Nella storia dei
Rapporti Censis, il 1982 sarà ricordato come l'anno della Grande
Spugna. E' l'immagine scelta dai ricercatori per rappresentare l'"anima"
della società italiana, la sfera dei suoi umori e meccanismi più
profondi, scandagliata nell'anno che ha visto esplodere, proprio in seno
al corpo sociale, fenomeni di eccezionale gravità (mafia, camorra,
logge segrete, criminalità negli affari). La spugna sta appunto
ad indicare la diversità degli umori che la società ha assorbito
negli anni, smorzando le potenzialità di quelli più innovativi,
ma anche attutendo gli effetti di quelli negativi e meno limpidi. Torna
dunque l'immagine - cara al Censis - di una società complessa ed
ambigua; e torna: la richiesta rivolta alla classe dirigente italiana,
perchè prenda finalmente in seria considerazione questa anima nazionale,
anche in quelle caratteristiche solitamente giudicate poco "nobili",
senza esorcizzare quanto c'è di sommerso, particolaristico, apparentemente
immorale. "Solo riaffondando le radici nell'anima della società,
le istituzioni possono sfuggire al pericolo già attuale di restare
strutture di maschera": se continua ad essere rimossa nei progetti
dei vertici, la società rischia di vendicarsi precipitando in una
sorta di nuovo disordine originario, privo di regole e di schemi. Solo
gestendo le silenzionse innovazioni in corso, si può arrivare ad
una saldatura tra popolo e potere istituzionale, vero punto di arrivo
della questione nazionale italiana.
REALTA' E PROBLEMI
SOCIALI DEL 1982
Si potrebbero fare
considerazioni di segno opposto sulla situazione economica italiana,
a seconda degli indicatori scelti. All'ottimismo inducono la tenuta
della domanda interna e della bilancia dei conti con l'estero, l'aumento
del turismo e la consistenza delle fasce di reddito alto; chiaramente
negativi sono invece il deficit pubblico, il livello di inflazione,
il calo di competitività sul mercati esteri. L'intreccio è
complesso e contraddittorio, e in esso sembra di cogliere la tendenza
ad un riaggiustamento complessivo della nostra economia: un processo
che sta però avvenendo in ordine sparso, perchè le manovre
di politica economica si mostrano incapaci di impostarlo e gestirlo.
1) L'economia
reale: una "solidità inquieta"
Il sistema economico
italiano ha attraversato nell'82 una fase di "solidità inquieta":
l'incertezza che viene dai costi del riaggiustamento (ad es. in campo
industriale) è stata vissuta senza eccessivi drammi, grazie alla
crescita realizzata nel decennio scorso e al senso di solidità
che essa ha determinato. L'ambivalenza della fase è evidenziata
dall'esame di 4 grossi settori:
a) La grande
impresa
Bisogna distinguere tra impresa pubblica e privata: la prima rimane
in una situazione pesantemente critica (aggrava le sue perdite, è
incapace di autofinanziarsi, ha più dipendenti del necessario);
la seconda invece sta ridefinendo strategie e organizzazione, e così
torna a gestire il fattore lavoro (in termini di mobilità e di
controllo dei salari), incrementa fatturato ed esportazioni, recupera
la capacità di autofinanziamento. La grande impresa privata,
insomma, sa rispondere in termini di specializzazione e di qualificazione
ai mutamenti di scenario. Si continua però ad avvertire la mancanza
di buone leggi in materia di politica industriale, cosicchè la
cassa integrazione rischia di essere l'unico strumento di razionalizzazione,
coi costi che è facile capire.
b) Le economie
locali
Anche questo "tessuto connettivo" dell'economia italiana ha
registrato, nel primo semestre '82, un contenimento di produzione e
fatturato, sopportato tuttavia senza traumi drammatici. Si sta comunque
attraversando una fase cruciale: bisogna introdurre e produrre nuove
tecnologie, aumentare la produttività e la mobilità del
lavoro. Tutti processi che incidono profondamente sul tessuto industriale:
non a caso le ore di cassa integrazione autorizzate nell'industria,
nei primi 7 mesi dell'82, superano del 14,6% quelle dello stesso periodo
dell'81 (un valore ancora superiore a tale aumento si registra in Puglia,
dove l'incremento è stato del 26,9%). E' una risposta assistenzialistica
che va contenuta, per evitare una frattura fra imprese aperte all'innovazione
e altre inclini all'assistenzialismo.
c) Il Mezzogiorno
malgrado Bagnoli
Anche al Sud la situazione è ambivalente: da un lato silenziosi
fenomeni di ulteriore spinta di iniziativa (in tutta la fascia adriatica
ma anche in zone campane), dall'altro un gravissimo "caso Bagnoli".
Il processo di duro riaggiustamento in atto presenta elementi preoccupanti:
- l'andamento positivo è limitato ai settori industriali di base
(chimica, meccanica, siderugia), i cui effetti propulsivi si sono però
diradati e ancor più prospettano di farlo, a causa della riorganizzazione
produttiva nelle zone forti del Paese e della concorrenza dei nuovi
Paesi industrializzati;
- nei settori manifatturieri "leggeri" (alimentari, tessile,
abbigliamento, pelli) tipici di alcune aree meridionali, c'è
una produttività insufficiente; - gli investimenti industriali
sono in netto calo da quasi un decennio (se 100 era il dato del 1973,
quello dell'81 è stato 59,7), mentre assai migliore è
la situazione del Centro-Nord;
- le ore di cassa integrazione tra l'80 e l'81 sono cresciute del 29,2%,
in maniera pressochè generalizzata nelle varie Regioni.
Problemi, dunque, ce ne sono e grossi; ma è anche vero che la
struttura produttiva meridionale presenta un'articolazione e una solidità
impensabili dieci Anni fa:
- gli impianti industriali di base sono più moderni e competitivi
di quelli del Nord;
- è emersa un'imprenditorialità meridionale capace di
misurarsi *su mercati ampi, e molto diffusa (soprattutto al livello
delle piccole e medie imprese);
- il ricorso meridionale alla cassa integrazione è pur sempre
di gran lunga inferiore a quello delle imprese centro-settentrionali.
Il Sud non è dunque sull'orlo di una regressione nel sottosviluppo,
perchè gli anni '70 hanno lasciato una solidità di fondo:
- il tasso medio annuo di incremento del prodotto interno lordo è
stato nel Meridione più elevato che nel Centro-Nord, sia prima
che dopo il 1973 (l'anno dello shock petrolifero): +4,4 (contro il +3,8)
nel periodo 1971-73 e + 2,5 (contro il + 2,4) nel 1974-81;
- il tasso di accumulazione è stato anch'esso più elevato
nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese: +27,7 (contro 4-18,0) nel
1971-73 e + 25,1 (contro + 18,2) nel 1974-81;
- anche l'aumento medio annuo del prodotto dell'industria manifatturiera
è stato maggiore al Sud (+ 4,2 contro il + 3,2 del Centro-Nord);
- gli occupati nell'industria di trasformazione crescono nel Sud (dal
50,5 per mille abitanti del 1970 al 53,7 del 1981) e ancor più
nelle regioni adriatiche (in Puglia si passa dal 55,7 al 61,9), mentre
nel Centro-Nord sono in costante calo da un decennio (da 130,5 nel 1970
a 123,0 nel 1981).
In conclusione, si può dire che il Sud non si presenta in cedimento
rispetto al complessi problemi del suo riaggiustamento ed ulteriore
sviluppo.
d) Una nuova
agricoltura
Anche questo settore è oggi aperto all'innovazione: fa ricerca,
applica nuove tecnologie. Fondamentale è stata l'evoluzione dell'imprenditore
agricolo, spesso trasformatosi in un vero e proprio "manager",
attento al mercato e alle nuove tecniche di gestione.
Anche il nuovo assetto della proprietà (la diffusione delle piccole-medie
aziende a scapito delle piccolissime) favorisce nuovi fermenti. L'Italia
Meridionale può essere inclusa a buon diritto in questo capitolo:
anche al Sud ci sono condizioni e potenzialità strutturali per
iniziare un nuovo discorso agricolo (sta calando l'età media
dell'agricoltore e si diffonde una concezione imprenditoriale dell'attività).
