§ LE INCHIESTE

RAPPORTO CENSIS




Roberto Natale, Rita Piccolini



Nella storia dei Rapporti Censis, il 1982 sarà ricordato come l'anno della Grande Spugna. E' l'immagine scelta dai ricercatori per rappresentare l'"anima" della società italiana, la sfera dei suoi umori e meccanismi più profondi, scandagliata nell'anno che ha visto esplodere, proprio in seno al corpo sociale, fenomeni di eccezionale gravità (mafia, camorra, logge segrete, criminalità negli affari). La spugna sta appunto ad indicare la diversità degli umori che la società ha assorbito negli anni, smorzando le potenzialità di quelli più innovativi, ma anche attutendo gli effetti di quelli negativi e meno limpidi. Torna dunque l'immagine - cara al Censis - di una società complessa ed ambigua; e torna: la richiesta rivolta alla classe dirigente italiana, perchè prenda finalmente in seria considerazione questa anima nazionale, anche in quelle caratteristiche solitamente giudicate poco "nobili", senza esorcizzare quanto c'è di sommerso, particolaristico, apparentemente immorale. "Solo riaffondando le radici nell'anima della società, le istituzioni possono sfuggire al pericolo già attuale di restare strutture di maschera": se continua ad essere rimossa nei progetti dei vertici, la società rischia di vendicarsi precipitando in una sorta di nuovo disordine originario, privo di regole e di schemi. Solo gestendo le silenzionse innovazioni in corso, si può arrivare ad una saldatura tra popolo e potere istituzionale, vero punto di arrivo della questione nazionale italiana.

REALTA' E PROBLEMI SOCIALI DEL 1982

Si potrebbero fare considerazioni di segno opposto sulla situazione economica italiana, a seconda degli indicatori scelti. All'ottimismo inducono la tenuta della domanda interna e della bilancia dei conti con l'estero, l'aumento del turismo e la consistenza delle fasce di reddito alto; chiaramente negativi sono invece il deficit pubblico, il livello di inflazione, il calo di competitività sul mercati esteri. L'intreccio è complesso e contraddittorio, e in esso sembra di cogliere la tendenza ad un riaggiustamento complessivo della nostra economia: un processo che sta però avvenendo in ordine sparso, perchè le manovre di politica economica si mostrano incapaci di impostarlo e gestirlo.

1) L'economia reale: una "solidità inquieta"

Il sistema economico italiano ha attraversato nell'82 una fase di "solidità inquieta": l'incertezza che viene dai costi del riaggiustamento (ad es. in campo industriale) è stata vissuta senza eccessivi drammi, grazie alla crescita realizzata nel decennio scorso e al senso di solidità che essa ha determinato. L'ambivalenza della fase è evidenziata dall'esame di 4 grossi settori:

a) La grande impresa
Bisogna distinguere tra impresa pubblica e privata: la prima rimane in una situazione pesantemente critica (aggrava le sue perdite, è incapace di autofinanziarsi, ha più dipendenti del necessario); la seconda invece sta ridefinendo strategie e organizzazione, e così torna a gestire il fattore lavoro (in termini di mobilità e di controllo dei salari), incrementa fatturato ed esportazioni, recupera la capacità di autofinanziamento. La grande impresa privata, insomma, sa rispondere in termini di specializzazione e di qualificazione ai mutamenti di scenario. Si continua però ad avvertire la mancanza di buone leggi in materia di politica industriale, cosicchè la cassa integrazione rischia di essere l'unico strumento di razionalizzazione, coi costi che è facile capire.

b) Le economie locali
Anche questo "tessuto connettivo" dell'economia italiana ha registrato, nel primo semestre '82, un contenimento di produzione e fatturato, sopportato tuttavia senza traumi drammatici. Si sta comunque attraversando una fase cruciale: bisogna introdurre e produrre nuove tecnologie, aumentare la produttività e la mobilità del lavoro. Tutti processi che incidono profondamente sul tessuto industriale: non a caso le ore di cassa integrazione autorizzate nell'industria, nei primi 7 mesi dell'82, superano del 14,6% quelle dello stesso periodo dell'81 (un valore ancora superiore a tale aumento si registra in Puglia, dove l'incremento è stato del 26,9%). E' una risposta assistenzialistica che va contenuta, per evitare una frattura fra imprese aperte all'innovazione e altre inclini all'assistenzialismo.

c) Il Mezzogiorno malgrado Bagnoli
Anche al Sud la situazione è ambivalente: da un lato silenziosi fenomeni di ulteriore spinta di iniziativa (in tutta la fascia adriatica ma anche in zone campane), dall'altro un gravissimo "caso Bagnoli". Il processo di duro riaggiustamento in atto presenta elementi preoccupanti:
- l'andamento positivo è limitato ai settori industriali di base (chimica, meccanica, siderugia), i cui effetti propulsivi si sono però diradati e ancor più prospettano di farlo, a causa della riorganizzazione produttiva nelle zone forti del Paese e della concorrenza dei nuovi Paesi industrializzati;
- nei settori manifatturieri "leggeri" (alimentari, tessile, abbigliamento, pelli) tipici di alcune aree meridionali, c'è una produttività insufficiente; - gli investimenti industriali sono in netto calo da quasi un decennio (se 100 era il dato del 1973, quello dell'81 è stato 59,7), mentre assai migliore è la situazione del Centro-Nord;
- le ore di cassa integrazione tra l'80 e l'81 sono cresciute del 29,2%, in maniera pressochè generalizzata nelle varie Regioni.
Problemi, dunque, ce ne sono e grossi; ma è anche vero che la struttura produttiva meridionale presenta un'articolazione e una solidità impensabili dieci Anni fa:
- gli impianti industriali di base sono più moderni e competitivi di quelli del Nord;
- è emersa un'imprenditorialità meridionale capace di misurarsi *su mercati ampi, e molto diffusa (soprattutto al livello delle piccole e medie imprese);
- il ricorso meridionale alla cassa integrazione è pur sempre di gran lunga inferiore a quello delle imprese centro-settentrionali.
Il Sud non è dunque sull'orlo di una regressione nel sottosviluppo, perchè gli anni '70 hanno lasciato una solidità di fondo:
- il tasso medio annuo di incremento del prodotto interno lordo è stato nel Meridione più elevato che nel Centro-Nord, sia prima che dopo il 1973 (l'anno dello shock petrolifero): +4,4 (contro il +3,8) nel periodo 1971-73 e + 2,5 (contro il + 2,4) nel 1974-81;
- il tasso di accumulazione è stato anch'esso più elevato nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese: +27,7 (contro 4-18,0) nel 1971-73 e + 25,1 (contro + 18,2) nel 1974-81;
- anche l'aumento medio annuo del prodotto dell'industria manifatturiera è stato maggiore al Sud (+ 4,2 contro il + 3,2 del Centro-Nord);
- gli occupati nell'industria di trasformazione crescono nel Sud (dal 50,5 per mille abitanti del 1970 al 53,7 del 1981) e ancor più nelle regioni adriatiche (in Puglia si passa dal 55,7 al 61,9), mentre nel Centro-Nord sono in costante calo da un decennio (da 130,5 nel 1970 a 123,0 nel 1981).
In conclusione, si può dire che il Sud non si presenta in cedimento rispetto al complessi problemi del suo riaggiustamento ed ulteriore sviluppo.

d) Una nuova agricoltura
Anche questo settore è oggi aperto all'innovazione: fa ricerca, applica nuove tecnologie. Fondamentale è stata l'evoluzione dell'imprenditore agricolo, spesso trasformatosi in un vero e proprio "manager", attento al mercato e alle nuove tecniche di gestione.
Anche il nuovo assetto della proprietà (la diffusione delle piccole-medie aziende a scapito delle piccolissime) favorisce nuovi fermenti. L'Italia Meridionale può essere inclusa a buon diritto in questo capitolo: anche al Sud ci sono condizioni e potenzialità strutturali per iniziare un nuovo discorso agricolo (sta calando l'età media dell'agricoltore e si diffonde una concezione imprenditoriale dell'attività).

