UN ROMANZO INEDITO DI VITTORIO BODINI




DONATO VALLI



Delle sei vite che Macrì ha distinto nell'umano cammino esistenziale ed artistico di Bodini, la scrittura del romanzo interrotto che qui si pubblica perla prima volta viene dopo l'esperienza fiorentina del 1939-1940, quella leccese del 1940-1944, quella romana del 1944-1946 e s'intreccia direttamente con quella spagnola del 1946-1949 (cfr. l'introduzione a Tutte le poesie di V. Bodini (1932-1970) a cura di O. Macrì, recentemente apparse negli "Oscar" Mondadori. Alle pagine di questa definitiva edizione si farà riferimento anche in seguito per le citazioni dalle poesie). Per dati interni ed esterni, (tipo di scrittura, tematica, stile, testimonianze, pubblicazioni), il romanzo, che é senza titolo, può essere attribuito alla prima fase dell'esperienza madrilegna-romana (fine 1946-prima metà del 1947): un capitolo di esso, infatti, precisamente il quinto, fu pubblicato, con numerose varianti ma sostanzialmente integro negli avvenimenti narrati e nello stile, nella rivista "Il Costume politico-letterario" di Roma, n. XIXXX del 3 maggio 1947, pp. 78-80 col titolo L'amore in provincia; significativo il sottotitolo tra parentesi, Pagine di romanzo, che rinvia al progetto al quale evidentemente lavorava l'autore proprio in quel lasso di tempo. Tale progetto, come si potrà vedere, non fu realizzato del tutto e il romanzo si ferma bruscamente al cap. XIV.
Prima di arrivare a questa svolta decisiva per la sua vita artistica, qual'é l'incontro della cultura. italiana con quella spagnola, Bodini si era più volte cimentato con la prosa, ma non aveva mai accarezzato l'ambizioso programma di scrivere un romanzo, pur riconoscendo la fondamentale utilità del genere nella costruzione di una rinnovata prospettiva letteraria dopo il secondo conflitto mondiale (per l'informazione su questo delicato passaggio dalla scrittura ermetica a quella del post-ermetismo degli Anni Quaranta, rinvio senz'altro al capitolo Dall'esperienza ermetica alla "ricostruzione letteraria" del dopoguerra del libro di A. Lucio Giannone, Bodini prima della "luna", Lecce, Milella, 1982). Ma si sa bene che le sue prove narrative. oltre a non superare la misura del racconto, sono più riflessioni personali ricavate da un mondo di memoria imperiosamente risorgente, che non distesa narrazione di un io che si rifletta sulla società stemperandosi in un coinvolgimento di globalità inventiva e di storica testimonianza. Anche se i modelli rimanevano i classici canonici del romanzo moderno, Proust, Joyce, Poe, Kafka, reinventati nella instancabile ricerca di una mancante identità culturale nazionale, Bodini in effetti non era riuscito a disincagliarsi dai moduli di una elegante prosa di memoria alla quale lo avevano ancorato la frequentazione dell'ambiente fiorentino degli Anni Trenta, la solidarietà con alcuni tra i più vivaci rappresentanti di quel gruppo e di quella generazione, la sua stessa formazione letteraria, la determinante esperienza leccese-fiorentina di "Vedetta mediterranea" e di "Libera Voce".
Ma riuscirà egli con questo tentativo di romanzo a compiere il gran salto dalla calligrafia del racconto di memoria alla distesa narrazione metapersonale?