2) La crisi delle
istituzioni
Se nell'economia
è in atto un processo di riaggiustamento, come si comportano
le istituzioni? Continuano a "volare alto" sui processi reali:
le manovre economiche non incidono sulla realtà, e anzi accentuano
l'isolamento dell'azione pubblica, che si sta sfaldando anche ai livelli
più elementari.
a) L'"avvitamento"
della funzione pubblica
Molti sono gli indicatori di una caduta degli apparati pubblici:
- la dilatazione dell'occupazione pubblica, vero ammortizzatore sociale:
non a caso il 73% del dipendenti di Ministeri e Aziende Autonome viene
dal Sud;
- il rapido e costante calo della produttività;
- la cristallizzazione e l'invecchiamento della dirigenza.
Oggi quella del dipendente pubblico è una vera posizione di rendita.
b) La crisi delle
tradizionali reti di servizi
Acquedotti e fogne, sistemi di smaltimento del rifiuti e di depurazione,
reti elettriche e trasporti, presentano indubbiamente nel Sud le carenze
più vistose: va però segnalato il caso della Puglia che,
ad eccezione della rete idrica, vanta infrastrutture di qualità
settentrionale.
c) La perdita
di funzione della spesa pubblica
Altro campanello di allarme è la tendenza regressiva della spesa
pubblica. Dal 1973 all'81 le spese per l'autoalimentazione dell'apparato
hanno superato la quota destinata agli interventi in campo economico,
ed hanno anche cominciato ad erodere le risorse per gli interventi sociali.
3) Si rimescola
il dualismo Nord-Sud
La crisi delle istituzioni
lascia maggior spazio ai comportamenti individuali e collettivi: quando
sono meno influenti le regole dettate dallo Stato, i vari soggetti sviluppano
una forte tendenza a fare da soli, col rischio però di un degrado
complessivo del tessuto sociale. Assistiamo così ad un riIancio
di ruoli e comportamenti specifici, sia nel lavoro (vedi la nuova fortuna
delle esigenze di professionalità e merito) che nella vita privata
(con il ritorno a forme più tradizionali di famiglia).
Ma - ciò
che più ci interessa - questa progressiva liberazione dei comportamenti
riguarda non solo gli individui, ma anche le realtà territoriali:
i Comuni piccoli e piccolissimi, tradizionalmente esclusi dai circuiti
dello sviluppo, mostrano da qualche anno la tendenza ad elevati tassi
di crescita demografica ed economica. Ne risulta toccato anche il tradizionale
dualismo Nord-Sud: non ha più senso misurare il divario fra le
due grandi aree in termini aggregati, poichè c'è una forte
disparità tra Regioni e all'interno delle Regioni stesse. Anche
nel Mezzogiorno sono stati i comportamenti del soggetti semplici (imprese,
famiglie, ecc.) ad arricchire e vitalizzare il modello degli Anni '60
(l'industrializzazione forzata), adeguandolo alla situazione del Sud.
Cosicchè bisogna parlare di una mappa a "pelle di leopardo":
i Comuni "canguro" (vedi tab.1), quelli cioè che hanno
compiuto il salto in termini d'i produzione e di reddito, sono disseminati
con maggiore o minore intensità in tutte le regioni e intersecano
tutte le fasce demografiche.
Altrettanto, come si è visto, vale per le altre tipologie: hanno
dunque più rilievo le singole tessere (i Comuni) rispetto al
mosaico complessivo (provinciale o regionale). Di questa nuova configurazione,
d'ora in poi, l'intervento pubblico dovrà assolutamente tener
conto, dando aiuti "mirati".
Collimano con questi dati anche le indicazioni fornite da un'indagine
svolta tra i quadri dirigenti meridionali: a loro giudizio, la crescita
del Sud negli ultimi dieci anni è dovuta in misura abbastanza
marginale (28,9%) allo sviluppo socio-economico dei capoluoghi e delle
tradizionali città-guida.

Anche le indicazioni che dai quadri vengono su "cosa è necessario
per sostenere lo sviluppo" confermano il favore accordato a un
modello di crescita che coinvolga molti piccoli punti del territorio:
significativo il netto rifiuto del grande polo industriale (tab. 2).
I SETTORI DI INTERVENTO
SOCIALE
A) IL MERCATO DEL LAVORO
(Luglio 1981 - Luglio 1982)
1) L'evoluzione
delle forze di lavoro
A livello nazionale si confermano i segni di un graduale deterioramento
degli equilibri (tab.3). Il moderato aumento finale delle forze di lavoro
combina una riduzione degli occupati ed una crescita delle persone in
cerca di prima occupazione.
Tra gli occupati, continuano a calare gli addetti all'industria e all'agricoltura,
mentre l'espansione del terziario (che si conferma come la principale
direttrice di evoluzione, assorbendo ormai più della metà
degli occupati) non compensa la somma delle riduzioni degli altri due
settori. L'aumento delle forze inoccupate deriva, contrariamente a quanto
avvenuto l'anno scorso, dalla crescita dei disoccupati e delle persone
in cerca di prima occupazione; cala invece la componente formata dalle
"altre persone in cerca di lavoro" (cioè le persone
che, pur non identificandosi in una condizione professionale, cercano
lavoro).
Se questo è il quadro d'assieme nazionale, abbastanza distinte
sono le due immagini (Centro-Nord e Mezzogiorno) che concorrono a formarlo:

- forze di lavoro: nel Centro-Nord restano stazionarie; nel Sud crescono
in maniera apprezzabile;
- occupazione: nel Centro-Nord cala, nel Meridione resta stabile (anche
se soltanto grazie all'espansione del terziario);
- inoccupazione: pur aumentando in entrambe le aree, al Sud cresce in
misura più consistente, esclusivamente a causa della componente
dei disoccupati, che sale ben più che nel Centro-Nord.
In sintesi, mentre nell'Italia Centro-Settentrionale la situazione appare
alquanto stazionaria, nel Mezzogiorno il quadro risulta più mosso
e condensa un maggior numero di punti critici: soprattutto segnala un
deterioramento rispetto all'evoluzione dell'anno precedente (in cui,
se l'occupazione si era ridotta del 1,6%, l'inoccupazione era cresciuta
soltanto del 1,4%).
2) Lavoro femminile
Questa componente ha presentato, nell'anno in esame, variazioni abbastanza
significative rispetto all'andamento generale:
- l'offerta di lavoro femminile è aumentata più di quella
complessiva, e ammonta ora al 34,1% del totale delle forze di lavoro;
- invertendo l'andamento dell'anno precedente, l'incremento dell'offerta
femminile è dovuto per intero alla componente occupata (che cala
in agricoltura, ma resta stabile nell'industria e cresce nel terziario):
così l'occupazione femminile raggiunge ora il 31,9% dell'occupazione
globale;
- l'inoccupazione femminile resta stabile: il saldo nullo deriva però
dal calo della "non occupazione non dichiarata" (tradizionale
"regno" delle donne) e dall'aumento delle donne alla ricerca
di prima occupazione, che hanno superato ormai la metà della
componente inoccupata.
3) La modularizzazione
del lavoro
Come l'anno precedente, alla crisi occupazionale sono molto esposti
sia il doppio lavoro (90 mila unità in meno, -8,2%) sia il part-time
(42 mila addetti in meno, -3,3%). Da notare però che il doppio
lavoro cala esclusivamente tra i dipendenti, mentre si accresce tra
i lavoratori indipendenti.