2) La crisi delle istituzioni

Se nell'economia è in atto un processo di riaggiustamento, come si comportano le istituzioni? Continuano a "volare alto" sui processi reali: le manovre economiche non incidono sulla realtà, e anzi accentuano l'isolamento dell'azione pubblica, che si sta sfaldando anche ai livelli più elementari.

a) L'"avvitamento" della funzione pubblica
Molti sono gli indicatori di una caduta degli apparati pubblici:
- la dilatazione dell'occupazione pubblica, vero ammortizzatore sociale: non a caso il 73% del dipendenti di Ministeri e Aziende Autonome viene dal Sud;
- il rapido e costante calo della produttività;
- la cristallizzazione e l'invecchiamento della dirigenza.
Oggi quella del dipendente pubblico è una vera posizione di rendita.

b) La crisi delle tradizionali reti di servizi
Acquedotti e fogne, sistemi di smaltimento del rifiuti e di depurazione, reti elettriche e trasporti, presentano indubbiamente nel Sud le carenze più vistose: va però segnalato il caso della Puglia che, ad eccezione della rete idrica, vanta infrastrutture di qualità settentrionale.

c) La perdita di funzione della spesa pubblica
Altro campanello di allarme è la tendenza regressiva della spesa pubblica. Dal 1973 all'81 le spese per l'autoalimentazione dell'apparato hanno superato la quota destinata agli interventi in campo economico, ed hanno anche cominciato ad erodere le risorse per gli interventi sociali.

3) Si rimescola il dualismo Nord-Sud

La crisi delle istituzioni lascia maggior spazio ai comportamenti individuali e collettivi: quando sono meno influenti le regole dettate dallo Stato, i vari soggetti sviluppano una forte tendenza a fare da soli, col rischio però di un degrado complessivo del tessuto sociale. Assistiamo così ad un riIancio di ruoli e comportamenti specifici, sia nel lavoro (vedi la nuova fortuna delle esigenze di professionalità e merito) che nella vita privata (con il ritorno a forme più tradizionali di famiglia).

Ma - ciò che più ci interessa - questa progressiva liberazione dei comportamenti riguarda non solo gli individui, ma anche le realtà territoriali: i Comuni piccoli e piccolissimi, tradizionalmente esclusi dai circuiti dello sviluppo, mostrano da qualche anno la tendenza ad elevati tassi di crescita demografica ed economica. Ne risulta toccato anche il tradizionale dualismo Nord-Sud: non ha più senso misurare il divario fra le due grandi aree in termini aggregati, poichè c'è una forte disparità tra Regioni e all'interno delle Regioni stesse. Anche nel Mezzogiorno sono stati i comportamenti del soggetti semplici (imprese, famiglie, ecc.) ad arricchire e vitalizzare il modello degli Anni '60 (l'industrializzazione forzata), adeguandolo alla situazione del Sud. Cosicchè bisogna parlare di una mappa a "pelle di leopardo": i Comuni "canguro" (vedi tab.1), quelli cioè che hanno compiuto il salto in termini d'i produzione e di reddito, sono disseminati con maggiore o minore intensità in tutte le regioni e intersecano tutte le fasce demografiche.
Altrettanto, come si è visto, vale per le altre tipologie: hanno dunque più rilievo le singole tessere (i Comuni) rispetto al mosaico complessivo (provinciale o regionale). Di questa nuova configurazione, d'ora in poi, l'intervento pubblico dovrà assolutamente tener conto, dando aiuti "mirati".
Collimano con questi dati anche le indicazioni fornite da un'indagine svolta tra i quadri dirigenti meridionali: a loro giudizio, la crescita del Sud negli ultimi dieci anni è dovuta in misura abbastanza marginale (28,9%) allo sviluppo socio-economico dei capoluoghi e delle tradizionali città-guida.


Anche le indicazioni che dai quadri vengono su "cosa è necessario per sostenere lo sviluppo" confermano il favore accordato a un modello di crescita che coinvolga molti piccoli punti del territorio: significativo il netto rifiuto del grande polo industriale (tab. 2).

I SETTORI DI INTERVENTO SOCIALE
A) IL MERCATO DEL LAVORO
(Luglio 1981 - Luglio 1982)

1) L'evoluzione delle forze di lavoro
A livello nazionale si confermano i segni di un graduale deterioramento degli equilibri (tab.3). Il moderato aumento finale delle forze di lavoro combina una riduzione degli occupati ed una crescita delle persone in cerca di prima occupazione.
Tra gli occupati, continuano a calare gli addetti all'industria e all'agricoltura, mentre l'espansione del terziario (che si conferma come la principale direttrice di evoluzione, assorbendo ormai più della metà degli occupati) non compensa la somma delle riduzioni degli altri due settori. L'aumento delle forze inoccupate deriva, contrariamente a quanto avvenuto l'anno scorso, dalla crescita dei disoccupati e delle persone in cerca di prima occupazione; cala invece la componente formata dalle "altre persone in cerca di lavoro" (cioè le persone che, pur non identificandosi in una condizione professionale, cercano lavoro).
Se questo è il quadro d'assieme nazionale, abbastanza distinte sono le due immagini (Centro-Nord e Mezzogiorno) che concorrono a formarlo:


- forze di lavoro: nel Centro-Nord restano stazionarie; nel Sud crescono in maniera apprezzabile;
- occupazione: nel Centro-Nord cala, nel Meridione resta stabile (anche se soltanto grazie all'espansione del terziario);
- inoccupazione: pur aumentando in entrambe le aree, al Sud cresce in misura più consistente, esclusivamente a causa della componente dei disoccupati, che sale ben più che nel Centro-Nord.
In sintesi, mentre nell'Italia Centro-Settentrionale la situazione appare alquanto stazionaria, nel Mezzogiorno il quadro risulta più mosso e condensa un maggior numero di punti critici: soprattutto segnala un deterioramento rispetto all'evoluzione dell'anno precedente (in cui, se l'occupazione si era ridotta del 1,6%, l'inoccupazione era cresciuta soltanto del 1,4%).

2) Lavoro femminile
Questa componente ha presentato, nell'anno in esame, variazioni abbastanza significative rispetto all'andamento generale:
- l'offerta di lavoro femminile è aumentata più di quella complessiva, e ammonta ora al 34,1% del totale delle forze di lavoro;
- invertendo l'andamento dell'anno precedente, l'incremento dell'offerta femminile è dovuto per intero alla componente occupata (che cala in agricoltura, ma resta stabile nell'industria e cresce nel terziario): così l'occupazione femminile raggiunge ora il 31,9% dell'occupazione globale;
- l'inoccupazione femminile resta stabile: il saldo nullo deriva però dal calo della "non occupazione non dichiarata" (tradizionale "regno" delle donne) e dall'aumento delle donne alla ricerca di prima occupazione, che hanno superato ormai la metà della componente inoccupata.

3) La modularizzazione del lavoro
Come l'anno precedente, alla crisi occupazionale sono molto esposti sia il doppio lavoro (90 mila unità in meno, -8,2%) sia il part-time (42 mila addetti in meno, -3,3%). Da notare però che il doppio lavoro cala esclusivamente tra i dipendenti, mentre si accresce tra i lavoratori indipendenti.