C'è da avanzare più di un dubbio in proposito e non solamente per la netta presupposizione biografica che indiscutibilmente è alla base dei due tempi narrativi precedenti e seguenti il fatidico 1945. Questo romanzo interrotto è sì l'ampliamento in una dimensione diacronica di un impulso che nei precedenti racconti era condensato nell'empito unitario della memoria o del desiderio, ma segna anche il passaggio attraverso il limbo di una neutralità narrativa che mette in crisi l'azzardo morale delle precedenti prove. In queste, infatti, agiva ancora quella reversibilità di vita e di letteratura che dava alla pagina l'impressione di accadimento unico, fatale, coinvolgente non un'avventura ma una sorte, una vita, quell'apriori di solitudine e di interiorità, di inerzia e di incompletezza prementi sull'autore fino a Indurlo a scrivere come se vivesse, a riversare nella pagina la ricchezza e la povertà di una esistenza destinata a non avere altro sbocco di realtà se non quello proveniente dalla scrittura e dalla letteratura. Indubbiamente nel romanzo interrotto di cui parliamo questa precostituzione di moralità esistenziale e letteraria é caduta, la compresenza di piani spirituali dissolta, la puntualità di storia Individuale e di metafisiche sorti scompaginata; resta quasi il piacere gratuito del ricordo senza altra implicazione che non sia la rivisitazione del proprio passato per riassumerne il punto d'avvio e compiere il piccolo cabotaggio di una parte di sé col presentimento, se non proprio la certezza, dell'addio. I grumi delle intuizioni, prima condensate in purezze di forme e in aristocrazia di sentimenti, ora si sciolgono in più disteso tracciato perché evidentemente depositati in una memoria istintiva, non più caricata da soprasensi: è la dolce pianura del ricordi, diventati oramai sangue dell'esistenza e perciò suscettibili di evocazioni tra dilettose e ironiche, proprie d'un esercizio da palinsesto, sul quale non è difficile leggere in trasparenza premonizioni acute della presente e futura distillazione poetica. Ma di romanzo vero e proprio è da parlare solo nella misura di un periglioso e Insieme esorcizzante gioco personale, di una sottintesa scommessa di Bodini con se stesso, d'una pausa di abbandono frapposta tra l'urgenza d'un "profondo Salento sincretizzato col barocco romano sul fondamento protoermetico" come dice Macrì nell'introduzione cit., p.27, e la presenza attiva d'una Spagna reale e metafisica, dalla lunga ombra avvolgente ogni passata storia salentino-familiare.
In questa ambiguità di memoria non risolta e di realtà mancata si colloca il romanzo, segno d'un negativo letterario cresciuto dilettantescamente sul positivo di un recupero che ci fa sembrare, noi salentini, del sopravvissuti. L'aposteriori dell'esistenza, necessario corollario dell'apriori con cui nascemmo "nel fondo delle case" (Addio e non leggete di Dopo la luna, in Poesie, p. 120), sfibra la realtà, le toglie energia di presenza, l'allontana lasciando al suo posto un senso di rimpianto. La condizione del salentino è quella di vivere il giorno dopo: "le favole vere - scriveva Bodini In una prosa del 1944 (Cavalli e orologio, in "Antico e Nuovo", a. III, gennaio-marzo 1947, p.57) non hanno un giorno dopo". Ma in questa terra noi tutti "siamo operati da un occulto malefico che ci fa vivere sempre il giorno dopo il nostro tempo vero... Questo è oggi il destino del paese in cui viviamo". Il romanzo interrotto scritto da Bodini in un particolare periodo della storia d'Italia e della sua storia individuale, è, appunto, il romanzo del giorno dopo, di una vita già sfuggita, o vissuta con inconsapevole ritardo; o ancora il romanzo d'un presente vissuto a ritroso, cioé con un che di nostalgico e di Ironico, un presente che si corrompe nell'attimo stesso in cui lo si vive e che deposita nell'anima il sentimento di quel vuoto e di quella corrosione. Perciò la narrativa di Bodini non è realistica neppure negli anni della moda e dell'impegno neorealistici, o meglio, si tratta di un realismo apparente, di un realismo della scrittura più che della sostanza, essendo le situazioni continuamente rimosse in una zona di fabulosa lontananza da cui ricevono la legittimanzione alla loro letterarietà: una realtà, insomma, che vive del passato o, se più si vuole, un passato che si fa realtà attraverso l'artificio della creazione letteraria.