B) EDILIZIA ABITATIVA
Dopo dieci anni
di "grande abbuffata" edilizia (evidenziata dai dati del censimento),
la temuta crisi sta arrivando sul serio, sia per generali andamenti
negativi dell'economia e della finanza sia per una certa saturazione
della domanda. Per superare tale crisi pagando il prezzo minimo è
necessario:
- aumentare la "produttività economica" dell'apparato
pubblico a tutti i livelli, in modo che le risorse non vengano falcidiate
da ritardi e ostacoli ingiustificati (un solo esempio: le lentezze di
molte Regioni meridionali, ad eccezione della Puglia, nella spesa per
l'edilizia sovvenzionata);
- aumentare la "produttività sociale" dell'edilizia
pubblica, prevedendo forme specifiche di sostegno per le aree di povertà
abitativa;
- coordinare le diverse leve che possono incidere sulla politica abitativa
(in particolare la leva fiscale) e raccordare i diversi soggetti istituzionali,
per evitare sovrapposizioni di ruoli;
- rivedere le modalità di intervento del risparmio familiare,
che ha ormai esaurito la propria spinta per l'investimento diretto,
ma è disponibile per l'investimento indiretto (nel cosiddetti
"titoli atipici");
- rafforzare il sostegno offerto al sistema bancario, che si è
ulteriormente indebolito. Tra le varie distorsioni del sistema del credito
fondiario, interessa qui sottolineare la notevole disuguaglianza nella
distribuzione territoriale delle erogazioni, che penalizza il Meridione
(tab. 4).
Questo squilibrio permane anche relativizzando l'ammontare del credito
concesso in rapporto alla popolazione residente (tab. 5). Le minori
erogazioni al Sud non sono giustificabili alla luce di una più
contenuta attività edilizia: si può quindi dire che essa
si è sostanzialmente autofinanziata.
C) AUTONOMIE LOCALI
.
In generale, si
deve registrare una caduta di tensione politica sul problema di un definitivo
dispiegamento dell'assetto autonomistico: è la Grande Riforma,
quella riguardante i meccanismi "alti dello Stato, a focalizzare
l'attenzione. D'altro canto, ai governi locali (in specie alle Regioni)
va imputato un ritardo ancora grave nella capacità programmatoria.
Passiamo ora ad un esame dei diversi livelli:
a) Regioni
- Producono (soprattutto al Nord) una gran quantità di leggi,
ma i risultati sembrano suggerire ancora settorialità, poca chiarezza,
dispersione;
- si è arrestata nel 1981 la crescita del personale. Il rapporto
tra popolazione e dipendenti è però diverso scendendo
da Nord a Sud: nel Mezzogiorno c'è un vero rigonfiamento assistenzialistico
delle strutture;
- sul piano finanziario, il 1981 ha portato un cospicuo rallentamento
della crescita dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni (+ 21,8% contro
il + 42,3% dell'intervallo 1979-80); migliora inoltre la capacità
di spesa, anche se rimangono vistosi divari tra Regioni nella spesa
pro capite (divari che però non penalizzano in maniera particolare
il Sud);
- in politica economica non esiste ancora una vera programmazione, specie
al Sud (quattro regioni meridionali, tra cui la Puglia, sono prive del
Piano Regionale di Sviluppo);
- infine, lo Stato sembra volersi riappropriare di alcuni poteri di
iniziativa e controllo nei confronti delle Regioni.
b) Province
- sono in una fase di transizione, avviandosi a diventare strutture
non più di amministrazione, ma di coordinamento e programmazione:
il tentativo viene però attuato, finora soprattutto nel Nord;
- stanno ricevendo dalle Regioni la delega per varie funzioni: la Puglia
è la Regione meridionale in cui il processo è più
avanzato;
- sembrano indirizzare le loro disponibilità finanziarie sempre
più verso gli investimenti.
c) Comunità
Montane
- scendendo dal Nord al Sud, la loro vitalità tende ad impoverirsi:
nel Mezzogiorno sono partite con forte ritardo e oggi, pur avendo una
buona dotazione di personale e bilanci consistenti, sono assenti sul
piano della programmazione e su quello operativo.
d) Comuni
- negli ultimi anni sono cresciuti numero e qualità delle loro
competenze, con la conseguenza che ora è necessario riorganizzare
in modo profondo la struttura: attualmente la qualità del personale
non è all'altezza di compiti gestionali complessi;
- in materia finanziaria, sono sempre più urgenti strumenti che
consentano certezza di risorse, sufficiente autonomia di impiego, compatibilità
col bilancio statale;
- la spesa comunale è cresciuta di molto dal 1980 al 1981 (+
51, 4%), a causa degli accresciuti compiti. La spesa pro capite è
inferiore alla media nazionale del Nord, superiore nel Centro e nel
Sud (con l'eccezione però delle Isole, molto al disotto dei valori
nazionali). Pur se frammentariamente, qualcosa è stato fatto
per riequilibrare le capacità di spesa.
D) SCUOLA
La maggiore esigenza
alla quale la Scuola deve oggi far fronte è quella di rispondere
a bisogni diversificati, richieste personalizzate, tenendo presenti
gli intrecci con il mondo del lavoro e della cultura e cogliendo l'opportunità
offerta dalle nuove tecnologie informatiche. La Scuola deve cioè
fare da "polo di riferimento", mettendo ordine in una rete
di occasioni formative oggi confusa.
Accanto a problemi di gestione del nuovo (e nel nuovo rientra anche
la crescita che dal 1980 è tornata a far registrare la spesa
per spettacoli, istruzione e cultura, nella quale il Sud sta riducendo
il distacco dal Centro-Nord), c'è però anche il preoccupante
riemergere di questioni vecchie, come l'evasione dell'obbligo. I fenomeni
di selezione e dispersione stanno tornando - specie nei primi anni di
ogni ciclo scolastico - a livelli spesso allarmanti, e la loro incidenza
è nettamente più grave nel Meridione, almeno per quanto
riguarda la scuola dell'obbligo. Ma non è questa l'unica specificità
della Scuola meridionale. A comporre il mosaico ci sono tante altre
piccole tessere:
- nel Sud è ancora poco diffusa la Scuola Materna (la frequenta
solo il 71,3% dell'utenza potenziale, contro una media nazionale del
75,4);
- sono poche, rispetto al resto del Paese, le iniziative di sperimentazione
a tempo pieno, mentre al contrario è più diffuso che nelle
Scuole del Centro-Nord il tradizionale doposcuola;
- molto lento è il processo di integrazione degli handicappati,
anche per il numero irrisorio degli insegnanti di sostegno;
- diminuiscono, al contrario di quanto avviene al Centro-Nord, gli iscritti
al corsi di formazione professionale, anche se nel Meridione i valori
assoluti restano assai maggiori.
Quanto al rapporti tra Scuola e mercato del lavoro, una particolarità
meridionale è la consistente quota di laureati tra le persone
in cerca di lavoro: ben il 10,9% contro il 5,9% del Centro e il 2,1%
del Nord.
E) SICUREZZA SOCIALE
1) Sanità
E' un settore sostanzialmente privo di controllo. L'attuazione di una
riforma, che troppo affrettatamente è stata bollata con giudizi
catastrofici, sembra oggi affidata al caso. Basti ricordare:
- la perdurante incontrollabilità della spesa sanitaria. Il problema
vero non è però la quantità (l'Italia spende ancora
molto meno di altri Paesi CEE, e l'incidenza della spesa sanitaria sul
prodotto interno lordo è scesa dal 5,66% del 1976 al 5,24% del
1982), ma la qualità della spesa: si spende troppo e male per
gli ospedali (nel Centro-Nord c'è eccedenza di posti-letto, e
anche altrove li si utilizza con poca razionalità) e farmaci,
e troppo poco per la prevenzione;
- il ritardo nel l'approvazione del Piano Sanitario Nazionale e dei
conseguenti Piani Regionali (specie al Sud);
- la penalizzazione degli obiettivi qualificanti della riforma (prevenzione,
progetti per fasce emarginate, servizi territoriali di base);
- la perdurante eccedenza di medici e la carenza di personale ausiliario:
ambedue i fenomeni riguardano in misura particolare il Mezzogiorno.
