QUANDO NEL 1926 CONGELARONO I BOT




Paolo Glisenti



"Il Paese accoglierà l'operazione di consolidamento del debito pubblico con senso di sollievo poichè i Buoni del Tesoro rappresentavano un pericolo immanente sulla circolazione monetaria e quindi sul valore della lira, vale a dire sulla situazione del patrimonio e sulle condizioni di vita di tutto il popolo italiano". Con queste parole, il 6 novembre del 1926, il Ministro delle Finanze del Regno, Conte Volpi di Misurata, spiegò la decisione presa dal governo Mussolini di rendere inconvertibili per dieci anni i Buoni del Tesoro mediante l'emissione di un nuovo prestito all'interesse del 5 per cento, esente da imposta. A cinquantasei anni di distanza ascolteremo un Ministro della Repubblica fare lo stesso annuncio?
Il motivo per cui si sono finora bollate come "del tutto irrealistiche" sia l'ipotesi del consolidamento, sia quella della tassazione del Bot è che il problema è stato discusso unicamente in termini personalistici, provocatori, politici e forse addirittura elettorali. Non c'è stato tempo e modo per riflettere se vi siano tecnicamente fattori economici e finanziari per giustificare simili provvedimenti o per sconsigliarli.
Le ipotesi di un "grande concordato" sui titoli di Stato e di una loro tassazione poggiano oggi su due presunte esigenze che deriverebbero dalla nuova dimensione del debito, dalla sua attuale struttura e dal sistema fiscale in vigore.
Non soltanto abbiamo - e questo si sapeva - un disavanzo pubblico che in termini di prodotto interno lordo è tra i più elevati del mondo occidentale, ma la nostra posizione si distingue drammaticamente soprattutto per la maggior quota a breve termine del debito fluttuante. Da noi, il 64 per cento dei titoli di Stato hanno una scadenza inferiore a 12 mesi; nei Paesi a più bassa inflazione i titoli a breve rappresentano all'incirca un quinto delle emissioni. Si deve poi aggiungere che in Italia è in atto un pronunciato processo di monetizzazione del risparmio delle famiglie, come conferma tra l'altro il recente recupero dei depositi bancari, con uno spostamento progressivo verso attività quanto più liquide possibile. La situazione sta dunque peggiorando ulteriormente.
In queste condizioni, diverrà ben presto prioritaria la necessità di allungare la vita del debito pubblico, spingendo spontaneamente l'investimento verso scadenze più lontane (ma questa manovra appare difficile), oppure avviando un'operazione forzosa di consolidamento. L'alternativa sarebbe un "azzeramento dei conti", cioé una svalutazione selvaggia dei rendimenti attraverso l'inflazione, per portare gli oneri sul finanziamento del Tesoro a livelli fortemente negativi in termini reali. Diverrebbe però, in tal caso, pesantissima la perdita di potere d'acquisto dell'investimento in titoli che già negli ultimi 10 anni, sottraendo l'effetto dell'inflazione dagli interessi pagati sul debito pubblico, si è ridotto di oltre 32 mila miliardi.
La seconda questione riguarda la tassazione. L'Italia è uno dei pochissimi Paesi al mondo in cui esiste il privilegio fiscale sui titoli di Stato. E' un retaggio dei tempi in cui, dopo le prime grandi nazionalizzazioni e l'inondazione del mercato con obbligazioni pubbliche che ne seguì, si impose il sostegno del reddito fisso in appoggio ad obiettivi puramente politici. Ma quanto ancora potremo tenere in vita questo feticcio finanziario?
Secondo un'obiezione ricorrente, la tassazione del Bot obbligherebbe il Tesoro ad aumentarne proporzionalmente i rendimenti per non disincentivarne l'acquisto. Quindi, il recupero di gettito fiscale si perderebbe automaticamente con un aumento dei costi di indebitamento dello Stato. Molti dubitano che vi sia in realtà un rapporto matematicamente stretto tra i due fattori. L'esperienza dei Paesi in cui gli interessi sui titoli di Stato sono inclusi sotto il profilo tributario nel reddito imponibile del risparmiatori dimostrerebbe che un punto percentuale di imposta non comporta affatto l'innalzamento di un punto percentuale dei rendimenti nominali e quindi una relazione simmetrica tra gettito fiscale, oneri di indebitamento e struttura dei tassi.
