da una fulminea resa di fronte a politiche contraddittorie, frutto di filosofie negative. Nel 1962 l'allora vice-presidente di un grande ente pubblico, che macinava migliaia di miliardi con un profitto risibile, a un esterrefatto economista americano che gliene chiedeva la ragione, rispose: "Lei deve sapere che, appena noi intravediamo il pericolo del profitto, corriamo ai ripari". Questo episodio (autentico) la dice molto lunga sulle origini dell'assistenzialismo italiano e sulle filosofie negative che l'hanno prodotto.
Mettendo fuori causa il profitto, si condannano la ricerca e il dovere dell'efficienza, e quindi l'impresa, che è un istituto inscindibile dalla ricerca e dal dovere dell'efficienza. Si spegne lo spirito vitale dell'imprenditorialità, che ci ha dato le grandi spinte innovatrici, dopo che siamo entrati in ritardo nella civiltà della macchina a vapore e in quella della catene automatiche di produzione. Chi ha girato un pò il mondo, camminando a lungo a piedi, fra la gente; chi ha attraversato gli altopiani sudamericani, le pianure cinesi e indocinesi; chi ha visto certi villaggi indiani, certe città africane, certe distese mediorientali; chi ricorda la vita nelle nostre campagne di solo trenta-quarant'anni fa; chi non ha dimenticato che ottant'anni addietro l'orario di lavoro era di 4.000 ore all'anno e che le epidemie sterminavano centinaia di migliaia di persone; chi ricorda che, in certe zone del nostro Sud, bastava una breve tempesta di grandine per sconvolgere per due o tre anni l'economia locale; chi si è soffermato sulle statistiche economico-sociali degli inizi del secolo o sulle fotografie ingiallite della prima industrializzazione, non può avere dubbi: siamo dei privilegiati. Lo siamo oggettivamente, anche se i fattori di privilegio altro non sono che il frutto sedimentato della fatica intelligente di generazioni, anche se le differenze fra chi è troppo privilegiato e chi lo è meno, o è addirittura emarginato, sono inaccettabili.
Le filosofie negative che sono alla base della caduta di larga parte del tessuto industriale italiano e della sua collettivizzazione in chiave burocratica e assistenziale sono state rifilate come teorie sociali riconducibili a manifestazioni del solidarismo cristiano. In realtà, sembrano essere degenerazioni di quel solidarismo. Tra chi si appropria il capitale per puri fini di possesso e di potere, e chi assolve, con determinazione, il compito sociale di far fruttare i talenti che gli sono, o sono stati, affidati, deve esistere una netta differenza. La verità è che negli ultimi vent'anni i più vistosi fenomeni di appropriazione del capitale sono stati realizzati nel nostro Paese non attraverso il profitto, ma attraverso le perdite, scaricate poi sui bilanci pubblici o sul pubblico risparmio. L'economista cattolico Paladino, esecutore testamentario di Don Sturzo e profondo conoscitore delle origini del capitalismo, ci traduce con queste parole il punto centrale del pensiero di Antonino, arcivescovo fiorentino, che nel secolo XV seguiva con lucidità la nascita del capitalismo: "presto verrà il tempo in cui il risparmio (e quindi il capitale in cui si trasforma con i diversi investimenti) avrà una parte di fondamentale importanza per il futuro del mondo, accelerando il ritmo della crescita economica. Se ad alimentare il risparmio saranno le virtù degli uomini (operosità, probità, onestà e previdenza) la crescita sarà rapida e armoniosa, i suoi frutti moralmente buoni e abbondanti, e soprattutto distribuiti con giustizia. Invece, se ad alimentare l'accumulazione del capitale saranno i vizi degli uomini, la crescita vi sarà ugualmente, ma i frutti non saranno sempre copiosi, né, soprattutto, moralmente buoni, anche perché ingiustamente distribuiti".