Dal lato della domanda, c'è un'evoluzione che sta spiazzando
ulteriormente la già carente offerta: diminuiscono le patologle
tradizionali, migliora lo stato di salute degli italiani e aumentano
quindi le richieste di servizi nuovi, legate ad una sempre più
diffusa "cultura della salute e del benessere fisico". Non
bisogna però dimenticare i ritardi di tipo tradizionale: la mortalità
infantile, perinatale e materna, è in Italia ancora superiore
agli altri Paesi europei, e il Sud conferma il suo triste primato.
2) Assistenza
Se questi anni sono segnati dall'emergere di nuovi bisogni e dall'evidenziarsi
di "nuove povertà", inefficace è stata la risposta
concreta delle istituzioni (per la frammentazione della legislazione
- pure in molti casi avanzatissima -, per gli scarsi mezzi, per l'impreparazione,
per la burocratizzazione): la società non ha saputo farsi carico
di quelle funzioni che da anni erano state sottratte alla famiglia,
e anzi tende ora ad accollare al comparto sanitario tutta una serie
di problemi (droga, handicap, malattie mentali).
L'INDUSTRIA NEL
MEZZOGIORNO
Dati e notizie
sull'industria manufatturiera
Prima che l'istituto Centrale di Statistica pubblichi i dati relativi
al Vi Censimento Generale dell'industria, Commercio, Servizi e Artigianato,
abbiamo a disposizione alcuni dati sui caratteri dell'industria manufatturiera
del Meridione elaborati dallo IASM-CESAN (istituto per l'Assistenza
allo Sviluppo del Mezzogiorno). I dati e le informazioni riportate si
riferiscono alle imprese con stabilimenti manufatturieri con almeno
10 addetti fissi, ubicati nelle regioni del Mezzogiorno: Abruzzo, Molise,
Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna.
Sono comunque opportune alcune considerazioni generali e raffronti con
la congiuntura economica a livello nazionale.
Sul piano degli indicatori statistici più significativi, il terzo
trimestre dell'82, a livello nazionale, può essere così
sintetizzato:
- l'indice generale della produzione industriale, calcolato dall'ISTAT
e depurato dell'influenza stagionale, ha segnato una caduta del 7,6%
rispetto al secondo trimestre. La flessione cumulata dall'inizio dell'anno
rispetto ai primi nove mesi del 1981 è dello 0,9%;
- il grado di utilizzo degli impianti, elaborato presso l'ISCO, è
sceso dal 72,7% del secondo trimestre al 70,6%, con ripiegamenti generalizzati
ai principali settori produttivi;
- l'occupazione complessiva nell'industria ha subito una contrazione
di 72.000 unità rispetto ai livelli di un anno prima. Durante
il terzo trimestre, le ore concesse dalla cassa integrazione sono risultate
pari a 121.324 unità, con un incremento del 24% rispetto allo
stesso periodo del 1981. Il tasso di disoccupazione medio complessivo
ha raggiunto il 9,2%, valore che si innalza al 13,8% per il Meridione
(tab. 6);
- i prezzi all'ingrosso sono cresciuti del 3,2% rispetto al secondo
trimestre, mentre il costo della vita è variato del 4,2%.
- l'interscambio commerciale è rimasto passivo per 3911 miliardi
di lire, contro i 4221 miliardi del secondo trimestre; a tutto settembre,
il disavanzo è ammontato a 13.773 miliardi di lire.
Questo in generale. Aspetti negativi di crescente incidenza possono
essere evidenziati anche nelle linee evolutive dell'economia nel Mezzogiorno.
L'industria manufatturiera meridionale accusa infatti le conseguenza
di fattori frenanti d'ordine generale e di notevole intensità:
nei comparti più esposti e nelle aziende più deboli si
sommano, a varie pesanti remore congiunturali, le ripercussioni relative
ad irrisolte carenze di struttura. In sintesi, una base produttiva in
via di profondo riassetto, quale quella del Mezzogiorno, appare esposta,
più di altre, a subire nel tempo il contraccolpo di una domanda
in ripiegamento, unitamente agli effetti di costi del denaro molto elevati.
In effetti, anche
nel Mezzogiorno la debolezza della domanda coinvolge tutti i grandi
comparti mercantili. I beni di consumo accusano il declino degli acquisti,
sia dei prodotti non durevoli sia dei manufatti del settore meccanico
ed elettromeccanico. Infine la domanda estera, ormai di diversa incidenza
per diverse produzioni manifatturiere del Mezzogiorno (tessili, abbigliamento,
calzature, alimentari, industria metalmeccanica, costruzione dei mezzi
di trasporto, elettronica ed elettromeccanica).
I sintomi involutivi presenti nel Paese, estendendosi alle regioni meridionali,
hanno provocato inoltre effetti peculiari, acuendo tipiche carenze e
distorsioni. I più vistosi cedimenti vengono segnalati per la
manodopera: in un anno, in base all'ultima rilevazione ISTAT (luglio
'82), la disoccupazione si è accresciuta nel Mezzogiorno del
7,2% (nel resto del Paese, di circa il 3,5%) e il suo peso sulle forze
di lavoro sfiora ormai, nel Meridione, il 14%: percentuale che rappresenta,
in valore assoluto, oltre un milione di persone in cerca di impiego
(48% del totale Italia).
INDICATORI SOCIO-ECONOMICI
DELLE REGIONI MERIDIONALI
Ci serviremo ora
del rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno per esaminare le linee
di tendenza dello sviluppo agricolo e industriale del Meridione, sempre
in attesa di poter fornire dati più completi e aggiornati, disponibili
solo dopo la pubblicazione dei risultati del VI Censimento Generale
dell'industria, Commercio, Servizi e Artigianato.
Prodotto
Nel Mezzogiorno, al contrario di altre regioni, nel 1981 si è
verificato un aumento, benchè assai modesto (0,3%) del prodotto
lordo. I maggiori tassi di incremento si sono registrati in Abruzzo
(+ 3,4%) e nel Molise (+6,5%). Al buon andamento del prodotto lordo
in queste regioni del Sud ha concorso un cospicuo aumento del valore
aggiunto dell'industria, cui si è accompagnato un buon risultato
dell'annata agraria. In Puglia e Calabria vi è stata invece diminuzione:
sensibile in Puglia (-2,7%), molto più lieve in Calabria (-0,3%).
Occupazione
L'andamento congiunturale sfavorevole, come abbiamo già detto
precedentemente, ha influito negativamente sulla capacità di
assorbimento di manodopera da parte delle imprese, accrescendo il fenomeno
della disoccupazione. Nel 1981 il numero complessivo degli occupati
nel Mezzogiorno è stato calcolato in 6.262,4-mila unità
contro 6.217,0-mila nel 1980: vi è stato quindi un'incremento
di 45,4-mila unità, pari allo 0,7%.

Aumenti di rilievo si sono avuti in Calabria e Sardegna, mentre contrazioni
si sono avute nel Molise e in Basilicata (in questa regione vi è
soprattutto da segnalare un apprezzabile aumento nell'industria).
Turismo
La diminuzione delle presenze turistiche straniere, che ha caratterizzato
il nostro Paese nel 1981, è stata, in termini relativi, molto
più accentuata nel Sud, dove si è avuto, tra il 1980 e
il 1981, un decremento del 17,8% contro l'11,8% del Centro-Nord. Il
peggioramento ha interessato tutte le regioni meridionali e in modo
particolare il Molise, la Basilicata e la Campania. Soltanto la Puglia,
la Sardegna e la Calabria hanno realizzato un aumento rispetto al 1980.
I dati relativi agli occupati nell'industria, nell'agricoltura e nei
servizi delle regioni dell'Italia Meridionale sono riportati nelle tab.
7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14.
LA PUGLIA
Concentrazioni
produttive in Puglia localizzate nelle aree di sviluppo industriale
(ASI).
Le unità produttive attualmente operanti nelle aree di sviluppo
industriale della Puglia sono 240, con un'occupazione complessiva di
oltre 59.000 addetti (Tab. 15).