B) EDILIZIA ABITATIVA

Dopo dieci anni di "grande abbuffata" edilizia (evidenziata dai dati del censimento), la temuta crisi sta arrivando sul serio, sia per generali andamenti negativi dell'economia e della finanza sia per una certa saturazione della domanda. Per superare tale crisi pagando il prezzo minimo è necessario:
- aumentare la "produttività economica" dell'apparato pubblico a tutti i livelli, in modo che le risorse non vengano falcidiate da ritardi e ostacoli ingiustificati (un solo esempio: le lentezze di molte Regioni meridionali, ad eccezione della Puglia, nella spesa per l'edilizia sovvenzionata);
- aumentare la "produttività sociale" dell'edilizia pubblica, prevedendo forme specifiche di sostegno per le aree di povertà abitativa;
- coordinare le diverse leve che possono incidere sulla politica abitativa (in particolare la leva fiscale) e raccordare i diversi soggetti istituzionali, per evitare sovrapposizioni di ruoli;
- rivedere le modalità di intervento del risparmio familiare, che ha ormai esaurito la propria spinta per l'investimento diretto, ma è disponibile per l'investimento indiretto (nel cosiddetti "titoli atipici");
- rafforzare il sostegno offerto al sistema bancario, che si è ulteriormente indebolito. Tra le varie distorsioni del sistema del credito fondiario, interessa qui sottolineare la notevole disuguaglianza nella distribuzione territoriale delle erogazioni, che penalizza il Meridione (tab. 4).
Questo squilibrio permane anche relativizzando l'ammontare del credito concesso in rapporto alla popolazione residente (tab. 5). Le minori erogazioni al Sud non sono giustificabili alla luce di una più contenuta attività edilizia: si può quindi dire che essa si è sostanzialmente autofinanziata.

C) AUTONOMIE LOCALI .

In generale, si deve registrare una caduta di tensione politica sul problema di un definitivo dispiegamento dell'assetto autonomistico: è la Grande Riforma, quella riguardante i meccanismi "alti dello Stato, a focalizzare l'attenzione. D'altro canto, ai governi locali (in specie alle Regioni) va imputato un ritardo ancora grave nella capacità programmatoria.
Passiamo ora ad un esame dei diversi livelli:

a) Regioni
- Producono (soprattutto al Nord) una gran quantità di leggi, ma i risultati sembrano suggerire ancora settorialità, poca chiarezza, dispersione;
- si è arrestata nel 1981 la crescita del personale. Il rapporto tra popolazione e dipendenti è però diverso scendendo da Nord a Sud: nel Mezzogiorno c'è un vero rigonfiamento assistenzialistico delle strutture;
- sul piano finanziario, il 1981 ha portato un cospicuo rallentamento della crescita dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni (+ 21,8% contro il + 42,3% dell'intervallo 1979-80); migliora inoltre la capacità di spesa, anche se rimangono vistosi divari tra Regioni nella spesa pro capite (divari che però non penalizzano in maniera particolare il Sud);
- in politica economica non esiste ancora una vera programmazione, specie al Sud (quattro regioni meridionali, tra cui la Puglia, sono prive del Piano Regionale di Sviluppo);
- infine, lo Stato sembra volersi riappropriare di alcuni poteri di iniziativa e controllo nei confronti delle Regioni.

b) Province
- sono in una fase di transizione, avviandosi a diventare strutture non più di amministrazione, ma di coordinamento e programmazione: il tentativo viene però attuato, finora soprattutto nel Nord;
- stanno ricevendo dalle Regioni la delega per varie funzioni: la Puglia è la Regione meridionale in cui il processo è più avanzato;
- sembrano indirizzare le loro disponibilità finanziarie sempre più verso gli investimenti.

c) Comunità Montane
- scendendo dal Nord al Sud, la loro vitalità tende ad impoverirsi: nel Mezzogiorno sono partite con forte ritardo e oggi, pur avendo una buona dotazione di personale e bilanci consistenti, sono assenti sul piano della programmazione e su quello operativo.

d) Comuni
- negli ultimi anni sono cresciuti numero e qualità delle loro competenze, con la conseguenza che ora è necessario riorganizzare in modo profondo la struttura: attualmente la qualità del personale non è all'altezza di compiti gestionali complessi;
- in materia finanziaria, sono sempre più urgenti strumenti che consentano certezza di risorse, sufficiente autonomia di impiego, compatibilità col bilancio statale;
- la spesa comunale è cresciuta di molto dal 1980 al 1981 (+ 51, 4%), a causa degli accresciuti compiti. La spesa pro capite è inferiore alla media nazionale del Nord, superiore nel Centro e nel Sud (con l'eccezione però delle Isole, molto al disotto dei valori nazionali). Pur se frammentariamente, qualcosa è stato fatto per riequilibrare le capacità di spesa.

D) SCUOLA

La maggiore esigenza alla quale la Scuola deve oggi far fronte è quella di rispondere a bisogni diversificati, richieste personalizzate, tenendo presenti gli intrecci con il mondo del lavoro e della cultura e cogliendo l'opportunità offerta dalle nuove tecnologie informatiche. La Scuola deve cioè fare da "polo di riferimento", mettendo ordine in una rete di occasioni formative oggi confusa.
Accanto a problemi di gestione del nuovo (e nel nuovo rientra anche la crescita che dal 1980 è tornata a far registrare la spesa per spettacoli, istruzione e cultura, nella quale il Sud sta riducendo il distacco dal Centro-Nord), c'è però anche il preoccupante riemergere di questioni vecchie, come l'evasione dell'obbligo. I fenomeni di selezione e dispersione stanno tornando - specie nei primi anni di ogni ciclo scolastico - a livelli spesso allarmanti, e la loro incidenza è nettamente più grave nel Meridione, almeno per quanto riguarda la scuola dell'obbligo. Ma non è questa l'unica specificità della Scuola meridionale. A comporre il mosaico ci sono tante altre piccole tessere:
- nel Sud è ancora poco diffusa la Scuola Materna (la frequenta solo il 71,3% dell'utenza potenziale, contro una media nazionale del 75,4);
- sono poche, rispetto al resto del Paese, le iniziative di sperimentazione a tempo pieno, mentre al contrario è più diffuso che nelle Scuole del Centro-Nord il tradizionale doposcuola;
- molto lento è il processo di integrazione degli handicappati, anche per il numero irrisorio degli insegnanti di sostegno;
- diminuiscono, al contrario di quanto avviene al Centro-Nord, gli iscritti al corsi di formazione professionale, anche se nel Meridione i valori assoluti restano assai maggiori.
Quanto al rapporti tra Scuola e mercato del lavoro, una particolarità meridionale è la consistente quota di laureati tra le persone in cerca di lavoro: ben il 10,9% contro il 5,9% del Centro e il 2,1% del Nord.

E) SICUREZZA SOCIALE

1) Sanità
E' un settore sostanzialmente privo di controllo. L'attuazione di una riforma, che troppo affrettatamente è stata bollata con giudizi catastrofici, sembra oggi affidata al caso. Basti ricordare:
- la perdurante incontrollabilità della spesa sanitaria. Il problema vero non è però la quantità (l'Italia spende ancora molto meno di altri Paesi CEE, e l'incidenza della spesa sanitaria sul prodotto interno lordo è scesa dal 5,66% del 1976 al 5,24% del 1982), ma la qualità della spesa: si spende troppo e male per gli ospedali (nel Centro-Nord c'è eccedenza di posti-letto, e anche altrove li si utilizza con poca razionalità) e farmaci, e troppo poco per la prevenzione;
- il ritardo nel l'approvazione del Piano Sanitario Nazionale e dei conseguenti Piani Regionali (specie al Sud);
- la penalizzazione degli obiettivi qualificanti della riforma (prevenzione, progetti per fasce emarginate, servizi territoriali di base);
- la perdurante eccedenza di medici e la carenza di personale ausiliario: ambedue i fenomeni riguardano in misura particolare il Mezzogiorno.
Dal lato della domanda, c'è un'evoluzione che sta spiazzando ulteriormente la già carente offerta: diminuiscono le patologle tradizionali, migliora lo stato di salute degli italiani e aumentano quindi le richieste di servizi nuovi, legate ad una sempre più diffusa "cultura della salute e del benessere fisico". Non bisogna però dimenticare i ritardi di tipo tradizionale: la mortalità infantile, perinatale e materna, è in Italia ancora superiore agli altri Paesi europei, e il Sud conferma il suo triste primato.