Tutto ciò ben s'intende quando si ponga mente, oltre che alla componente temporale del romanzo, anche a quella geografico-spaziale. La quale ci riporta subito a un luogo preciso: Lecce. E' questa una città che Bodini patisce profondamente nell'io, perchè avvertita come il segno di un difetto, come un destino d'irrealtà, come una sorta di beffarda provocazione alla storia: "che razza di idea avranno avuto a fondare una città a questo punto? Si direbbe che l'abbiano scelto come si sceglie un nascondiglio: vediamo dov'è che nessuno s'immaginerebbe di cercarla" (Storia di Lecce, in "Rassegna Trimestrale della Banca Agricola Popolare di Matino e Lecce", a. VIII, n. I, marzo 1982, p. 103). Perciò la città di Lecce non può avere una storia, ma solo una cronaca (ivi, p. 104). Qui non importa, ovviamente, se corrisponde al vero quel che Bodini scrive della sua città; quel che conta è il sentimento ch'egli ha del luogo della sua vita e della famiglia, della patria minima nella quale si sono svolte le vicende sue e dei parentali, ch'egli per questo si diverte a disegnare con tratti fuori dell'ordinario, quasi vittime di una inappartenenza urbana che squilibria gli abitatori in direzioni fantastiche di alienata esistenza. La realtà quotidiana prospera su un tronco apparentemente vuoto di linfa storica, donde il rifugio nella cronaca, che è realtà dimezzata, scorza del reale, che appanna gli occhi di fronte all'abisso d'inquietudine della storia più vera.
Il romanzo nasce da questa condizione, è l'intenzionale trascrizione d'una cronaca sospinta in una lontananza più immaginaria che effettiva. Il realismo letterario rilassa le parole, rende più affabile lo stile, ma non induce l'autore a cancellare i segni dell'artificio e della caverna interiore: la scrittura è consolazione irrefutabile di un destino fallito, che solo nella pagina trova illusione di completezza e di storia vissuta. Da ciò la presupposizione autobiografica, che è condizione sostanziale dell'opera, non orpello narrativo. E' provato che Bodini non sa scrivere altro che il suo romanzo, il dipanarsi della sua vita esteriore ed interiore. Ma in questo romanzo l'esteriorità prende il sopravvento e il vuoto apparente avviluppa i gesti e gli avvenimenti della nottivaga brigata di amici.
L'autobiografia penetra negli episodi, nei luoghi, nei personaggi. Il romanzo brucia la vicenda nell'arco di tre mesi, a datare dal giorno in cui l'autore-protagonista è espulso dal liceo "Palmieri" di Lecce nel 1933 dopo un alterco col professore di latino e greco. La casa che qui compare è l'antica casa del Guido di via Gallipoli, adiacente alla sagrestia del Carmine: ivi Vittorio ha abitato fino al 1,950, anno del suo trasferimento in via De Angelis; vi campeggia una palma alta, solenne, quella più volte ricorrente e nel romanzo e nelle poesie. Autobiografici e tuttora riconoscibili sono gli altri luoghi del romanzo: via San Marco, l'antica stradetta che collegava il Sedile con l'albergo Risorgimento (in quella strada il padre adottivo aveva un accorsato negozio di tessuti), il Castello di Carlo V, i Villini, il Caffè Alvino, il Caffè delle Due Pile, sito in via Giacomo Antonio Ferrari, presso la casa del nonno materno, Pietro Marti, riconoscibili ancora il Caffè Esperia da identificare nel Caffè Cappello e l'albergo Majestic, che nella parte pubblicata del romanzo è corretto realisticamente in Grand Hotel. Autobiografici i personaggi: alcuni col reale nome e cognome (Carmine Valente, l'indimenticabile Memè, amico dell'anima, legato a Vittorio in vita e perfino in morte; l'incisore Ernesto Romano, antifascista irriducibile, sodale delle avventure e disavventure ideologiche, la cui bottega era immancabile punto di ritrovo delle pause letterarie e dei vagabondaggi d'irrequietezza; Albertino Maggio, Flora, la giovane figlia del tabaccaio, bella e vaporosa, morta prematuramente). Questo invadente aggetto autobiografico, se da una parte si giustifica con quanto s'è detto in precedenza, dall'altra implica quasi un'inerzia dell'attività fantastica; e ciò per due motivi: primo, perchè la favola è nella stessa dimensione del racconto e, ancora più in là, nel ruolo compensativo che la cronaca assume nei riguardi del vuoto esistenziale e geografico; secondo, per una sorta di tributo che l'autore sente di dover pagare alla volontaria rinuncia al soggettivismo ermetico, all'interiorità sognatrice, alla letterarietà intellettualistica. Il diarismo, immediata risoluzione dell'autobiografismo, è in fondo una forma di compromesso tra irrinunciabili persistenze individualistiche e urgenti pressioni realistiche proprie del momento storico-culturale. Ma, come s'è accennato, esso riguarda più i modi della narrazione che i contenuti veri e propri, per questo il flusso ininterrotto del ricordo sembra automatico tanto è sciolto e privo di costruzione preordinata, lasciato libero di secondare il proprio corso secondo lo svolgimento della vicenda e l'affiorare del volti e degli episodi, come in dilettoso conversare con amici fino a notte Inoltrata. Da questo punto di vista il romanzo è anche un concentrato di spunti e di motivi che ritorneranno ossessivamente, condensati oppure sviluppati, durante tutto il rovello autocentrico dell'artista. Perciò non è posta diga all'irrompere della piena memoriale, la quale si slarga nei terreni limitrofi e ristagna compiaciuta In quegli avvallamenti del pensiero che Bodini chiama divagazioni.