Il maggior numero di stabilimenti è concentrato negli agglomerati
di Bari (104 stabilimenti, che rappresentano il 43% del totale delle
unità produttive in aree di sviluppo industriale). La maggiore
concentrazione di addetti si verifica, invece, negli agglomerati dell'area
di Taranto (45% dell'occupazione in ASI). A questo proposito va tuttavia
tenuto presente che nel solo agglomerato di Taranto vi sono i circa
22.000 addetti alle stabilimento Italsider.
In complesso, a Taranto e a Bari si concentrano il 73% degli occupati
e il 56,6% degli stabilimenti di tutta l'industria manifatturiera ubicata
negli agglomerati pugliesi.
Escludendo lo stabilimento Italsider, la dimensione media delle unità
in agglomerato è di circa 158 addetti, contro i 43 degli stabilimenti
fuori agglomerato.
Quanto alle attività produttive prevalenti negli agglomerati,
si nota una significativa concentrazione di stabilimenti operanti nei
settori della metallurgia di seconda lavorazione, del vetro e dei materiali
da costruzione, dell'industria alimentare e dei materiali di gomma e
plastica. Questi settori concentrano oltre la metà (51%) di tutti
gli stabilimenti in agglomerato.

Riguardo all'occupazione, i settori con un maggior numero di addetti
sono quelli della metallurgia di prima lavorazione, seguiti da quelli
della metallurgia di seconda lavorazione, dal mezzi di trasporto e dai
derivanti del petrolio e del carbone. Complessivamente, questi settori
rappresentano il 70% dell'occupazione totale nella Regione Puglia.
XII CENSIMENTO GENERALE
DELLA POPOLAZIONE 25 OTTOBRE 1981.
Primi risultati
relativi alla popolazione e alle abitazioni, riguardanti il Mezzogiorno
d'Italia.
Il 25 ottobre 1981, in attuazione della legge 1811211980, n. 864, hanno
avuto luogo in Italia il XII Censimento Generale della Popolazione e
il Censimento Generale delle Abitazioni. Riportiamo alcuni dati generali,
che riguardano l'intero territorio nazionale, soffermandoci soprattutto
sui dati che interessano l'Italia Meridionale e Insulare.
La popolazione residente nel nostro Paese è risultata di 56.243.935
persone, delle quali 27.396.502 di sesso maschile (48,7%) e 28.847.433
di sesso femminile (51,3%), con un aumento di 2.107.388 unità
rispetto al censimento 1971. La popolazione maschile è aumentata
del 3,5% e la popolazione femminile del 4,3%; la popolazione femminile
supera quella maschile di 1.450.931 unità. Questi i dati generali.
Esaminiamo i dati relativi all'Italia Meridionale e Insulare. Sono state
censite, nel Sud d'Italia, 19.881.783 persone residenti: il 35,4% dell'intera
popolazione italiana. Rispetto al censimento del 1971, si è verificato
un incremento demografico di 1.007.517 abitanti (+ 5,3%), pari al 47,8%
della variazione complessiva di popolazione avvenuta nell'intero territorio
nazionale fra il 1971 e il 1981.
La popolazione maschile residente nelle regioni dell'Italia Meridionale
ammonta 9.768.991 persone; la popolazione di sesso femminile è
invece composta da 10.112.792 persone. La popolazione femminile supera
quella maschile di 343.801 unità. Complessivamente, la popolazione
presente nel Sud è risultata di 19.617.065 persone. Questo dato
è estremamente importante. Se confrontato infatti con i dati
che riguardano la popolazione residente e presente sull'intero territorio
nazionale, balza agli occhi una particolarità molto significativa:
la popolazione presente, costituita cioè dalle persone di fatto
presenti sul territorio nazionale alla data del censimento è
risultata, per l'intera nazione, di 56.336.185 persone. Per la prima
volta nella storia dei censimenti italiani, la popolazione presente
risulta quindi superiore alla popolazione residente. Questo dato lascia
presumere una più cospicua temporanea presenza di stranieri rispetto
ai precedenti censimenti oppure il contrarsi dell'ammontare di italiani
temporaneamente all'estero rispetto ai livelli del passato.
Ma questo dato non è valido per il Meridione. Ancora, nel Meridione,
il numero di persone residenti è superiore al numero delle persone
presenti, precisamente di 264.718 unità. Questo dato non può
essere addebitato al fenomeno dell'emigrazione, che continua ad interessare
tutta l'Italia Meridionale.
Tuttavia, rispetto al censimento del 1971, questa differenza è
certamente diminuita. Undici anni fa, infatti, tra le persone residenti
e presenti sul territorio delle regioni meridionali e Insulari c'era
uno scarto di 531.813 unità. Questo dato è, senza ombra
di dubbio, confortante.
C'è un altro elemento importante da sottolineare e su cui soffermare
la nostra attenzione. Torniamo ad esaminare i dati che riguardano l'incremento
demografico dal 1971 al 1981: in questi ultimi dieci anni l'aumento
della popolazione residente è stato di 643.219 unità (+
2,6%) nell'Italia Settentrionale, di 456.652 unità (+ 4,4%) nell'Italia
Centrale e, come è stato già detto in precedenza, di 1.007.517
unità (+ 5,3%) nell'Italia Meridionale e Insulare.
Nel precedente decennio 1961-71 i corrispondenti aumenti risultarono
diversamente differenziati in quanto fu l'Italia Settentrionale a beneficiare
del maggiore incremento (+ 10,2%), seguita dall'Italia Centrale (+9,7%);
di modesta entità risultò invece l'aumento dell'Italia
Meridionale e Insulare (+ 1,6%). In conseguenza di queste variazioni,
la percentuale della popolazione che risiede nelle tre grandi ripartizioni
geografiche è passata, fra il 1971 e il 1981, dal 46,1% al 45,5%
nell'Italia Settentrionale, dai 19,0% al 19,1% nell'Italia Centrale,
dal 34,9% al 35,4% nel Mezzogiorno. La quota di popolazione, nell'Italia
Centrale, è rimasta pressochè invariata; il fatto nuovo
è rappresentato dal minore peso delle regioni settentrionali
e dalla maggiore importanza relativa della popolazione dell'Italia Meridionale
e Insulare. Tale situazione può farsi risalire, oltre che alla
differente azione delle componenti naturali della dinamica demografica,
al rallentamento del flusso migratorio diretto da sud a nord.
Il Sud ha quindi continuato, ma in misura ridotta rispetto al passato,
ad alimentare flussi migratori verso le restanti regioni italiane e
verso l'estero. C'è un altro dato che conferma l'ipotesi: il
saldo del movimento naturale (vale a dire l'eccedenza delle nascite
sulle morti) è inferiore alla variazione della popolazione sia
nell'Italia Settentrionale sia in quella Centrale, mentre risulta superiore
alla variazione nell'Italia Meridionale e Insulare.
Nelle Tab. 16 e
17 possono leggersi i dati riguardanti la popolazione residente e presente
in tutto il Mezzogiorno. Vi si vede chiaramente che la regione del Meridione
in cui c'è maggiore scarto tra popolazione residente e popolazione
presente è la Calabria, con 74.072 persone che, pur risultando
residenti, non sono tuttavia presenti. La regione in cui invece il fenomeno
è meno rilevante è la Sardegna che presenta uno scarto
di 10.060 unità fra persone residenti e persone presenti. Ad
un sommario esame di questi dati si può quindi affermare che
le regioni del Meridione più interessate al fenomeno dell'emigrazione
sono la Calabria, seguita dalla Sicilia, dalla Puglia, dalla Basilicata
e dalla Campania. Il fenomeno è invece meno allarmante in Sardegna,
in Abruzzo e nel Molise.
Famiglie
In Italia il numero delle famiglie è risultato pari a 18.536.570,
con 55.768.593 componenti: la differenza tra la popolazione residente
totale e i componenti delle famiglie, pari a 475.342 unità, è
costituita dai componenti permanenti delle convivenze (ospedali, case
di cura, collegi, caserme, convivenze religiose, istituti di prevenzione
e pena, alberghi, pensioni, ecc ... ). Il numero medio dei componenti
per famiglia è risultato di 3,0 contro il 3,3 del 1971.
