SE IL RISPARMIATORE ABBANDONA IL BOT




Libero Lenti



I governi passano, ma i problemi restano. Anzi, s'aggravano proprio perchè non si risolvono. Perciò è opportuno tornare sulle discussioni, non inconsuete, tra ministri della spesa e ministri dell'entrata. Stiamo ai fatti. I fatti dicono che il debito pubblico aumenta senza sosta. Una "valanga che sale", direbbe qualcuno, disattendendo le regole della dinamica. Anche questa non è una novità. Sempre la pubblica amministrazione ha fatto debiti, ma solo per effettuare investimenti, scaricandone il peso sulle generazioni future. Peso, tuttavia, sopportabile in primo luogo grazie al reddito prodotto da questi investimenti, ma anche per la perdita di potere d'acquisto della moneta. Tutto questo, quando si rimane entro i limiti d'una inflazione strisciante.
Il peso è meno sopportabile, invece, quando i debiti servono per finanziare spese correnti, come accade nel nostro sistema economico, ma non solo nel nostro, da qualche tempo a questa parte. Nel nostro, tuttavia, in misura assai superiore che altrove, il che spiega la necessità d'alleviare questo peso mediante saggi d'interesse che consentano una pur modestissima remunerazione "reale" del risparmio, calcolata come differenza tra saggi d'interesse e saggi d'inflazione.
Si deve sottolineare, anche se del tutto pleonastico, che fare debiti per finanziare spese correnti significa alimentare in definitiva l'inflazione. Difatti, seguendo questa via, non s'apprestano nuovi mezzi di produzione mediante investimenti, bensì si trasferiscono redditi a favore delle generazioni presenti, con evidente danno di quelle future, che dovranno pagarne le spese. Per questo non si riesce a capire, o lo si capisce fin troppo bene, per quale motivo ci si lamenti dell'aumento del debito pubblico, si deplorino gli alti saggi d'interesse, ma nel tempo stesso non si risalga un pò più a monte, come si dice adesso, per individuare le colpe di chi ha impostato una politica economica assistenziale che ha contribuito, e contribuisce, ad attizzare l'inflazione, e quindi a determinare alti saggi d'interessi. Ma lasciamo correre. Questa risalita a monte non si farà mai.
Non è facile determinare a quanto ammonta complessivamente il nostro debito pubblico, specie se si tiene conto, come si deve tener conto, di quelli contratti sul mercato interno e su quelli esteri, di quelli diretti della pubblica amministrazione ed indiretti delle aziende autonome e delle imprese a partecipazione statale, di quelli che risultano esplicitamente dai conti pubblici e di quelli nascosti nelle pieghe del bilanci. Anche una parte dei residui passivi, tanto per fare un esempio, è in definitiva debito dello Stato. Ma se anche si evita di tirare le somme, si ha la sensazione che l'ammontare complessivo del debito pubblico tenda rapidamente ad avvicinarsi a quello del prodotto interno lordo, che nell'82, in termini monetari, si è aggirato intorno ai 450 mila miliardi di lire.
Anche per questo, ma non solo per questo, viene spontaneo il confronto tra l'ammontare dei due aggregati: del debito pubblico e del prodotto interno lordo. Si tratta, però, d'un confronto di scarso significato. Intanto, l'ammontare del debito pubblico risponde ad un concetto "fondo". Risulta, cioè, da una sedimentazione dei debiti accertati in un determinato istante di tempo, e quindi espresso con un diverso potere d'acquisto invece, il prodotto interno lordo risponde ad un concetto "flusso". Risulta, cioè, da una formazione di valori aggiunti nel corso d'un determinato periodo di tempo, e quindi espresso in una moneta con un unico potere d'acquisto.
Significativo, invece, è il confronto tra l'ammontare del disavanzo complessivo, o anche solo di quello di parte corrente, e l'ammontare del prodotto interno al lordo o al netto degli ammortamenti. Questo confronto pone in evidenza una percentuale che da noi supera di gran lunga quelle accertate altrove. Mettiamo, il 15-16%, anzichè il 2-3%. Il che in parte spiega, per il momento, il differenziale tra la nostra inflazione e quella d'altri sistemi economici.
Il confronto, insomma, presenta uno specifico significato solo se si tien conto di quanto si produce e di quanto di "spreca" con il disavanzo di parte corrente del bilancio del settore pubblico, un disavanzo coperto sia con un incremento del debito pubblico, sia con un aumento di base monetaria. E questo, poichè il così detto "divorzio" tra la Banca d'Italia ed il Tesoro s'è risolto, per il momento, in un nuovo "matrimonio" di pura convenienza. La Banca d'Italia, stampando moneta, deve acquistare i Buoni del Tesoro che i risparmiatori si rifiutano d'accogliere nel loro portafoglio se non in base ad un saggio reale d'interesse positivo. Dico solo positivo. Non negativo, cioè, com'è stato per tanto tempo, il che ha consentito il saccheggio di tanta parte della ricchezza finanziaria dei risparmiatori.
Date queste condizioni, destinate purtroppo a permanere nel tempo, non si capisce, o meglio, torno a ripeterlo, lo si capisce fin troppo, il motivo per cui taluni avanzano la proposta di tassare con aliquote progressive, già contestate per via del drenaggio fiscale, gli interessi sul debito pubblico, quegl'interessi che taluni, con sprezzo (o ignoranza?) del linguaggio economico, definiscono "rendite" finanziarie. Sta a vedere che tra non molto anche quest'interessi finiranno col divenire rendite "parassitarie". Ciò significherebbe, fino ad un certo limite d'aliquota, la necessità d'aumentare i saggi d'interesse per compensare l'imposta. Ma, peggio ancora, oltre un certo limite d'aliquota, il rifiuto d'acquistare titoli pubblici, e questo soprattutto da parte dì coloro che presentano una maggior propensione al risparmio.
Sono considerazioni, queste, dettate dal semplice buon senso. Ogni disposizione riguardante il capitale e gli interessi del debito pubblico è condizionata dalla totale eliminazione del disavanzo di parte corrente, nonchè dalla riconduzione del saggio d'interesse a livelli compatibili con un normale funzionamento del sistema economico. Tutto il resto è vaniloquio, che rende ancor più difficile risolvere i problemi economici che Governo e Parlamento dovranno una buona volta affrontare.

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