Una di esse riguarda il risparmio della luce, di cui si parla al cap. IV, interpretato come un segno ancestrale della "antica indigenza della razza"; altre, con abbondanza di minuti particolari assolutamente ininfluenti sulla storia ma egualmente concorrenti a darne quella caratteristica di gratuita eccentricità, di ironico ammiccamento nato proprio sulla incontrovertibile testimonianza del fatti, indugiano sulla storia del teatro-cinema San Carlino (cap. VII), sulla mormorazione politica e sulla vacuità dei tumulti popolari, che sembrano privi di senso e di pratici effetti, come le "porte a mezz'aria, balconcini senza ringhiera e scalini che non portavano a nessuna parte" dell'altro romanzo incompiuto, Il duello del contino Danilo (ora pubblicato in "Rassegna Trimestrale della Banca Agricola Popolare di Matino e Lecce, a. VIII, n.2, giugno 1982, pp.82-93, con una mia Introduzione); o infine sulla predestinazione e atteggiamenti della nipote del parroco, qui descritta con tanta abbondanza di ipotesi' e poi invece rastremata in una notazione di pura oggettività significante nella sesta poesia de La luna del Borboni:

I preti di paese
hanno le scarpe sporche
un dente verde e vivono
con la nipote.

(Poesie, p.103)

E una divagazione è anche, a ben pensarci, l'Appendice del romanzo, soprattutto la Storia dello zio Giovanni, ripresa con ben altra maturità e pienezza nel lungo racconto Il giro delle mura, pubblicato su "Il Mondo" del 27 maggio 1961, quindici anni dopo il romanzo. Ma tra i due racconti, ad eccezion fatta per la trama e pei particolari, non c'è nulla in comune, essendo la seconda stesura completamente diversa dalla prima e di essa molto più articolata ed artisticamente pregnante.
Il fondo autobiografico del racconto e la sostanziale veridicità del fatti narrati ci inducono nella tentazione di una breve digressione, tra divertita e pedantesca, al fine di lumeggiare le vie attraverso le quali Bodini mette In crisi il suo realismo di partenza. La storia, lo abbiamo detto, è sostanzialmente vera, rispondendo alla realtà dei fatti l'esistenza dello zio Giovannino, fratello del padre di Vittorio, e della sua famiglia, oltre che la sua pervicace mania di non concedersi pubbliche sortite nel corso della giornata. Reali i fatti, reali i luoghi, reali i personaggi, reale anche il romanzo Perchè? di Giovanni Bodini. pubblicato a Lecce da "La Modernissima" nel 1925; ma caricati ironicamente fino a ottenere effetti di macchettismo caricaturale sono i contorni della vicenda e i minimi particolari, quale, per esempio, lo "stile telegrafico" del romanzo dello zio per effetto della soppressione degli articoli, soppressione la quale, oltre a non essere evidente, non è così generalizzata come il nipote Vittorio vorrebbe fare intendere. In effetti, questa affettuosa, affabile esagerazione, cresciuta alla base di un ricordo lungamente attraversato in una prospettiva di lariche solidarietà, quasi res gestae domestiche colte nel momento del loro crepuscolo e per questo amorosamente enfatizzate mediante il gioco dell'ironia, disancora la vicenda dalla storia, la riduce a bozzetto e la circonda di leggenda: il favolistico nasce, insomma, dall'accentuazione del dato realistico. Parimenti su un versante di enfasi caricaturale, fra il tragico e il comico, restano altre situazioni del romanzo, quali quella del denaro contato a peso, sulla bilancia (cap.I), o l'altra della gente trovata uccisa con un colpo di fucile tra i fichi d'India (cap.III), o della gente uscita apposta di casa nel cuor della notte per andare a far prove tenorili per i viali (cap.XIV), esagerata tipicizzazione della fortunata vicenda del leccese Tito Schipa.