In proposito, merita di essere sottolineato il notevole aumento delle
famiglie tra il 1971 e il 1981. Ciò significa che continua a
ridursi l'ampiezza media delle famiglie, passata dai 4 componenti del
1971 ai 3 componenti del 1981. Il fenomeno è generalizzato; ha
interessato infatti tutte le aree geografiche del Paese. Esistono tuttavia
ancora apprezzabili differenze tra il Nord, il Centro e il Sud: mentre
il dato dell'Italia Centrale coincide con quello nazionale, l'ampiezza
media delle famiglie residenti nell'Italia Settentrionale (2,8) e nell'Italia
Meridionale e Insulare (3,3) risulta, rispettivamente, inferiore e superiore
a quest'ultimo.
Nel Meridione quindi
il numero dei componenti per famiglia risulta, come nel resto della
Penisola, notevolmente diminuito rispetto al 1971. Se confrontato invece
con i dati relativi al numero dei componenti per famiglia dell'Italia
Settentrionale e Centrale, il dato riguardante il Sud risulta essere
ancora maggiore. Parallelamente, il numero delle famiglie censite nel
Sud sarà, in percentuale, minore rispetto al Nord e al Centro.
Nel Mezzogiorno, la situazione regione per regione è posta in
evidenza nella Tab. 18. Da essa è possibile ricavare un altro
dato interessante: la Campania èla regione del Meridione sia
con un più alto numero di famiglie sia con il più alto
numero dei componenti per famiglia. Il Molise invece è la regione
con il minor numero di famiglie e con il più basso numero di
componenti per famiglia.
Censimento delle
abitazioni
Alla data del 25/10/1981 sono state rilevate complessivamente 21.852.717
abitazioni comprendenti 86.570.148 stanze, con un aumento, rispetto
al 1971, di 4.418.748 abitazioni (+ 25,3%) e di 22.736.416 stanze (+
35,6%). Di conseguenza, il numero medio di stanze per abitazione è
passato da 3,7 nel 1971 a 4,0 nel 1981.
Le abitazioni occupate sono risultate 17.509.058 per 71.465.194 stanze,
con aumenti rispetto al 1971 del 14,4% per le abitazioni e del 27,1%
per le stanze.
Pertanto l'indice di affollamento, ottenuto come rapporto fra il numero
dei componenti delle famiglie e il numero delle stanze, è risultato
pari a 0,8 nel 1981 contro 1,0 nel 1971: elemento questo che evidenzia
un miglioramento delle condizioni abitative medie della popolazione
italiana. Anche il numero delle abitazioni non occupate ha subito un
incremento notevolissimo: rispetto al 1971 è stato registrato
un aumento del 103,7%. E' importante sottolineare comunque che le abitazioni
non occupate si concentrano per la maggior parte, nei piccoli Comuni.
Soltanto il 15,4% di tali abitazioni è situato nel Comuni capoluoghi.
Questo dato conferma che la quota più rilevante di questo stock
di abitazioni è costituito dalle "seconde case" utilizzate
per le vacanze.
Il numero degli "altri tipi di alloggio" (si definiscono in
questo modo i locali che, pur non essendo funzionalmente destinati ad
abitazione, alla data del censimento risultavano occupati da una o più
famiglie residenti) è risultato pari a 95.930 con una evidente
concentrazione nelle zone terremotate, mentre nelle altre aree si registra
un calo rispetto alla situazione del 1971.
Tra le regioni del Meridione, quella in cui si è registrato un
maggiore incremento del numero di abitazioni, rispetto al 1971, è
la Sicilia, seguita dalla Puglia. L'incremento minimo, invece, è
stato registrato nel Molise. Queste osservazioni riguardano i dati delle
abitazioni in generale. Vediamo cosa accade se consideriamo le abitazioni
occupate, cioè se escludiamo quelle considerate "case per
le vacanze o seconde case". Sono sempre la Sicilia e la Puglia
le regioni del Meridione in cui, rispetto al 1971, è aumentato
il numero delle abitazioni occupate; così come è sempre
il Molise la regione in cui tale aumento risulta avere il valore più
basso.
PUGLIA
Primi risultati
provinciali sulla popolazione e sulle abitazioni.
In Puglia risultano residenti 3.849.598 persone, di cui 1.884.202 maschi
e 1.965.396 femmine: la popolazione femminile supera quella maschile
di 81.194 unità. Le persone realmente presenti sono invece 3.800.627.
All'esame di questi dati, appare evidente che in Puglia, come in tutte
le altre regioni del Mezzogiorno, è ancora molto diffuso il fenomeno
dell'emigrazione. Tra la popolazione residente e la popolazione presente
esiste infatti uno scarto di 48.971 unità.
Confrontiamo questo dato con i risultati del censimento 1971. Dieci
anni prima risultarono residenti 3.582.787 persone, mentre le presenti
furono 3.498.932: lo scarto fra residenti e presenti risultò
dunque pari a 83.855 persone. Ciò dimostra che l'emigrazione
al Nord d'Italia o all'estero è, in Puglia, un fenomeno in netto
declino.
La situazione "popolazione residente-popolazione presente",
considerata provincia per provincia, è esposta nella Tab. 19.
Essa mostra come, fra le cinque provincie pugliesi, Lecce sia tuttora
la provincia più colpita dall'emigrazione: lo scarto fra persone
residenti e persone presenti è pari a 17.687 unità, che
rappresentano il 36% della differenza tra popolazione residente e popolazione
presente nell'intera regione. Taranto è invece l'unica provincia
della Puglia a non essere interessata al fenomeno, o ad esserlo in modo
quasi marginale: tra le persone residenti e quelle presenti c'è
infatti uno scarto di appena 919 unità. Seguono Taranto, in ordine
crescente, Brindisi, Bari e Foggia.
Un altro dato molto interessante riguarda l'età media della popolazione
pugliese. La Puglia risulta infatti, insieme alla Campania, la regione
più giovane: solo il 14,2% della popolazione è composta
da persone che hanno superato i sessant'anni. Se, con riguardo alle
medie nazionali, l'Italia si colloca all'incirca a metà strada
rispetto ai valori constatati in altri Paesi europei per l'incidenza
della popolazione anziana su quella totale, la situazione all'interno
del nostro Paese presenta invece una notevole differenziazione tra regioni
con percentuali superiori a quelle europee, (Liguria, Friuli-Venezia
Giulia) e regioni nelle quali l'incidenza è notevolmente più
bassa.
Famiglie
In Puglia è stato registrato un numero di famiglie pari 1.141.358,
con un totale di componenti pari a 3.830.120 persone. Il numero medio
di componenti per famiglia è pari a 3,35 unità: una media,
come abbiamo già sottolineato, molto alta rispetto a quella nazionale.
Nel 1971 le famiglie pugliesi erano 962.288, con 3.553.646 componenti
e un numero medio di componenti per famiglia pari a 3,7. Dopo il censimento
1981, la situazione in Puglia si può rilevare, provincia per
provincia, dalla Tab. 20. I dati evidenziati permettono di concludere
che i componenti formanti delle convivenze in Puglia raggiungono un
totale di 19.478 unità: nel 1971 erano 29.141 unità.
Patrimonio edilizio
In Puglia sono state registrate 1.422.405 abitazioni, per un totale
di 5.064.821 stanze. Di queste abitazioni, 1.083.642 sono regolarmente
occupate.
Nel 1971 le unità abitative erano 1.060.273, di cui 923.018 occupate.
Nel complesso, si è quindi verificato nella regione un notevole
incremento del patrimonio edilizio, pari a 362.132 unità abitative.
Va rilevato tuttavia che, mentre nel 1971 risultavano occupate l'87,05%
delle abitazioni esistenti, nel 1981 risulta occupato soltanto il 76,18%
dell'intero patrimonio edilizio. Possiamo quindi affermare che l'incremento
del patrimonio abitativo riguarda maggiormente alloggi non destinati
a residenza abituale. Provincia per provincia, la situazione del patrimonio
edilizio pugliese è riassunta nella Tab. 21.