2) Assistenza
Se questi anni sono segnati dall'emergere di nuovi bisogni e dall'evidenziarsi di "nuove povertà", inefficace è stata la risposta concreta delle istituzioni (per la frammentazione della legislazione - pure in molti casi avanzatissima -, per gli scarsi mezzi, per l'impreparazione, per la burocratizzazione): la società non ha saputo farsi carico di quelle funzioni che da anni erano state sottratte alla famiglia, e anzi tende ora ad accollare al comparto sanitario tutta una serie di problemi (droga, handicap, malattie mentali).

L'INDUSTRIA NEL MEZZOGIORNO

Dati e notizie sull'industria manufatturiera
Prima che l'istituto Centrale di Statistica pubblichi i dati relativi al Vi Censimento Generale dell'industria, Commercio, Servizi e Artigianato, abbiamo a disposizione alcuni dati sui caratteri dell'industria manufatturiera del Meridione elaborati dallo IASM-CESAN (istituto per l'Assistenza allo Sviluppo del Mezzogiorno). I dati e le informazioni riportate si riferiscono alle imprese con stabilimenti manufatturieri con almeno 10 addetti fissi, ubicati nelle regioni del Mezzogiorno: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna.
Sono comunque opportune alcune considerazioni generali e raffronti con la congiuntura economica a livello nazionale.
Sul piano degli indicatori statistici più significativi, il terzo trimestre dell'82, a livello nazionale, può essere così sintetizzato:
- l'indice generale della produzione industriale, calcolato dall'ISTAT e depurato dell'influenza stagionale, ha segnato una caduta del 7,6% rispetto al secondo trimestre. La flessione cumulata dall'inizio dell'anno rispetto ai primi nove mesi del 1981 è dello 0,9%;
- il grado di utilizzo degli impianti, elaborato presso l'ISCO, è sceso dal 72,7% del secondo trimestre al 70,6%, con ripiegamenti generalizzati ai principali settori produttivi;
- l'occupazione complessiva nell'industria ha subito una contrazione di 72.000 unità rispetto ai livelli di un anno prima. Durante il terzo trimestre, le ore concesse dalla cassa integrazione sono risultate pari a 121.324 unità, con un incremento del 24% rispetto allo stesso periodo del 1981. Il tasso di disoccupazione medio complessivo ha raggiunto il 9,2%, valore che si innalza al 13,8% per il Meridione (tab. 6);
- i prezzi all'ingrosso sono cresciuti del 3,2% rispetto al secondo trimestre, mentre il costo della vita è variato del 4,2%.
- l'interscambio commerciale è rimasto passivo per 3911 miliardi di lire, contro i 4221 miliardi del secondo trimestre; a tutto settembre, il disavanzo è ammontato a 13.773 miliardi di lire.
Questo in generale. Aspetti negativi di crescente incidenza possono essere evidenziati anche nelle linee evolutive dell'economia nel Mezzogiorno. L'industria manufatturiera meridionale accusa infatti le conseguenza di fattori frenanti d'ordine generale e di notevole intensità: nei comparti più esposti e nelle aziende più deboli si sommano, a varie pesanti remore congiunturali, le ripercussioni relative ad irrisolte carenze di struttura. In sintesi, una base produttiva in via di profondo riassetto, quale quella del Mezzogiorno, appare esposta, più di altre, a subire nel tempo il contraccolpo di una domanda in ripiegamento, unitamente agli effetti di costi del denaro molto elevati.

 

In effetti, anche nel Mezzogiorno la debolezza della domanda coinvolge tutti i grandi comparti mercantili. I beni di consumo accusano il declino degli acquisti, sia dei prodotti non durevoli sia dei manufatti del settore meccanico ed elettromeccanico. Infine la domanda estera, ormai di diversa incidenza per diverse produzioni manifatturiere del Mezzogiorno (tessili, abbigliamento, calzature, alimentari, industria metalmeccanica, costruzione dei mezzi di trasporto, elettronica ed elettromeccanica).
I sintomi involutivi presenti nel Paese, estendendosi alle regioni meridionali, hanno provocato inoltre effetti peculiari, acuendo tipiche carenze e distorsioni. I più vistosi cedimenti vengono segnalati per la manodopera: in un anno, in base all'ultima rilevazione ISTAT (luglio '82), la disoccupazione si è accresciuta nel Mezzogiorno del 7,2% (nel resto del Paese, di circa il 3,5%) e il suo peso sulle forze di lavoro sfiora ormai, nel Meridione, il 14%: percentuale che rappresenta, in valore assoluto, oltre un milione di persone in cerca di impiego (48% del totale Italia).

INDICATORI SOCIO-ECONOMICI DELLE REGIONI MERIDIONALI

Ci serviremo ora del rapporto Svimez sull'economia del Mezzogiorno per esaminare le linee di tendenza dello sviluppo agricolo e industriale del Meridione, sempre in attesa di poter fornire dati più completi e aggiornati, disponibili solo dopo la pubblicazione dei risultati del VI Censimento Generale dell'industria, Commercio, Servizi e Artigianato.

Prodotto
Nel Mezzogiorno, al contrario di altre regioni, nel 1981 si è verificato un aumento, benchè assai modesto (0,3%) del prodotto lordo. I maggiori tassi di incremento si sono registrati in Abruzzo (+ 3,4%) e nel Molise (+6,5%). Al buon andamento del prodotto lordo in queste regioni del Sud ha concorso un cospicuo aumento del valore aggiunto dell'industria, cui si è accompagnato un buon risultato dell'annata agraria. In Puglia e Calabria vi è stata invece diminuzione: sensibile in Puglia (-2,7%), molto più lieve in Calabria (-0,3%).

Occupazione
L'andamento congiunturale sfavorevole, come abbiamo già detto precedentemente, ha influito negativamente sulla capacità di assorbimento di manodopera da parte delle imprese, accrescendo il fenomeno della disoccupazione. Nel 1981 il numero complessivo degli occupati nel Mezzogiorno è stato calcolato in 6.262,4-mila unità contro 6.217,0-mila nel 1980: vi è stato quindi un'incremento di 45,4-mila unità, pari allo 0,7%.


Aumenti di rilievo si sono avuti in Calabria e Sardegna, mentre contrazioni si sono avute nel Molise e in Basilicata (in questa regione vi è soprattutto da segnalare un apprezzabile aumento nell'industria).

Turismo
La diminuzione delle presenze turistiche straniere, che ha caratterizzato il nostro Paese nel 1981, è stata, in termini relativi, molto più accentuata nel Sud, dove si è avuto, tra il 1980 e il 1981, un decremento del 17,8% contro l'11,8% del Centro-Nord. Il peggioramento ha interessato tutte le regioni meridionali e in modo particolare il Molise, la Basilicata e la Campania. Soltanto la Puglia, la Sardegna e la Calabria hanno realizzato un aumento rispetto al 1980.
I dati relativi agli occupati nell'industria, nell'agricoltura e nei servizi delle regioni dell'Italia Meridionale sono riportati nelle tab. 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14.