In questa direzione il romanzo segna anche la codificazione divertita, ma profondamente operante, di una mitografia leccese nata tra le pieghe di una personale, ed esistenziale, avventura d'anima. Infatti alcune frasi o immagini che sono nel romanzo si propagano naturalmente non solo nelle prose coeve o di trama affine, ma anche nelle poesie, essendo diventate una sorta di loci communes di quella paesana mitografia. Scontati i richiami tra l'Appendice del romanzo o Storia dello zio Giovanni e il racconto Il giro delle mura del 1961, non è senza significato che anche il romanzo incompiuto Il duello del contino Danilo, scritto nell'estate del 1970, e dunque a oltre vent'anni dal romanzo interrotto del 1947, riprenda, sia pur fuggevolmente, alcune di quelle antiche frasi, quali ad es. le definizioni di "piccolo cabotaggio" attribuita al gioco di carte praticato dall'io-protagonista, non potendosi egli permettere grosse puntate (cfr. il cap. II del Duello e il cap. I del romanzo), oppure l'espressione "parto con un fioretto alla conquista del mondo" del contino (sempre al cap. II), coniata evidentemente su quella di Carmine Valente del cap. II del romanzo: "Questa mattina sono uscito col fioretto". Un caso di attraversamento di tempi e occasioni creative diverse é rappresentato dall'immagine del nome inciso sul banco di scuola, che si trova sia nel romanzo (cap. II) che nel racconto Il giro delle mura, ma anche, con un significato meno precario e circostanziato, nella poesia Nelle sfere armillari di Dopo la luna (Poesie, p. 113, vv.4-5). Altro caso di immagine privilegiata in prosa e poesia è quella delle capre che mangiano le cortecce degli alberi, che infatti si trova una prima volta nella citata prosa del 1944 Cavalli e orologio ("Mandrie di capre vi si spingevano spesso a mangiare le scorze"), ritorna nel cap. III del romanzo e In una poesia inedita, senza data, In morte d'un gangster ("e una capra di fuoco scortica gli alberi", in Poesie, p.285, v.6); stessa sorte per un aggettivo di qualità, "peribile", riferito sempre a un colore: "Un chiarore vegetale, peribile e sgomento come il colore delle mimose" (Cavalli e orologio), "un verde Inquietante e peribile" nel romanzo (cap. VII), "Se c'era un Istante da scegliere, / un attimo da isolare, pensavo all'alba, / a un'alba d'estate dalla tenera polpa / sotto i denti del tempo, al peribile rosso" (La natura morta, poesia inedita senza data, in Poesie, p.282, vv. 11-14). Riscontri tra prosa del romanzo e poesia si possono indicare a proposito delle case della città simili a dadi (cap. III del romanzo; La luna dei Borboni, in Poesie, p.91), della frase "Occhio e gesso", pronunciata da Carmine nel romanzo (cap. IV) e dal brigadiere Alessandro nella poesia (Dopo la luna, In Poesie, p. 113), della pianura salentina che si stende "a perdita d'occhi" (cap. VI del romanzo e La luna dei Borboni, in Poesie, p.92), del colpi battuti ai portoni nel pieno della notte (capitoli I e IV del romanzo e Poesie, p.95), del "verde di Francia" delle persiane (cap. IX del romanzo e poesia inedita Fiaba, senza data, in Poesie, p.267 e Verso Leuca, inedita del giugno 1966, ivi, p. 296).
