UNA PROPOSTA CONTRO L'INFLAZIONE




Claudio Napoleoni



Un pericolo c'è nelle posizioni della sinistra in maniera di politica economica, è questo: da un lato, non si dà alcuna indicazione per ridurre il disavanzo del settore pubblico, e quindi, sia pure per implicito, si viene a concludere che la situazione dei conti pubblici non ha molto a che vedere con quella "lotta all'inflazione", che pure si dichiara di voler perseguire; dall'altro lato, si nega che il costo del lavoro sia una delle cause dell'inflazione; cosicchè, da quali motivi interni l'inflazione dipenda non si comprende più; il che significa, nel caso dell'Italia, non comprendere più il fenomeno dell'inflazione in quanto tale, non avendo chiaramente senso l'attribuzione dell'inflazione italiana alle sole cause internazionali. La questione è rilevante, perchè, contro una tendenza, che comincia a presentarsi sempre più insistentemente, a considerare l'inflazione come qualcosa con cui, tutto sommato, si potrebbe convivere, si deve invece ribadire che il problema dell'inflazione è, da noi più che altrove, un problema decisivo e pregiudiziale di politica economica. In breve, si possono dare di questo giudizio due motivazioni, una più specificamente economica e una più generalmente sociale.
Il motivo economico sta in ciò, che l'inflazione determina un grado di incertezza generale, in particolare per le imprese, tale da impedire la stessa progettazione di spese per investimento aventi le dimensioni che occorrerebbero per avviare un processo di ripresa.
L'erosione della competitività internazionale, causata dalla differenza tra l'inflazione italiana e quella degli altri Paesi, è una delle ragioni, ma non l'unica, di questo clima d'incertezza. In questa situazione, il capitalista-imprenditore tende a mutarsi in capitalista-speculatore, e tende così ad essere distrutta una delle condizioni dello sviluppo economico. Ma, in secondo luogo, l'inflazione, aumenta straordinariamente l'antagonismo tra le classi e le categorie all'interno stesso del mondo del lavoro, perchè ognuna di esse tende a conseguire un reddito monetario che non lasci indietro nella difesa del reddito reale. C'è così un effetto di disgregazione sulla società, con inevitabili riflessi sulla politica, che si concentra nel compito, quasi sempre disperato, di mediare fra interessi contrapposti, ed è distolta dall'altro compito di progettare la ripresa e il mantenimento dello sviluppo.
Ma, una volta respinta l'opinione che l'inflazione non costituisce un problema dirimente, c'è un altro falso giudizio, che dovrebbe, a nostro parere, essere eliminato. Si dice da molti che l'inflazione è un fatto complesso, che non può essere analizzato con analisi semplicistiche, e che tanto meno, quindi, sopporta di esser trattato con rimedi unilaterali. Se poi si tiene conto che l'inflazione si accompagna alla stagnazione produttiva e alla perdita di occupazione, sembra che il giudizio di complessità ne tragga ulteriore conferma. C'è, invece, proprio in questo giudizio, un pericolo: che, per tener presenti particolari e dettagli, si perda l'essenza del fenomeno e perciò la stessa capacità di intervenire su di esso. Per fare un paragone: non c'è dubbio che la crisi degli anni '30 fu, anch'essa, complessa, e che di tale complessità occorre tener conto quando se ne voglia spiegare il luogo e il momento dell'inizio e le modalità di propagazione in tutto il mondo; ma non si pecca di semplicismo, se si dice che si trattò di una crisi da insufficienza di domanda; e difficilmente la teoria economica avrebbe potuto dar luogo a indicazioni sufficienti di politica contro la crisi, se non avesse preso le mosse dall'indicazione di quel carattere essenziale.
Così, di fronte alla stagflazione di oggi (cioé all'unione di inflazione e ristagno), c'è la stessa necessità di cogliere il nocciolo del problema, tanto più se si vuole arrivare a soluzioni adeguate al carattere eccezionale che la situazione ha assunto, almeno in Italia. Ma ci pare difficile arrivare al nocciolo, se non si ammette che l'origine della compresenza di inflazione e ristagno sta nei grandi processi di redistribuzione del reddito che si sono verificati a partire dalla seconda metà degli anni '60, in parte all'interno dei Paesi capitalistici, e in parte, successivamente, tra il complesso dei Paesi capitalistici e i Paesi produttori di fonti d'energia.
Per quanto riguarda il primo processo, va ricordato che, a partire appunto dalla fine degli anni '60, il rilevante e generale rafforzamento della posizione contrattuale della classe lavoratrice ha prodotto una dinamica salariale nominale generalmente più rapida della dinamica della produttività. Se il conseguente aumento del costo nominale del lavoro per unità di prodotto non fosse stato in parte trasferito sui prezzi, i profitti sarebbero scomparsi del tutto; in realtà, i profitti sono stati, in parte, difesi, ma la difesa è avvenuta appunto mediante l'inflazione, (naturalmente con l'aiuto delle autorità monetarie dei vari Paesi). La risultante è stata che i profitti sono diminuiti, ma sono tuttavia riusciti a non annullarsi e a non divenire negativi in forza del processo inflazionistico. La tendenza alla diminuzione del profitti è stata poi grandemente rafforzata, insieme al processo inflattivo, a partire dal 1973, dalla crisi petrolifera. Questo è stato il meccanismo fondamentale, a cui naturalmente si sono aggiunti meccanismi derivati. Il principale, tra di essi, è stato l'aumento della dinamica dei redditi non capitalistici, in particolare i redditi dei dipendenti dalle pubbliche amministrazioni e i redditi da "lavoro autonomo": la