LA PUGLIA

Concentrazioni produttive in Puglia localizzate nelle aree di sviluppo industriale (ASI).
Le unità produttive attualmente operanti nelle aree di sviluppo industriale della Puglia sono 240, con un'occupazione complessiva di oltre 59.000 addetti (Tab. 15).
Il maggior numero di stabilimenti è concentrato negli agglomerati di Bari (104 stabilimenti, che rappresentano il 43% del totale delle unità produttive in aree di sviluppo industriale). La maggiore concentrazione di addetti si verifica, invece, negli agglomerati dell'area di Taranto (45% dell'occupazione in ASI). A questo proposito va tuttavia tenuto presente che nel solo agglomerato di Taranto vi sono i circa 22.000 addetti alle stabilimento Italsider.
In complesso, a Taranto e a Bari si concentrano il 73% degli occupati e il 56,6% degli stabilimenti di tutta l'industria manifatturiera ubicata negli agglomerati pugliesi.
Escludendo lo stabilimento Italsider, la dimensione media delle unità in agglomerato è di circa 158 addetti, contro i 43 degli stabilimenti fuori agglomerato.
Quanto alle attività produttive prevalenti negli agglomerati, si nota una significativa concentrazione di stabilimenti operanti nei settori della metallurgia di seconda lavorazione, del vetro e dei materiali da costruzione, dell'industria alimentare e dei materiali di gomma e plastica. Questi settori concentrano oltre la metà (51%) di tutti gli stabilimenti in agglomerato.


Riguardo all'occupazione, i settori con un maggior numero di addetti sono quelli della metallurgia di prima lavorazione, seguiti da quelli della metallurgia di seconda lavorazione, dal mezzi di trasporto e dai derivanti del petrolio e del carbone. Complessivamente, questi settori rappresentano il 70% dell'occupazione totale nella Regione Puglia.

XII CENSIMENTO GENERALE DELLA POPOLAZIONE 25 OTTOBRE 1981.

Primi risultati relativi alla popolazione e alle abitazioni, riguardanti il Mezzogiorno d'Italia.
Il 25 ottobre 1981, in attuazione della legge 1811211980, n. 864, hanno avuto luogo in Italia il XII Censimento Generale della Popolazione e il Censimento Generale delle Abitazioni. Riportiamo alcuni dati generali, che riguardano l'intero territorio nazionale, soffermandoci soprattutto sui dati che interessano l'Italia Meridionale e Insulare.
La popolazione residente nel nostro Paese è risultata di 56.243.935 persone, delle quali 27.396.502 di sesso maschile (48,7%) e 28.847.433 di sesso femminile (51,3%), con un aumento di 2.107.388 unità rispetto al censimento 1971. La popolazione maschile è aumentata del 3,5% e la popolazione femminile del 4,3%; la popolazione femminile supera quella maschile di 1.450.931 unità. Questi i dati generali.
Esaminiamo i dati relativi all'Italia Meridionale e Insulare. Sono state censite, nel Sud d'Italia, 19.881.783 persone residenti: il 35,4% dell'intera popolazione italiana. Rispetto al censimento del 1971, si è verificato un incremento demografico di 1.007.517 abitanti (+ 5,3%), pari al 47,8% della variazione complessiva di popolazione avvenuta nell'intero territorio nazionale fra il 1971 e il 1981.
La popolazione maschile residente nelle regioni dell'Italia Meridionale ammonta 9.768.991 persone; la popolazione di sesso femminile è invece composta da 10.112.792 persone. La popolazione femminile supera quella maschile di 343.801 unità. Complessivamente, la popolazione presente nel Sud è risultata di 19.617.065 persone. Questo dato è estremamente importante. Se confrontato infatti con i dati che riguardano la popolazione residente e presente sull'intero territorio nazionale, balza agli occhi una particolarità molto significativa: la popolazione presente, costituita cioè dalle persone di fatto presenti sul territorio nazionale alla data del censimento è risultata, per l'intera nazione, di 56.336.185 persone. Per la prima volta nella storia dei censimenti italiani, la popolazione presente risulta quindi superiore alla popolazione residente. Questo dato lascia presumere una più cospicua temporanea presenza di stranieri rispetto ai precedenti censimenti oppure il contrarsi dell'ammontare di italiani temporaneamente all'estero rispetto ai livelli del passato.
Ma questo dato non è valido per il Meridione. Ancora, nel Meridione, il numero di persone residenti è superiore al numero delle persone presenti, precisamente di 264.718 unità. Questo dato non può essere addebitato al fenomeno dell'emigrazione, che continua ad interessare tutta l'Italia Meridionale.
Tuttavia, rispetto al censimento del 1971, questa differenza è certamente diminuita. Undici anni fa, infatti, tra le persone residenti e presenti sul territorio delle regioni meridionali e Insulari c'era uno scarto di 531.813 unità. Questo dato è, senza ombra di dubbio, confortante.
C'è un altro elemento importante da sottolineare e su cui soffermare la nostra attenzione. Torniamo ad esaminare i dati che riguardano l'incremento demografico dal 1971 al 1981: in questi ultimi dieci anni l'aumento della popolazione residente è stato di 643.219 unità (+ 2,6%) nell'Italia Settentrionale, di 456.652 unità (+ 4,4%) nell'Italia Centrale e, come è stato già detto in precedenza, di 1.007.517 unità (+ 5,3%) nell'Italia Meridionale e Insulare.
Nel precedente decennio 1961-71 i corrispondenti aumenti risultarono diversamente differenziati in quanto fu l'Italia Settentrionale a beneficiare del maggiore incremento (+ 10,2%), seguita dall'Italia Centrale (+9,7%); di modesta entità risultò invece l'aumento dell'Italia Meridionale e Insulare (+ 1,6%). In conseguenza di queste variazioni, la percentuale della popolazione che risiede nelle tre grandi ripartizioni geografiche è passata, fra il 1971 e il 1981, dal 46,1% al 45,5% nell'Italia Settentrionale, dai 19,0% al 19,1% nell'Italia Centrale, dal 34,9% al 35,4% nel Mezzogiorno. La quota di popolazione, nell'Italia Centrale, è rimasta pressochè invariata; il fatto nuovo è rappresentato dal minore peso delle regioni settentrionali e dalla maggiore importanza relativa della popolazione dell'Italia Meridionale e Insulare. Tale situazione può farsi risalire, oltre che alla differente azione delle componenti naturali della dinamica demografica, al rallentamento del flusso migratorio diretto da sud a nord.
Il Sud ha quindi continuato, ma in misura ridotta rispetto al passato, ad alimentare flussi migratori verso le restanti regioni italiane e verso l'estero. C'è un altro dato che conferma l'ipotesi: il saldo del movimento naturale (vale a dire l'eccedenza delle nascite sulle morti) è inferiore alla variazione della popolazione sia nell'Italia Settentrionale sia in quella Centrale, mentre risulta superiore alla variazione nell'Italia Meridionale e Insulare.

Nelle Tab. 16 e 17 possono leggersi i dati riguardanti la popolazione residente e presente in tutto il Mezzogiorno. Vi si vede chiaramente che la regione del Meridione in cui c'è maggiore scarto tra popolazione residente e popolazione presente è la Calabria, con 74.072 persone che, pur risultando residenti, non sono tuttavia presenti. La regione in cui invece il fenomeno è meno rilevante è la Sardegna che presenta uno scarto di 10.060 unità fra persone residenti e persone presenti. Ad un sommario esame di questi dati si può quindi affermare che le regioni del Meridione più interessate al fenomeno dell'emigrazione sono la Calabria, seguita dalla Sicilia, dalla Puglia, dalla Basilicata e dalla Campania. Il fenomeno è invece meno allarmante in Sardegna, in Abruzzo e nel Molise.