L'obiezione fondamentale è piuttosto un'altra, più "ideologica". Essa si rifà alla dottrina einaudiana secondo la quale il risparmio non è reddito in quanto costituisce un'accumulazione. Diceva Einaudi: il risparmio non è un flusso finanziario che va al consumo, anzi è la rinuncia ad un consumo presente per ottenerne uno futuro. Il profitto sul risparmio (gli interessi) è il prezzo di questa rinuncia. Tassare gli interessi vorrebbe dire creare una discriminazione tra consumi presenti e futuri, vorrebbe dire bloccare il movimento fisiologico dell'attività economica, produttiva e di investimento.
Tale indiscutibile principio può applicarsi anche ai titoli di Stato, se li consideriamo strumento di risparmio. Esso non vale, invece, se - come ormai si riconosce quasi unanimemente - la circolazione dei Buoni del Tesoro è, in fondo, un vero supplemento di circolazione monetaria, poichè il titolo funziona egregiamente come fondo di cassa delle famiglie che lo possono usare per ottenere anticipazioni in qualsiasi momento di vita del Buono e possono disporre della sua scadenza a seconda delle necessità dì spesa. I Bot assomigliano, perciò, sempre più al biglietto di banca e in tal senso non vanno considerati forma di risparmio o di rinuncia al consumo: essi sono oggi parte integrante del reddito potenziale spendibile dai cittadini.
Detto questo, occorre tuttavia ora chiedersi con grande prudenza se l'esperienza del consolidamento o della tassazione sia effettivamente percorribile in Italia. Non sappiamo. Un punto di riferimento potrebbe essere ciò che accadde nel 1926 e, successivamente, in forma diversa, subito dopo la guerra. Si sa che il consolidamento decretato da Mussolini contribuì di certo in misura notevole al drastico ripiegamento dell'inflazione, che passò dal 7,8% del 1926 a un tasso addirittura negativo (cioè, i prezzi diminuirono) dell'8,6% l'anno successivo e del 7,4% nel 1928. La seconda fase di forte stabilizzazione monetaria condotta con altri mezzi nel 1947 da Einaudi ebbe risultati analoghi sotto questo aspetto: l'inflazione scese in soli 12 mesi dal 62 al 5,8 per cento. Per quanto riguarda poi i costi del consolidamento, essi furono abbastanza modesti: il "Prestito del Littorio" comportò la corresponsione di circa 115 lire di valore capitale della nuova emissione per ogni 100 lire di valore nominale del Buoni del Tesoro in circolazione.
Ma, si dice, quelli erano altri tempi. Lo Stato era riuscito a pareggiare E' conti tra uscite ed entrate, non aveva quindi bisogno del sostegno del risparmiatori. E poi in dittatura si possono compiere inversioni di rotta economica che la democrazia non consente. Anche la stabilizzazione di Einaudi approfittò, si afferma, della drammaticità del momento post-bellico.
Bene, ma dovremmo usare qualche cautela nel respingere frettolosamente, soltanto sulla base di memorie storiche, opzioni impopolari che ci stanno forse oggi di nuovo di fronte. Innanzitutto, non è detto che il consolidamento sia sempre una libera scelta da farsi, come ai tempi di Mussolini, nel momento finale di un processo di risanamento già concluso. Esso potrebbe un giorno essere inopinatamente imposto da circostanze che non controlliamo, quale vero atto di "finanza straordinaria". Inoltre, non dimentichiamoci che nel 1926 non c'era certamente un regime dittatoriale in Francia ed in Belgio quando anche questi due Paesi decisero la temporanea inconvertibilità dei loro titoli di Stato. Se poi il rigido monetarismo di Einaudi godette di "vantaggi psicologici,, dal rovinoso stato dei Paese in quel momento, non è proprio detto che un' "economia di guerra" non possa un giorno, se le cose vanno avanti così, appartenere anche ad un tempo di pace.

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