società si è così trasformata, come si diceva prima, in un insieme di "corporazioni" tra loro concorrenti. I processi redistributivi, in quanto hanno ridotto i profitti, hanno anche prodotto ristagno; e in quanto la difesa dei profitti ha richiesto un trasferimento sui prezzi dei movimenti dei costi, ha prodotto inflazione: così la stagflazione è il risultato finale. Infine, al processo redistributivo in senso stretto (aumento del costo del lavoro per unità di prodotto all'interno della produzione capitalistica) s'è aggiunta un'altra circostanza, ossia la forte crescita della spesa statale per consumi pubblici. Questa spesa ha sottratto risorse crescenti alla formazione di capitale, e quindi ha contribuito al ristagno, e, in quanto sia stata finanziata con creazione di mezzi monetari, ha contribuito all'inflazione dunque, ha rafforzato la tendenza alla stagflazione.
In questa situazione, non si vede come si possa uscire dalla crisi di ristagno e inflazione se non usando il mezzo straordinario del controllo della dinamica del redditi, sia direttamente, sia attraverso il controllo della spesa pubblica. Diciamo "straordinario", perché una tale politica interromperebbe la pratica degli interventi su aspetti singoli e parziali (per esempio, diminuzione di questa o quella voce di spesa pubblica, o "raffreddamento" della scala mobile), e, al contrario, cambierebbe, per così dire, le regole del gioco, mettendo fine alla corsa concorrenziale e generalizzata al maggior reddito monetario e così ponendo una delle condizioni essenziali di un maggior reddito reale.
Supponendo (senza eccessiva perdita di generalità) che, in riferimento a un certo anno futuro (che potrebbe essere anche l'83), siano trascurabili, sull'inflazione, sia gli effetti di trascinamento dell'anno precedente, sia gli effetti internazionali, proviamo a immaginare quanto segue: 1) le retribuzioni nominali dei lavoratori inseriti in un rapporto capitalistico crescano come la produttività; 2) le retribuzioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni siano mantenute costanti in termini nominali, (con la prospettiva che esse possano ricominciare a crescere solo quando, mediante indici da concordare, si possa accertare un contributo della pubblica amministrazione all'aumento della produttività del sistema economico, interessando quindi essenzialmente a questo problema l'insieme dei pubblici dipendenti); 3) i redditi dei lavoratori autonomi siano sottoposti a un regime fiscale molto pressante, sia sul terreno dell'evasione, sia su quello del recupero di base imponibile, (per certe categorie, che potrebbero essere molte, adottando il sistema del reddito medio presunto sulla base della contabilità nazionale); 4) blocco della spesa pubblica corrente al valore nominale attuale, (azione facilitata dal secondo punto); 5) i prezzi siano controllati con tutti i mezzi possibili: aumento della trasparenza dei mercati al consumo mediante l'attività informativa degli enti locali, trattamenti fiscali differenziati dei profitti in funzione della durata dei listini, accordi politici con le grandi imprese.
Noi avremo come effetti: 1) una caduta del saggio di inflazione verso lo zero; 2) una diminuzione del disavanzo pubblico in termini reali assoluti e in rapporto al prodotto interno lordo (anche per il solo effetto dell'intervento sulle retribuzioni, tenendo presente che la spesa per il personale è, direttamente o indirettamente, ben più della metà della spesa corrente dello Stato); 3) un mutamento radicale delle aspettative, del grado di incertezza e degli orizzonti temporali delle imprese.
Con questi effetti si potrebbe: 1) effettuare investimenti pubblici rilevanti in settori-chiave delle infrastrutture: costruzioni, trasporti, energia; 2) accoppiare un abbassamento dei tassi d'interesse reali al mutamento degli orizzonti operativi delle imprese, e così stimolare gli investimenti privati; 3) orientare, ogni volta che questo sia necessario, gli investimenti con una politica industriale basata essenzialmente sulla fornitura di servizi reali (politica "orizzontale" o "per fattori"). L'occupazione certamente crescerebbe, malgrado gli incrementi prevedibili di produttività; e tutti i problemi della mobilità, della riqualificazione, dell'incontro tra domanda e offerta di lavoro potrebbero essere trattati impiegando risorse per il Servizio nazionale del lavoro. Per effetto del l'abbassamento dell'inflazione, i conti con l'estero migliorerebbero, e questo reagirebbe su tutto il processo descritto, accentuandone le caratteristiche positive.
Naturalmente, bisognerebbe introdurre qualificazioni e complicazioni in questo quadro. Ma quello che qui si vuole offrire è uno schema di ragionamento, basato sull'idea che le classi lavoratrici, e in particolare la classe operaia, che hanno conseguito nell'ultimo ventennio straordinari risultati in termini di crescita sociale e politica, determinando l'allargamento e il consolidamento delle basi democratiche della società, ma provocando anche, come era inevitabile, difficoltà serie al mercato, debbano assumere l'iniziativa d'un "azzeramento" della situazione, per consentire una ripresa di sviluppo interno, pur in presenza di una stasi produttiva internazionale. Si potrebbe obiettare - da sinistra - che il quadro qui delineato non ha un chiaro segno di classe; ossia presuppone una società armonica che non esiste. Ma attenzione: sono proprio l'inflazione e il ristagno che impediscono ogni dialettica sociale, e condannano alla sconfitta chiunque tenti di riprendere la "lotta di classe" in termini tradizionali.

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