ANCHE DOMANI UN POPOLO DI FORMICHE




Napoleone Colajanni



Ma come si fa a sopravvivere? Questa domanda se la pongono in molti, in Italia. E se è possibile in qualche modo capire come siamo sopravvissuti fino a ora, meno facile è dare una risposta certa sulle possibilità di sopravvivenza a venire.
Due mi sembrano essere i fattori decisivi che hanno consentito all'economia italiana di evitare il fallimento. Il primo è l'elevatissima propensione al risparmio delle famiglie. E la percentuale di reddito che viene risparmiato, in pratica che viene investito in depositi bancari o nell'acquisto di Buoni del Tesoro, è in Italia forse la più alta del mondo. Questa massa di moneta risparmiata non va a finanziare investimenti, se non in parte. La quota di gran lunga maggiore va a coprire il disavanzo pubblico. Ma quest'ultimo, a sua volta, va a finanziare consumi, dato il rapporto esistente tra spesa corrente e investimenti nel bilancio dello Stato. Cioè, va a mettere a disposizione delle famiglie nuova massa monetaria. Su questa si applica di nuovo l'alta propensione al risparmio, ed ecco che così si crea un circolo che consente allo Stato di continuare a tirare avanti.
Il risultato è che mentre abbiamo un'elevata quota di risparmio monetario sui redditi personali, abbiamo per converso una bassa quota di risparmio reale, cioè di investimenti, in rapporto al reddito nazionale. Le risorse monetarie per finanziare gli investimenti ci sarebbero, ma vengono distratte da questo sbocco per tenere a galla il bilancio della pubblica amministrazione, che si regge sul circolo vizioso appena descritto.
L'altra ciambella che ci tiene su è una piccola e media impresa che ha dimostrato di avere sette vite. Naturalmente, quando si parla di piccola e media impresa occorre sapere che a una estremità ci sono aziende serie, capaci di innovazioni e tecnologicamente avanzate. All'altra estremità ci sono quelle che sconfinano nel sommerso, nell'economia nera, e che si reggono sul decentramento produttivo e l'evasione fiscale. Nel complesso, queste imprese sono state abbastanza competitive per esportare in misura sufficiente a impedire la bancarotta internazionale della nostra bilancia dei pagamenti. La competitività di queste imprese è fatta di tante cose. E' fatta di capacità imprenditoriale, nell'invenzione di nuovi prodotti e nuovi disegni, o nella penetrazione commerciale; di gusto del rischio, nell'innovazione tecnologica; di vera e propria furbizia, nell'escogitare forme di organizzazione dell'impresa che arrivano fino al decentramento della lavorazione di camicie in Albania. Quel che è certo è che la produttività nell'impresa minore è inferiore a quella della grande impresa, ma il costo del lavoro è ancora più basso, e quindi la competitività è maggiore.
Insomma, la propensione al risparmio ha salvato il tesoro dello Stato dalla bancarotta interna, mentre l'impresa minore ha evitato l'insolvenza internazionale. La domanda che a questo punto ci poniamo è: quanto può durare?
Occorre anche sapere, se con l'arte di arrangiarsi durerà ancora a lungo, a quale prezzo continueremo a galleggiare. Il sistema fondato sull'impresa minore, senza togliere nulla al riconoscimento delle sue qualità migliori, comincia a perdere colpi. La ricerca applicata ristagna; l'innovazione si inaridisce; la produttività resta bassa; gli sbocchi dei nostri prodotti all'esportazione si restringono. Si rischia di avere sempre meno lavoratori e sempre più assistiti, mentre dall'altro lato la necessità dell'assistenza finirebbe prima o dopo per entrare in contrasto con una propensione al risparmio che per quanto alta non è infinita.
Sarebbe, quale risultante di questo processo, una società più povera, dove il risparmio non servirebbe a costruire l'avvenire, ma solo a farci scivolare lentamente, invece di precipitare.

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