Famiglie
In Italia il numero delle famiglie è risultato pari a 18.536.570, con 55.768.593 componenti: la differenza tra la popolazione residente totale e i componenti delle famiglie, pari a 475.342 unità, è costituita dai componenti permanenti delle convivenze (ospedali, case di cura, collegi, caserme, convivenze religiose, istituti di prevenzione e pena, alberghi, pensioni, ecc ... ). Il numero medio dei componenti per famiglia è risultato di 3,0 contro il 3,3 del 1971.
In proposito, merita di essere sottolineato il notevole aumento delle famiglie tra il 1971 e il 1981. Ciò significa che continua a ridursi l'ampiezza media delle famiglie, passata dai 4 componenti del 1971 ai 3 componenti del 1981. Il fenomeno è generalizzato; ha interessato infatti tutte le aree geografiche del Paese. Esistono tuttavia ancora apprezzabili differenze tra il Nord, il Centro e il Sud: mentre il dato dell'Italia Centrale coincide con quello nazionale, l'ampiezza media delle famiglie residenti nell'Italia Settentrionale (2,8) e nell'Italia Meridionale e Insulare (3,3) risulta, rispettivamente, inferiore e superiore a quest'ultimo.

Nel Meridione quindi il numero dei componenti per famiglia risulta, come nel resto della Penisola, notevolmente diminuito rispetto al 1971. Se confrontato invece con i dati relativi al numero dei componenti per famiglia dell'Italia Settentrionale e Centrale, il dato riguardante il Sud risulta essere ancora maggiore. Parallelamente, il numero delle famiglie censite nel Sud sarà, in percentuale, minore rispetto al Nord e al Centro.
Nel Mezzogiorno, la situazione regione per regione è posta in evidenza nella Tab. 18. Da essa è possibile ricavare un altro dato interessante: la Campania èla regione del Meridione sia con un più alto numero di famiglie sia con il più alto numero dei componenti per famiglia. Il Molise invece è la regione con il minor numero di famiglie e con il più basso numero di componenti per famiglia.

Censimento delle abitazioni
Alla data del 25/10/1981 sono state rilevate complessivamente 21.852.717 abitazioni comprendenti 86.570.148 stanze, con un aumento, rispetto al 1971, di 4.418.748 abitazioni (+ 25,3%) e di 22.736.416 stanze (+ 35,6%). Di conseguenza, il numero medio di stanze per abitazione è passato da 3,7 nel 1971 a 4,0 nel 1981.
Le abitazioni occupate sono risultate 17.509.058 per 71.465.194 stanze, con aumenti rispetto al 1971 del 14,4% per le abitazioni e del 27,1% per le stanze.
Pertanto l'indice di affollamento, ottenuto come rapporto fra il numero dei componenti delle famiglie e il numero delle stanze, è risultato pari a 0,8 nel 1981 contro 1,0 nel 1971: elemento questo che evidenzia un miglioramento delle condizioni abitative medie della popolazione italiana. Anche il numero delle abitazioni non occupate ha subito un incremento notevolissimo: rispetto al 1971 è stato registrato un aumento del 103,7%. E' importante sottolineare comunque che le abitazioni non occupate si concentrano per la maggior parte, nei piccoli Comuni. Soltanto il 15,4% di tali abitazioni è situato nel Comuni capoluoghi. Questo dato conferma che la quota più rilevante di questo stock di abitazioni è costituito dalle "seconde case" utilizzate per le vacanze.
Il numero degli "altri tipi di alloggio" (si definiscono in questo modo i locali che, pur non essendo funzionalmente destinati ad abitazione, alla data del censimento risultavano occupati da una o più famiglie residenti) è risultato pari a 95.930 con una evidente concentrazione nelle zone terremotate, mentre nelle altre aree si registra un calo rispetto alla situazione del 1971.
Tra le regioni del Meridione, quella in cui si è registrato un maggiore incremento del numero di abitazioni, rispetto al 1971, è la Sicilia, seguita dalla Puglia. L'incremento minimo, invece, è stato registrato nel Molise. Queste osservazioni riguardano i dati delle abitazioni in generale. Vediamo cosa accade se consideriamo le abitazioni occupate, cioè se escludiamo quelle considerate "case per le vacanze o seconde case". Sono sempre la Sicilia e la Puglia le regioni del Meridione in cui, rispetto al 1971, è aumentato il numero delle abitazioni occupate; così come è sempre il Molise la regione in cui tale aumento risulta avere il valore più basso.

PUGLIA

Primi risultati provinciali sulla popolazione e sulle abitazioni.
In Puglia risultano residenti 3.849.598 persone, di cui 1.884.202 maschi e 1.965.396 femmine: la popolazione femminile supera quella maschile di 81.194 unità. Le persone realmente presenti sono invece 3.800.627.
All'esame di questi dati, appare evidente che in Puglia, come in tutte le altre regioni del Mezzogiorno, è ancora molto diffuso il fenomeno dell'emigrazione. Tra la popolazione residente e la popolazione presente esiste infatti uno scarto di 48.971 unità.
Confrontiamo questo dato con i risultati del censimento 1971. Dieci anni prima risultarono residenti 3.582.787 persone, mentre le presenti furono 3.498.932: lo scarto fra residenti e presenti risultò dunque pari a 83.855 persone. Ciò dimostra che l'emigrazione al Nord d'Italia o all'estero è, in Puglia, un fenomeno in netto declino.
La situazione "popolazione residente-popolazione presente", considerata provincia per provincia, è esposta nella Tab. 19. Essa mostra come, fra le cinque provincie pugliesi, Lecce sia tuttora la provincia più colpita dall'emigrazione: lo scarto fra persone residenti e persone presenti è pari a 17.687 unità, che rappresentano il 36% della differenza tra popolazione residente e popolazione presente nell'intera regione. Taranto è invece l'unica provincia della Puglia a non essere interessata al fenomeno, o ad esserlo in modo quasi marginale: tra le persone residenti e quelle presenti c'è infatti uno scarto di appena 919 unità. Seguono Taranto, in ordine crescente, Brindisi, Bari e Foggia.
Un altro dato molto interessante riguarda l'età media della popolazione pugliese. La Puglia risulta infatti, insieme alla Campania, la regione più giovane: solo il 14,2% della popolazione è composta da persone che hanno superato i sessant'anni. Se, con riguardo alle medie nazionali, l'Italia si colloca all'incirca a metà strada rispetto ai valori constatati in altri Paesi europei per l'incidenza della popolazione anziana su quella totale, la situazione all'interno del nostro Paese presenta invece una notevole differenziazione tra regioni con percentuali superiori a quelle europee, (Liguria, Friuli-Venezia Giulia) e regioni nelle quali l'incidenza è notevolmente più bassa.

Famiglie
In Puglia è stato registrato un numero di famiglie pari 1.141.358, con un totale di componenti pari a 3.830.120 persone. Il numero medio di componenti per famiglia è pari a 3,35 unità: una media, come abbiamo già sottolineato, molto alta rispetto a quella nazionale.
Nel 1971 le famiglie pugliesi erano 962.288, con 3.553.646 componenti e un numero medio di componenti per famiglia pari a 3,7. Dopo il censimento 1981, la situazione in Puglia si può rilevare, provincia per provincia, dalla Tab. 20. I dati evidenziati permettono di concludere che i componenti formanti delle convivenze in Puglia raggiungono un totale di 19.478 unità: nel 1971 erano 29.141 unità.

Patrimonio edilizio
In Puglia sono state registrate 1.422.405 abitazioni, per un totale di 5.064.821 stanze. Di queste abitazioni, 1.083.642 sono regolarmente occupate.
Nel 1971 le unità abitative erano 1.060.273, di cui 923.018 occupate.
Nel complesso, si è quindi verificato nella regione un notevole incremento del patrimonio edilizio, pari a 362.132 unità abitative. Va rilevato tuttavia che, mentre nel 1971 risultavano occupate l'87,05% delle abitazioni esistenti, nel 1981 risulta occupato soltanto il 76,18% dell'intero patrimonio edilizio. Possiamo quindi affermare che l'incremento del patrimonio abitativo riguarda maggiormente alloggi non destinati a residenza abituale. Provincia per provincia, la situazione del patrimonio edilizio pugliese è riassunta nella Tab. 21.