E' di straordinaria attualità questa sintesi tra visione degli aspetti positivi del capitale quale strumento per affrancare l'uomo dall'economia di sopravvivenza verso un'economia di sviluppo (che è l'essenza del processo capitalistico) e i suoi pericoli, e la necessità di sottoporlo a una regola morale e politica perchè proprio il capitale sia, nel suo insieme, al servizio dell'uomo. E quanto mai moderna è la visione della professionalità imprenditoriale, cioè di quella professional ownership che è "possesso strumentale per promuovere e servire lo sviluppo". Con una palese analogia tra questo significato del lavoro e del capitale, e quello che Einaudi attribuiva all'attività creativa dell'uomo: "Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E' la vocazione naturale che li spinge: non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l'orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente del guadagno".
Chiarito questo, passiamo ai risvolti. Le nostre vicende di politica economica sembrano suggerire un giallo di vecchio tipo. Le colpe, gli inganni, le ciniche astuzie, erano evidenti sin dall'inizio; le prove, schiaccianti. Eppure, solo da poco ci siamo accorti di quanto colossale sia stato il crimine perpetrato. Un Ministro del Tesoro ha parlato, in un'intervista, di "furto di dimensioni gigantesche". Bottino: "Centinaia di migliaia di miliardi". E ora che l'inflazione assesta altri, tremendi colpi alla sua vittima, voragini paurose lasciano allo scoperto le nostre illusioni di ricchezza. Il liquido corrosivo sparso nel Paese dall'aumento del costo della vita ha dissolto il valore reale del risparmio. Nel 1981 (ma nell'82 le cose - appena avremo i conti in chiaro - sono andate ancora peggio) l'inflazione ha sottratto qualcosa come 25 mila miliardi a quegli italiani che hanno scelto di tenere attività liquide, cioè denaro contante, titoli a breve dello Stato, polizze assicurative, obbligazioni. Chi incomincia a farsi i conti in tasca trova amare sorprese.
Prendiamo i Buoni del Tesoro. E' bastato che lo Stato tentasse di indebitarsi nuovamente a costo zero, offrendo cioè interessi non più superiori all'inflazione, perchè molti risparmiatori fossero pronti a decretare l'abiura di uno del più mitici simboli dell'Italia opulenta e "sommersa". Si è forse scoperto l'inganno? L'inflazione era divenuta per lo Stato uno strumento (comodo) di subdola tassazione del risparmio; di fatto, nessuno avrebbe potuto più sperare di ottenere un interesse reale positivo (o forse solo anche un rimborso) poichè tutto quel denaro investito in Bot e Cct non aveva alcuna produttività effettiva e dunque non poteva produrre reddito. Duecentomila miliardi di risparmio senza futuro, un immaginario schermo protettivo contro l'inflazione, quando ne basterebbe oggi un decimo per acquistare in Borsa l'intero sistema industriale e persino molto meno per riportare il capitale delle nostre imprese più importanti su livelli minimi sufficienti ad evitare lo sfascio progressivo dei conti economici.
Tant'è. L'inflazione ha compiuto in modo eccellente il suo raggiro. Chi, otto anni fa, aveva investito un milione di lire nei primi 20 titoli del listino azionario, si trova oggi sotto di quattro milioni; chi, invece, aveva preferito il settore del reddito fisso e i suoi privilegi fiscali, ha visto crescere quel milione di altre 970 mila lire. Ma è un guadagno solo statistico, in minima parte monetizzabile, poichè la quota predominante di questi titoli viene pagata alla scadenza semplicemente con l'emissione di altri titoli, visto che il maggiore debitore (lo Stato) non è in grado di rimborsare il capitale e forse nemmeno di versare gli interessi.
L'immagine dell'Italia che ha imparato, unico Paese al mondo, a farla in barba all'inflazione è comunque ben radicata. Forse non a torto. Il dieci per cento delle famiglie italiane, infatti, guadagna circa un quarto del reddito nazionale, ma possiede, chissà perchè, il 60 per cento della ricchezza patrimoniale del Paese.
I dati in mano al Ministro del Tesoro dicono che tutti i percettori di un reddito superiore ai 15 milioni annui finiscono prima o poi per acquistare attività reali (case, terreni, eccetera) in un continuo, vorticoso scambio di reddito da lavoro con assets patrimoniali. L'illusione di partecipare così a un processo di accumulazione collettiva nasconde però una realtà ben diversa: chi percepisce redditi da lavoro che crescono, se va bene, di un 10 per cento, si è impegnato finanziariamente nell'acquisto di beni che nel frattempo si erano rivalutati in certi casi anche del 100 per cento in soli dodici mesi.