MODERNO VUOL DIRE
COMPLESSO
15 anni della
società italiana nell'analisi del Censis.
"Economia sommersa", "localismo", "sviluppo
molecolare": sono termini ormai ricorrenti nel dibattito sulla
situazione economico-sociale italiana. E' li sintomo più elementare,
ma anche il più significativo, dell'importanza che ha avuto in
questi anni l'analisi fatta dal Censis (Centro Studi Investimenti Sociali),
che questi termini ha "inventato" ed imposto al linguaggio
degli addetti ai lavori. L'occasione per valutare la ricchezza delle
indagini Censis è offerta dalla pubblicazione de "Gli anni
del cambiamento", un'antologia del 15 Rapporti che, dal '67 all'81,
il centro di ricerca ha dedicato annualmente alla situazione del Paese.
Ne emerge un'attenzione insistente, quasi ossessiva, ed orgogliosamente
rivendicata, al "fenomeno", al "fatto concreto",
alla "realtà così come è"; e insieme,
la denuncia dei limiti di gran parte della cultura economicopolitica
corrente, secondo il Censis viziata di ideologismo di vari segni, e
dunque incapace di guardare ai fatti senza distorcerli attraverso lenti
di vario colore.
In effetti il Censis si è trovato spesso controcorrente, a proporre-come
vedremo più avanti-letture originali, quasi provocatorie, della
società italiana. L'ultimo, recentissimo esempio si è
avuto nel novembre dell'82, ai tempi della crisi di governo: mentre
da più parti ci si esercitava in una specie di tiro al bersaglio
contro la spesa sociale italiana, giudicata abnorme, il Censis se n'è
uscito con una serie di dati per dimostrare che in Italia per la protezione
sociale si spende assai meno che in molti altri Paesi europei. Dunque,
una vera e propria vocazione al ruolo di "bastian contrario",
che è però garanzia di analisi comunque stimolanti.
Un ultimo. elemento da sottolineare-prima di passare all'esame delle
4 fasi in cui si articola il quindicennio Censis-riguarda la notevole
attualità di molte delle osservazioni contenute nel Rapporti,
anche in quelli meno recenti. Segno della bontà delle analisi,
certo, ma anche del ritardo con cui la classe dirigente italiana ha
preso atto dei mutamenti avvenuti nella società a partire dalla
fine degli anni '60 e della necessità di risposte nuove ed adeguate.
1) 1967-1971:
L'autocoscienza della società
Il Rapporto Censis nasce con l'intento dichiarato di "fornire alla
società uno strumento di autocoscienza". La motivazione
è in parte figlia della cultura della programmazione, dominante
alla metà degli anni '60, ma con questa madre il Censis romperà
i rapporti quasi subito. Più determinante è invece la
convinzione che nel '67 per la società italiana stia iniziando
una fase nuova: superato lo stadio delle grandi problematiche sociali
del dopoguerra, drammatiche ma facili da capire (ad esempio, le occupazioni
di terra, la disoccupazione di massa, l'analfabetismo), si entra in
un periodo più complesso, e dunque più moderno. Il Censis
respinge però subito l'accusa di "eccessivo ottimismo",
sottolineando che la crescente complessità sociale richiede schemi
nuovi di analisi, un bagaglio culturale e politico che in Italia pochi
soggetti sembrano possedere. In effetti, nei Rapporti Censis è
difficile trovare un'esaltazione acritica dei nuovi fenomeni: li si
giudica avanzati, certo, ma anche ambigui, e dunque aperti ad esiti
diversi. Così le tensioni della società italiana alla
fine degli anni '60 hanno una faccia positiva (mobilità professionale
e sociale, crescita del reddito, aumento dei consumi, aumento dei livelli
di istruzione) ed una negativa (emigrazione, esclusione dai nuovi benefici
di ampi strati di popolazione, consumismo, crescente marginalizzazione
di giovani borghesi, donne, anziani); anche a livello collettivo, la
lotta sindacale ha effetti positivi ma al tempo stesso aggrava il particolarismo
ed il corporativismo. Se ottimismo c'è nella analisi Censis,
a nostro avviso esso è individuabile in profondità, nel
significato che alle tensioni ed ai conflitti viene dato: "il conflitto
è speculare al pluralismo di ogni società moderna",
e quindi il carattere conflittuale dello sviluppo italiano di quegli
anni, "pur se talvolta dolorifico, è da considerarsi profondamente
positivo" (dal Rapporto 1969).
L'accettazione delle tensioni e dei conflitti come dimensioni fisiologiche
dello sviluppo segna la svolta fondamentale nella cultura del Censis.
Si prende atto che "la società civile è sempre più
consapevole della forza insita nei meccanismi che la regolano",
si tagliano i ponti con la cultura della programmazione (e con la connessa
ricerca dì un "dover essere" della società),
e ci si orienta verso un'atteggiamento più induttivo, attento
ai fenomeni reali e quotidiani.
E questo nuovo orientamento che fa cogliere la "fine di un ciclo"
della società italiana: hanno perso incidenza alcuni processi
di fondo del precedente periodo di sviluppo (tasso di attività,
mobilità territoriale, mobilità dall'agricoltura all'industria,
scolarizzazione, urbanizzazione); sono in crisi, a livello politico,
la spinta delle riforme, la programmazione, il ruolo di intervento attivo
dello Stato. Dunque, è finito il tempo dei rapidi cambiamenti
e delle radicali trasformazioni, e si dimostra illusoria l'idea di rettilinee
evoluzioni e programmazioni dello sviluppo italiano: "la società
italiana comincia ad andare per proprio conto", ed il Censis dietro,
a tallonarla. Ma tra i temi di questa prima fase uno almeno va accennato,
a riprova dell'attualità di molte osservazioni: la ripetuta richiesta
fatta allo Stato perchè ripensi la sua attività di spesa
a fini sociali, sulla quale già dal '67 il Censis esprime perplessità.
2) 1972-1977.
"L'Italia è sommersa": gli anni dell'adattamento
E' soprattutto ai rapporti di questa fase che il Censis deve la sua
notorietà. Alla scoperta dell'economia sommersa i ricercatori
arrivano interrogandosi sui motivi dell'inattesa capacità di
tenuta del sistema italiano, pur investito da una crisi economica e
sociale molto profonda, almeno a stare ai dati più evidenti.
Trovano così un'Italia "quotidiana e ordinaria", un'economia
sommersa, una seconda società, che resiste alla crisi attraverso
un meccanismo di appiattimento sugli interessi e sui comportamenti quotidiani".
Si comincia a parlare allora di "assestamento precario" elasticità
nella precarietà, economia "non istituzionale", società
interstiziale", "miracolo rasoterra", "galleggiamento":
molte facce di uno stesso meccanismo vitale, l'adattamento alla crisi.
Già il Rapporto del '72 (forse il più importante dal '67
a oggi) indica i fenomeni tipici di questa fase:
- l'aumento della "quota di occupazione non istituzionale"
(lavoro occulto, precario, parziale);
- lo sviluppo del terziario al livello della piccola imprenditoria,
persino familiare;
- il decentramento
industriale, che favorisce un recupero di elasticità delle imprese;
- il carattere sempre più "composito e familiare del meccanismo
di formazione del reddito".
Sul tasto dell'economia sommersa il Censis continua a battere con insistenza
negli anni successivi, convinto che questi fenomeni non siano una parentesi
congiunturale, ma esprimano una trasformazione profonda e duratura in
atto nella società italiana. I suoi ricercatori si guadagnano
così la scomoda etichetta di "filosofi del disordine",
sostenitori acritici del sommerso. Un'accusa che il Censis non manda
giù, e che in effetti non sembra meritare, visto che dal '72
al '77 di aspetti negativi dell'economia sommersa ne evidenzia più
d'uno:
- il pericolo che la parcellizzazione delle aziende faccia trascurare
la necessità di strategie di evoluzione complessiva;
- il pericolo di una pressione corporativa sullo Stato da parte di soggetti
tesi ad ottenere solo il proprio tornaconto;
- il pericolo che cresca una "società ad alta soggettività",
individualistica, lontana da ogni impegno collettivo;
- il pericolo che questi fenomeni conducano ad una "crisi di governabilità
del sistema".