MODERNO VUOL DIRE COMPLESSO

15 anni della società italiana nell'analisi del Censis.
"Economia sommersa", "localismo", "sviluppo molecolare": sono termini ormai ricorrenti nel dibattito sulla situazione economico-sociale italiana. E' li sintomo più elementare, ma anche il più significativo, dell'importanza che ha avuto in questi anni l'analisi fatta dal Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), che questi termini ha "inventato" ed imposto al linguaggio degli addetti ai lavori. L'occasione per valutare la ricchezza delle indagini Censis è offerta dalla pubblicazione de "Gli anni del cambiamento", un'antologia del 15 Rapporti che, dal '67 all'81, il centro di ricerca ha dedicato annualmente alla situazione del Paese. Ne emerge un'attenzione insistente, quasi ossessiva, ed orgogliosamente rivendicata, al "fenomeno", al "fatto concreto", alla "realtà così come è"; e insieme, la denuncia dei limiti di gran parte della cultura economicopolitica corrente, secondo il Censis viziata di ideologismo di vari segni, e dunque incapace di guardare ai fatti senza distorcerli attraverso lenti di vario colore.
In effetti il Censis si è trovato spesso controcorrente, a proporre-come vedremo più avanti-letture originali, quasi provocatorie, della società italiana. L'ultimo, recentissimo esempio si è avuto nel novembre dell'82, ai tempi della crisi di governo: mentre da più parti ci si esercitava in una specie di tiro al bersaglio contro la spesa sociale italiana, giudicata abnorme, il Censis se n'è uscito con una serie di dati per dimostrare che in Italia per la protezione sociale si spende assai meno che in molti altri Paesi europei. Dunque, una vera e propria vocazione al ruolo di "bastian contrario", che è però garanzia di analisi comunque stimolanti.
Un ultimo. elemento da sottolineare-prima di passare all'esame delle 4 fasi in cui si articola il quindicennio Censis-riguarda la notevole attualità di molte delle osservazioni contenute nel Rapporti, anche in quelli meno recenti. Segno della bontà delle analisi, certo, ma anche del ritardo con cui la classe dirigente italiana ha preso atto dei mutamenti avvenuti nella società a partire dalla fine degli anni '60 e della necessità di risposte nuove ed adeguate.

1) 1967-1971: L'autocoscienza della società
Il Rapporto Censis nasce con l'intento dichiarato di "fornire alla società uno strumento di autocoscienza". La motivazione è in parte figlia della cultura della programmazione, dominante alla metà degli anni '60, ma con questa madre il Censis romperà i rapporti quasi subito. Più determinante è invece la convinzione che nel '67 per la società italiana stia iniziando una fase nuova: superato lo stadio delle grandi problematiche sociali del dopoguerra, drammatiche ma facili da capire (ad esempio, le occupazioni di terra, la disoccupazione di massa, l'analfabetismo), si entra in un periodo più complesso, e dunque più moderno. Il Censis respinge però subito l'accusa di "eccessivo ottimismo", sottolineando che la crescente complessità sociale richiede schemi nuovi di analisi, un bagaglio culturale e politico che in Italia pochi soggetti sembrano possedere. In effetti, nei Rapporti Censis è difficile trovare un'esaltazione acritica dei nuovi fenomeni: li si giudica avanzati, certo, ma anche ambigui, e dunque aperti ad esiti diversi. Così le tensioni della società italiana alla fine degli anni '60 hanno una faccia positiva (mobilità professionale e sociale, crescita del reddito, aumento dei consumi, aumento dei livelli di istruzione) ed una negativa (emigrazione, esclusione dai nuovi benefici di ampi strati di popolazione, consumismo, crescente marginalizzazione di giovani borghesi, donne, anziani); anche a livello collettivo, la lotta sindacale ha effetti positivi ma al tempo stesso aggrava il particolarismo ed il corporativismo. Se ottimismo c'è nella analisi Censis, a nostro avviso esso è individuabile in profondità, nel significato che alle tensioni ed ai conflitti viene dato: "il conflitto è speculare al pluralismo di ogni società moderna", e quindi il carattere conflittuale dello sviluppo italiano di quegli anni, "pur se talvolta dolorifico, è da considerarsi profondamente positivo" (dal Rapporto 1969).
L'accettazione delle tensioni e dei conflitti come dimensioni fisiologiche dello sviluppo segna la svolta fondamentale nella cultura del Censis. Si prende atto che "la società civile è sempre più consapevole della forza insita nei meccanismi che la regolano", si tagliano i ponti con la cultura della programmazione (e con la connessa ricerca dì un "dover essere" della società), e ci si orienta verso un'atteggiamento più induttivo, attento ai fenomeni reali e quotidiani.
E questo nuovo orientamento che fa cogliere la "fine di un ciclo" della società italiana: hanno perso incidenza alcuni processi di fondo del precedente periodo di sviluppo (tasso di attività, mobilità territoriale, mobilità dall'agricoltura all'industria, scolarizzazione, urbanizzazione); sono in crisi, a livello politico, la spinta delle riforme, la programmazione, il ruolo di intervento attivo dello Stato. Dunque, è finito il tempo dei rapidi cambiamenti e delle radicali trasformazioni, e si dimostra illusoria l'idea di rettilinee evoluzioni e programmazioni dello sviluppo italiano: "la società italiana comincia ad andare per proprio conto", ed il Censis dietro, a tallonarla. Ma tra i temi di questa prima fase uno almeno va accennato, a riprova dell'attualità di molte osservazioni: la ripetuta richiesta fatta allo Stato perchè ripensi la sua attività di spesa a fini sociali, sulla quale già dal '67 il Censis esprime perplessità.

2) 1972-1977. "L'Italia è sommersa": gli anni dell'adattamento
E' soprattutto ai rapporti di questa fase che il Censis deve la sua notorietà. Alla scoperta dell'economia sommersa i ricercatori arrivano interrogandosi sui motivi dell'inattesa capacità di tenuta del sistema italiano, pur investito da una crisi economica e sociale molto profonda, almeno a stare ai dati più evidenti. Trovano così un'Italia "quotidiana e ordinaria", un'economia sommersa, una seconda società, che resiste alla crisi attraverso un meccanismo di appiattimento sugli interessi e sui comportamenti quotidiani". Si comincia a parlare allora di "assestamento precario" elasticità nella precarietà, economia "non istituzionale", società interstiziale", "miracolo rasoterra", "galleggiamento": molte facce di uno stesso meccanismo vitale, l'adattamento alla crisi.
Già il Rapporto del '72 (forse il più importante dal '67 a oggi) indica i fenomeni tipici di questa fase:
- l'aumento della "quota di occupazione non istituzionale" (lavoro occulto, precario, parziale);
- lo sviluppo del terziario al livello della piccola imprenditoria, persino familiare;