Facciamo alcuni esempi. Tra il 1972 e il 1981 il numero di annualità di reddito necessarie per acquistare un alloggio nuovo di 100 metri quadrati è passato per i dirigenti da 2,1 a 3,3; per gli impiegati da 3,6 a 5,6; per i salariati dell'industria da 5,1 a 7,3. Nel 1978 quell'alloggio poteva essere acquistato a un importo pari al costo di tredici auto Fiat "127". Nel 1981, al costo di 21 auto dello stesso tipo. Chi disponeva quattro anni fa di soldi sufficienti per l'acquisto di 100 metri quadrati di terreno, oggi ne può comprare meno di 63. In questo tempo, infatti, mentre il costo della vita è cresciuto "solo" di due volte e mezzo, il prezzo di un metro quadrato alla periferia di una città (ma anche i paesi si sono adeguati al mercato) è salito di tre volte e mezzo, e quello di una casa nuova per le vacanze di oltre quattro volte.
Questa impressionante alterazione delle ragioni di scambio tra il lavoro e i beni reali ha gonfiato il valore monetario della ricchezza patrimoniale, ma ha aperto enormi sacche nascoste di totale improduttività del denaro, di speculazione, di indebitamento, di parassitismo finanziario: una spoliazione lenta e inesorabile che ci ha fatto, fra l'altro, perdere ogni cognizione della fondamentale ragione di scambio tra reddito di lavoro e prodotto del lavoro.
Tanta "ingenuità" sembra aver colto anche le nostre imprese, che hanno tenuto una contabilità del tutto slegata dai fattori economici. E' stato scritto: "Sul piano patrimoniale, nei bilanci delle aziende italiane si è contabilizzata una costante lievitazione delle poste monetarie (cioè, soprattutto dei debiti), mentre quelle non monetarie, ancorate ai valori storici, hanno perso d'importanza. Per quanto riguarda poi il conto economico, la determinazione dei ricavi e dei costi, come degli ammortamenti riferiti al valore degli immobilizzi a costi storici, è risultata del tutto irreale". Che è come dire: le imprese hanno ingigantito oltre il lecito il problema degli oneri finanziari (di cui alcuni fanno ipocritamente l'unica ragione della loro crisi) e hanno invece nascosto il fatto che erano semmai la gestione industriale, i margini di redditività, il ritorno sugli investimenti a portarle verso il baratro.
Un recente studio della Comit conferma, infatti, che le perdite, se i bilanci fossero stati fatti correttamente tenendo conto dell'inflazione, risulterebbero pressochè doppie rispetto a quelle riscontrabili dalla contabilità tradizionale. Allo stesso tempo, il ritorno sugli investimenti negli ultimi cinque anni risulterebbe di pochissimo superiore allo zero (0,4 per l'esattezza), gli ammortamenti (già molto modesti) apparirebbero inferiori del 46 per cento rispetto a quelli conteggiati, l'entità effettiva degli investimenti fatti al netto degli immobilizzi verrebbe drasticamente ridimensionata. Se oggi, dunque, la stragrande maggioranza delle imprese italiane non è più in grado di rimborsare la banche, ciò lo si deve alla loro pessima gestione industriale che non dà più margini sufficienti di autofinanziamento. Ma non c'è più un bilancio che riveli questa semplice verità.
Viviamo tutti così, aggrappati grottescamente a una "coperta di Linus" di ricchezze immaginarie e di sicurezze illusorie, mentre occorre trovare gli strumenti per un ritorno al profitto-investimento, dopo una severa austerità. Le imprese attendono ogni anno che nuovi éscamotages contabili (legge Pandolfi, Visentini bis) vangano in loro soccorso; gli italiani rapidamente arricchiti si consolano col valore nominale di ciò che posseggono, senza più preoccuparsi del fatto che il valore reale di ciò che producono continua a scendere e che quindi la loro capacità di spesa va indebolendosi. Gabbati, felici e assistiti. Se almeno una sia pur piccola parte di linfa, non dico calvinista, ma almeno più genericamente protestante scorresse nelle arterie della nostra cultura economica politica!

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