Le nostre critiche, però - dice il Censis - partivano dalla consapevolezza
che il sommerso era una delle due facce della realtà, e bisognava
analizzarlo se si voleva comprendere la complessità della società
italiana.
Non ci si poteva limitare - questo il rimprovero che Censis muove ai
suoi critici - ad esorcizzare e condannare moralisticamente l'economia
sommersa, come fenomeno occasionale e patologico, in nome di un diverso
modello di sviluppo (fondato sull'aumento delle dimensioni aziendali,
sulla crescita degli interventi collettivi, sulla programmazione, sul
primato della politica rispetto alla società civile): un modello
di sviluppo forse teoricamente più lineare e soddisfacente, ma
del tutto estraneo alla concreta realtà italiana. Lo sviluppo
del Paese non aspetta la benedizione dei programmatori: negli anni '70
- afferma il Censis - il cambiamento è in atto ogni giorno, e
procede più per evoluzione spontanea che secondo un progetto
razionale. Come agire su un sistema divenuto così complesso?
"Occorre gestirlo ed innovarlo al tempo stesso, conoscendo e rispettando
i valori-obiettivo che in esso sono consolidati, ed inserendovi quelle
invenzioni del nuovo che sono già nelle aspettative del sistema
stesso", perchè esso "non sopporta nè di essere
tutelato, nè di essere posseduto, ma orientato": lo sviluppo
"non può che essere frutto insieme di evoluzione e progetto".
Il secondo ciclo di riflessione si chiude quindi con l'idea dello "sviluppo
molecolare", ad indicare la grande quantità e varietà
dei soggetti e dei comportamenti economico-sociali che ad esso concorrono.
Una lettura, di andar oltre il sommerso ed il semplice adattamento alla
crisi; ma nemmeno ansioso, perchè c'è coscienza delle
proprie capacità di adattamento e di sviluppo. L'Italia che esce
dagli anni '70 - nell'immagine del Censis - è certo un Paese
che ha dei problemi di fronte: ma si tratta di sfide tipiche di una
società avanzata, non in regressione verso il Terzo Mondo.
3) Società
e istituzioni: "questo matrimonio s'ha da fare, e presto"
L'ultimo capitolo dell'"autoanalisi" Censis è dedicato
non ad un periodo, ma ad un tema. Una delle tante critiche che l'istituto
di ricerca si è tirato addosso in questi anni riguarda la sua
presunta estraneità, ed anzi ostilità, alle questioni
della politica, in nome di una supremazia di valore della società
civile.
Ma anche questa accusa il Censis la respinge seccamente, ricordando
di aver sottolineato, proprio negli stessi anni in cui scopriva il sommerso,
i problemi derivanti dall'"incapacità di riformare i nodi
e le forme di organizzazione esistenti". Il Censis indica già
nella prima metà degli anni '70 - ed il suggerimento non ha perso
validità - la necessità di ripensare la funzione della
politica in aderenza ad un "sistema a variabili questa, che viene
proposta in chiara polemica contro la "cultura dell'emergenza"
(in auge intorno al '77), secondo il Censis viziata di catastrofismo
proprio perchè incapace di guardare seriamente, senza moralismi,
ai fenomeni del sommerso. La società che esce dal ciclo '72-'77
- dice il centro di ricerca - ha fatto un grosso passo avanti, in termini
di consistenza economica, sociale e civile.
4) 1978-1981.
Dai "fili d'erba" al "cespuglio": la scoperta della
solidità.
Finito un ciclo, si pone alla società italiana il compito di
prendere coscienza dei mutamenti avvenuti, per sviluppare le potenzialità
espresse: c'è il rischio, altrimenti, di regredire in un affannoso
spontaneismo. Questo riconoscimento collettivo-secondo il Censis-avviene
nel "drammatico '78" (l'anno del delitto Moro e delle dimissioni
di Leone). Nel momento della prova più dura, la società
dimostra di non essere fragile e frammentaria come teme chi ha esorcizzato
il sommerso: essa sfodera anzi la capacità di "ordinare
le cose e le responsabilità quotidiane", una moralità
di fondo, un alto livello di maturazione complessiva. Ne nasce un senso
di solidità: la società acquista consapevolezza che negli
anni precedenti si è avviato un meccanismo di "sviluppo
per evoluzione" che rappresenta la "via italiana" ad
un progresso di stampo occidentale, segnato cioè dal pluralismo
dei soggetti e dei comportamenti.
Con il '78, quindi, il Rapporto Censis passa dalle tematiche del sommerso
e del galleggiamento alla messa a fuoco dei meccanismi che alimentano
lo "sviluppo per evoluzione":
- l'accentuata vitalità della piccola e media impresa, l'importanza
crescente del lavoro non istituzionale, il carattere composito del reddito
familiare, il dinamismo dei consumi;
- la vitalità delle realtà locali (anche in certe zone
del Mezzogiorno), che compongono un sistema economico-sociale ad "arcipelago",
articolato e policentrico;
- l'"alta soggettualità" del nostro sviluppo (derivante
dal pluralismo dei soggetti attivi), che tende a riprodursi anche attraverso
l'affermazione di nuove classi di imprenditori.
A partire da questi elementi, i ricercatori del Censis individuano in
questi anni l'inizio di una maturazione dell'economia e della società
italiana: dalla fase dei "fili d'erba" (piccole imprese, famiglie,
ecc., che crescono in modo indifferenziato e inassociato) si sta passando
alla fase del "cespuglio", caratterizzata da più complessi
intrecci tra i soggetti. Al tempo stesso, anche lo "stato d'animo"
della società si fa più adulto: non tranquillo, certo,
perchè si avverte la crisi economica internazionale, lo scricchiolio
di alcune strutture ed istituzioni nazionali, la necessità multiple",
quale è ormai la società italiana. Bisogna cioè
tener presente che:
- a promuovere la dinamica sociale non è più soltanto
lo Stato, ma una molteplicità di soggetti;
- una società che si sviluppa "per evoluzione più
che per progetto generale dello Stato" va gestita e innovata rispettando
i valori-obiettivo in essa consolidati;
- non si può dunque continuare a concepire la politica come "sistema
nervoso centrale della società": chi pensa ancora che sia
sufficiente controllare la "stanza dei bottoni" conterà
sempre di meno.
Anche la dimensione istituzionale trova costante attenzione: nei Rapporti
degli ultimi anni si parla di corrosione e deperimento delle istituzioni,
di divaricazione tra vitalità sociale e crisi dei più
importanti strumenti di governo. Una crisi che nasce da fattori sociali
(individui e gruppi hanno scaricato sull'intervento pubblico i costi
e le difficoltà dello sviluppo, strumentalizzando tale intervento
a fini clientelari e corporativi), ma anche dai ritardi culturali della
nostra classe dirigente, incapace di sviluppare una nuova logica di
governo adatta una società complessa. Le vie che il Censis indica
per stabilire di nuovo l'indispensabile collegamento tra società
e istituzioni sono tre:
- una valutazione meno negativa della molteplicità dei soggetti
e dei comportamenti, certamente rischiosa ma anche ricca;
- il rilancio dei soggetti intermedi (partiti, sindacati, associazioni),
da anni incapaci di fare da raccordo tra soggetti elementari (individui,
famiglie, comunità locali, ecc.) e istituzioni;
- il rinnovamento delle istituzioni, che deve puntare al l'al leggeri
mento ed alla scomposizione del l'apparato burocratico.
Dunque, dice il Censis, non siamo mal stati "antistatalisti",
ma abbiamo sottolineato il bisogno di uno Stato diversamente concepito.
Anche in questo ambito dell'indagine, il richiamo è il solito:
capire la complessità. Ci pare questo, al di là delle
singole "scoperte" fatte in un quindicennio, il contributo
più fecondo che dal Censis è venuto alla conoscenza della
società italiana.
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