- il decentramento industriale, che favorisce un recupero di elasticità delle imprese;
- il carattere sempre più "composito e familiare del meccanismo di formazione del reddito".
Sul tasto dell'economia sommersa il Censis continua a battere con insistenza negli anni successivi, convinto che questi fenomeni non siano una parentesi congiunturale, ma esprimano una trasformazione profonda e duratura in atto nella società italiana. I suoi ricercatori si guadagnano così la scomoda etichetta di "filosofi del disordine", sostenitori acritici del sommerso. Un'accusa che il Censis non manda giù, e che in effetti non sembra meritare, visto che dal '72 al '77 di aspetti negativi dell'economia sommersa ne evidenzia più d'uno:
- il pericolo che la parcellizzazione delle aziende faccia trascurare la necessità di strategie di evoluzione complessiva;
- il pericolo di una pressione corporativa sullo Stato da parte di soggetti tesi ad ottenere solo il proprio tornaconto;
- il pericolo che cresca una "società ad alta soggettività", individualistica, lontana da ogni impegno collettivo;
- il pericolo che questi fenomeni conducano ad una "crisi di governabilità del sistema".
Le nostre critiche, però - dice il Censis - partivano dalla consapevolezza che il sommerso era una delle due facce della realtà, e bisognava analizzarlo se si voleva comprendere la complessità della società italiana.
Non ci si poteva limitare - questo il rimprovero che Censis muove ai suoi critici - ad esorcizzare e condannare moralisticamente l'economia sommersa, come fenomeno occasionale e patologico, in nome di un diverso modello di sviluppo (fondato sull'aumento delle dimensioni aziendali, sulla crescita degli interventi collettivi, sulla programmazione, sul primato della politica rispetto alla società civile): un modello di sviluppo forse teoricamente più lineare e soddisfacente, ma del tutto estraneo alla concreta realtà italiana. Lo sviluppo del Paese non aspetta la benedizione dei programmatori: negli anni '70 - afferma il Censis - il cambiamento è in atto ogni giorno, e procede più per evoluzione spontanea che secondo un progetto razionale. Come agire su un sistema divenuto così complesso? "Occorre gestirlo ed innovarlo al tempo stesso, conoscendo e rispettando i valori-obiettivo che in esso sono consolidati, ed inserendovi quelle invenzioni del nuovo che sono già nelle aspettative del sistema stesso", perchè esso "non sopporta nè di essere tutelato, nè di essere posseduto, ma orientato": lo sviluppo "non può che essere frutto insieme di evoluzione e progetto".
Il secondo ciclo di riflessione si chiude quindi con l'idea dello "sviluppo molecolare", ad indicare la grande quantità e varietà dei soggetti e dei comportamenti economico-sociali che ad esso concorrono. Una lettura, di andar oltre il sommerso ed il semplice adattamento alla crisi; ma nemmeno ansioso, perchè c'è coscienza delle proprie capacità di adattamento e di sviluppo. L'Italia che esce dagli anni '70 - nell'immagine del Censis - è certo un Paese che ha dei problemi di fronte: ma si tratta di sfide tipiche di una società avanzata, non in regressione verso il Terzo Mondo.

3) Società e istituzioni: "questo matrimonio s'ha da fare, e presto"
L'ultimo capitolo dell'"autoanalisi" Censis è dedicato non ad un periodo, ma ad un tema. Una delle tante critiche che l'istituto di ricerca si è tirato addosso in questi anni riguarda la sua presunta estraneità, ed anzi ostilità, alle questioni della politica, in nome di una supremazia di valore della società civile.
Ma anche questa accusa il Censis la respinge seccamente, ricordando di aver sottolineato, proprio negli stessi anni in cui scopriva il sommerso, i problemi derivanti dall'"incapacità di riformare i nodi e le forme di organizzazione esistenti". Il Censis indica già nella prima metà degli anni '70 - ed il suggerimento non ha perso validità - la necessità di ripensare la funzione della politica in aderenza ad un "sistema a variabili questa, che viene proposta in chiara polemica contro la "cultura dell'emergenza" (in auge intorno al '77), secondo il Censis viziata di catastrofismo proprio perchè incapace di guardare seriamente, senza moralismi, ai fenomeni del sommerso. La società che esce dal ciclo '72-'77 - dice il centro di ricerca - ha fatto un grosso passo avanti, in termini di consistenza economica, sociale e civile.

4) 1978-1981. Dai "fili d'erba" al "cespuglio": la scoperta della solidità.
Finito un ciclo, si pone alla società italiana il compito di prendere coscienza dei mutamenti avvenuti, per sviluppare le potenzialità espresse: c'è il rischio, altrimenti, di regredire in un affannoso spontaneismo. Questo riconoscimento collettivo-secondo il Censis-avviene nel "drammatico '78" (l'anno del delitto Moro e delle dimissioni di Leone). Nel momento della prova più dura, la società dimostra di non essere fragile e frammentaria come teme chi ha esorcizzato il sommerso: essa sfodera anzi la capacità di "ordinare le cose e le responsabilità quotidiane", una moralità di fondo, un alto livello di maturazione complessiva. Ne nasce un senso di solidità: la società acquista consapevolezza che negli anni precedenti si è avviato un meccanismo di "sviluppo per evoluzione" che rappresenta la "via italiana" ad un progresso di stampo occidentale, segnato cioè dal pluralismo dei soggetti e dei comportamenti.
Con il '78, quindi, il Rapporto Censis passa dalle tematiche del sommerso e del galleggiamento alla messa a fuoco dei meccanismi che alimentano lo "sviluppo per evoluzione":
- l'accentuata vitalità della piccola e media impresa, l'importanza crescente del lavoro non istituzionale, il carattere composito del reddito familiare, il dinamismo dei consumi;
- la vitalità delle realtà locali (anche in certe zone del Mezzogiorno), che compongono un sistema economico-sociale ad "arcipelago", articolato e policentrico;
- l'"alta soggettualità" del nostro sviluppo (derivante dal pluralismo dei soggetti attivi), che tende a riprodursi anche attraverso l'affermazione di nuove classi di imprenditori.
A partire da questi elementi, i ricercatori del Censis individuano in questi anni l'inizio di una maturazione dell'economia e della società italiana: dalla fase dei "fili d'erba" (piccole imprese, famiglie, ecc., che crescono in modo indifferenziato e inassociato) si sta passando alla fase del "cespuglio", caratterizzata da più complessi intrecci tra i soggetti. Al tempo stesso, anche lo "stato d'animo" della società si fa più adulto: non tranquillo, certo, perchè si avverte la crisi economica internazionale, lo scricchiolio di alcune strutture ed istituzioni nazionali, la necessità multiple", quale è ormai la società italiana. Bisogna cioè tener presente che:
- a promuovere la dinamica sociale non è più soltanto lo Stato, ma una molteplicità di soggetti;
- una società che si sviluppa "per evoluzione più che per progetto generale dello Stato" va gestita e innovata rispettando i valori-obiettivo in essa consolidati;
- non si può dunque continuare a concepire la politica come "sistema nervoso centrale della società": chi pensa ancora che sia sufficiente controllare la "stanza dei bottoni" conterà sempre di meno.
Anche la dimensione istituzionale trova costante attenzione: nei Rapporti degli ultimi anni si parla di corrosione e deperimento delle istituzioni, di divaricazione tra vitalità sociale e crisi dei più importanti strumenti di governo. Una crisi che nasce da fattori sociali (individui e gruppi hanno scaricato sull'intervento pubblico i costi e le difficoltà dello sviluppo, strumentalizzando tale intervento a fini clientelari e corporativi), ma anche dai ritardi culturali della nostra classe dirigente, incapace di sviluppare una nuova logica di governo adatta una società complessa. Le vie che il Censis indica per stabilire di nuovo l'indispensabile collegamento tra società e istituzioni sono tre:
- una valutazione meno negativa della molteplicità dei soggetti e dei comportamenti, certamente rischiosa ma anche ricca;
- il rilancio dei soggetti intermedi (partiti, sindacati, associazioni), da anni incapaci di fare da raccordo tra soggetti elementari (individui, famiglie, comunità locali, ecc.) e istituzioni;
- il rinnovamento delle istituzioni, che deve puntare al l'al leggeri mento ed alla scomposizione del l'apparato burocratico.
Dunque, dice il Censis, non siamo mal stati "antistatalisti", ma abbiamo sottolineato il bisogno di uno Stato diversamente concepito.
Anche in questo ambito dell'indagine, il richiamo è il solito: capire la complessità. Ci pare questo, al di là delle singole "scoperte" fatte in un quindicennio, il contributo più fecondo che dal Censis è venuto alla conoscenza della società italiana.


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