Non vorrei mediante questo discorso avere istillato nel lettore l'idea d'un romanzo finito e rifinito; l'interruzione della trama è segno d'un interesse scaduto, che coinvolge anche l'intero corpo del romanzo lasciandolo a uno stadio di provvisorietà stilistica e di prima stesura non ancora emendata. Ne è prova l'immediatezza dell'espressione, che è mantenuta a un livello di neutralità discorsiva, di negligente naturalezza senza mai pervenire a quella studiata eleganza, a quella originalità compositiva, a quello smalto che sono caratteristici delle prose bodiniane. E anche a voler giustificare quell'andamento di livellato parlato familiare come correlativo della fluente scorrevolezza della memoria o della inerte vita notturna trascinata inutilmente tra abboccamenti con gli amici, scorrerie gratuite, amori senza impegno, scommesse capricciose e bizantine diatribe, rimane sempre quell'effetto di non finito e di distaccato assai vicino a un trastullo dell'intelligenza, a una bizzarria della memoria destituita di ogni funzione ordinatrice e lievitante della materia artistica. Sul piano puramente descrittivo basterebbe rilevare l'indecisione sul nome di alcuni personaggi (ad es. l'innamorato di Flora, designato col nome di Luigi nel cap. IV e di Michele dal cap. VII in poi, o il compagno di Carmine nella scommessa finale, chiamato dapprima Ruggero, poi subito dopo Vincenzo, e infine ancora Ruggero nel capitoli XI e XII) e su quello stilistico la ricorrenza di fastidiose ripetizioni, zeppe, bruschi cambi di soggetto, o di espressioni colloquiali e popolari ("A me quello scherzo non me l'avrebbe fatto", cap. III "trattandoli con commiserazione e qualche volta dicendogli frasi maliziose", cap. VI, ecc.), che non sempre appare giustificata da una volontà di adeguamento neorealistico o gergale.
Non siamo, dunque, di fronte a un romanzo incompiuto, come è il caso de Il duello del contino Danilo, ma di fronte a un tentativo di romanzo, lasciato cadere per l'urgenza di altri interessi (la poesia, le traduzioni) e per il rapido evolversi del tempo culturale e storico, che chiamava Bodini ad altri impegni e ad altre letterarie testimonianze.

NOTERELLA FILOLOGICA

Il romanzo, scritto con gradevole grafia minuta e scorrevole, è contenuto in due quaderni di proprietà della moglie del poeta, Ninetta Bodini, conservati nell'archivio familiare. Contrassegnati in copertina con I numeri romani I e Il, misurano entrambi mm. 205 x 150.
Il primo quaderno, di 192 pp. non numerate, contiene i capitoli III-XIII più l'Appendice Le pp. 7-20 sono bianche, evidentemente destinate ai primi due capitoli del romanzo, che infatti si trovano In 10 fogli sparsi, scritti solo sul recto, provenienti da altra rubrica; le pp.3-6, dopo una carta bianca, contengono una serie di appunti propedeutici al romanzo, raccolti sotto il titolo Episodi. L'Appendice comprende le pp. 180-190.
Il secondo quaderno, di pp.186 non numerate, contiene solo il cap.XIV, che prende le pp.1-19, le restanti pp.20-184 sono bianche; nella p. 185 si trovala seguente annotazione:"Il Caffè delle Pile e quello della Patrizia erano i caffè delle bizzoche le quali vi andavano per "aggiustarsi" la bocca la mattina presto prima di andare alla prima messa dei Gesuiti, o subito dopo, se si erano confessate. Il caffè - di cicorie e di ceci - ferveva in una enorme cuccuma posta in permanenza su un fornello a gas". Un rigo più sotto, a matita bleu: "Ruggero - Matteo". La p. 186 è bianca.
La trascrizione è fedele al testo manoscritto, che presenta numerose cancellature di prima mano, della quali ovviamente non s'è tenuto conto in questa sede. In alcuni casi l'autore resta incerto tra due espressioni, sovrapponendo a quella originaria una seconda, ma senza decidersi a cancellare la prima; in questi casi si da nel testo la seconda lezione, certamente posteriore, avendo cura di registrare in nota l'espressione originaria.


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