CAPITOLO I
Se qualche notte
rincaso tardi per essermi trattenuto a giocare, e di malumore, perchè
abitualmente questo accade le notti che ho perduto, e non mi restano
che poche ore di sonno dovendo andare la mattina presto a scuola, dove
i miei alunni indovineranno la mia sfortuna - perchè in questo
paese si sa tutto e non è presumibile che non sappiano come passo
le notti -, al solo vedermi spuntare sotto il colonnato e si passeranno
la voce, assumendo un'aria compunta e temendo d'essere interrogati quel
giorno. Ma quasi preferisco le loro apprensioni dei giorni dopo la perdita
all'allegria dei giorni in cui mi hanno fiutato la vincita. Non è
tanto per il chiasso, che lo in quei giorni non ho voglia di reprimere,
quanto per essere la loro allegria sproporzionata alle cause e ragione
per me di rimproverare me stesso.
Le mie vincite, ahimé, sono sempre modeste, e ciò perchè
non ho somme ingenti da rischiare, ed anche per un limite ineluttabile
che pare mi abbia assegnato la fortuna. Mi si consente che vinca solo
a patto che mi contenti di poco, salvo naturalmente le sere in cui va
tutto male e bisogna perder per forza, e di fatti perdo quanto ho guadagnato
in una settimana di gioco paziente. Questo mio gioco, che io chiamo
di piccolo cabotaggio, ormai frutto di un'esperienza di anni ed anni;
e ormai son più disposto a credere ad un miracolo che alla possibilità
per me di sfondare questi battenti che la fortuna a un certo punto mi
cala davanti. Ma non importa; io ho ormai dimesso ogni speranza di vincite
favolose, nè vedo più che sostanziale trasformazione potrebbe
indurre quest'evento nella mia vita; gioco per non perdere, ecco tutto,
perchè non m'abbia a costare oltre i miei mezzi questo che è
l'unico divertimento che ci si possa prendere in questo paese dopo una
giornata di lavoro.
Se dunque rincaso tardi la notte, evitando di accompagnarmi con dei
compagni di gioco per non fare ancora più tardi e per non ascoltare
le loro sciocche ipotesi su come si sarebbe svolto il gioco se non si
fosse verificato al tal punto il tale errore o contrattempo - ciò
che io stesso devo compiere sforzi inauditi per non fare fra me, mentre
me ne vado rasentando le case o per rabbia saltando sui gradini d'una
chiesa che m'attraversano la via anzicchè aggirarli, come sarebbe
più conforme alla mia età e professione, non c'è
volta che non incontri Carmine Valente. Nella scarsa luce delle vie,
poco illuminate a quest'ora, non lo riconosco se non quando mi è
vicino, e più, mi pare, alla sua andatura furtiva e al passo
senza rumore che alla *sua statura e al suo viso. "Ecco qui lo
spettro della mia giovinezza", mi dico tristemente.
- Caro professore! - mi grida con voce scherzosa, e ci stringiamo la
mano.
- Dove te ne vai? - gli chiedo io.
- Andavo a casa. Anche tu? Ti accompagno per un poco -
E torna indietro, perchè abitiamo ai due lati opposti della città
Camminiamo a fianco a fianco senza dire una parola, col cruccio di non
sapere più che dirci, e quanto più procediamo più
sento aumentare la mia malinconia e la sua; specialmente se ha bevuto
lo spio in viso di traverso, ogni volta che passiamo sotto un fanale,
per vedere se per caso non abbia le lacrime agli occhi. Mi pare sempre
che stia lì per piangere (1). Cerchiamo di svagarci, dando un
calcio a qualche scatolo vuoto di latta trovato nella via, o se una
finestra illuminata si stacca sulla massa buia delle case con la sua
nudità improvvisa, solleviamo il capo a guardarla, con lo stesso
antico stupore con cui si continua a guardare il corso delle stelle
cadenti, e allora Carmine dice:
- Forse lì dentro stanno facendo all'amore. Dev'essere il geometra
Pennetta con sua moglie.
- Oppure, svoltati per via della Zita, fa cenno alla porta di Ernesto,
un incisore che è uno dei rari amici che abbiamo ora in comune,
e fa:
- Ernesto starà dormendo. Chissà come andrebbe in furia
se gli dessimo una svegliatina.
Proseguiamo e questa volta ha ormai esaurito ogni risorsa. Restiamo
prigionieri del silenzio notturno, solo di tanto in tanto rotto da colpi
battuti a portoni lontanissimi, da qualcuno che ha dimenticato la chiave;
se ne diffonde un'eco che dovrebb'essere visibile, se non fosse per
l'oscurità, come il levarsi del vento su una strada polverosa
o l'ampliarsi del cerchi nell'acqua quand'è caduta una pietra.
E veramente quei colpi sono delle pietrate contro il silenzio.
- Ecco uno che s'è dimenticato la chiave di casa.
Così arriviamo alla mia porta, e lì io penso: "sarebbe
meglio che me ne andassi a dormire", ma così non ci possiamo
lasciare, e allora, mentre fa cenno di salutarmi, io gli dico: - Non
entri? -, con un tono di voce meravigliata, e lui entra, in punta di
piedi, e ce ne andiamo dritti in cucina, dopo aver chiuso alle nostre
spalle tutte le porte di passaggio perchè non si svegli mia madre
sentendo le nostre voci.
A volte mi dice:
- Mi sono trattenuto con don Luigi per un lavoruccio.
Don Luigi è uno dei suoi padroni, o forse dovrei dire dei suoi
clienti, perchè Carmine gli briga pratiche in tribunale, corrompe
per lui gli impiegati delle Imposte e delle Assicurazioni sociali, dà
le paghe ai suoi operai, è infine il suo uomo di fiducia; ma
non è uno stipendiato perchè percepire una mercede sarebbe
per lui una degradazione e il lavoro gli sembrerebbe lavoro, cioè
cosa insopportabile e indegna d'un uomo. Ciò ch'egli fa per don
Luigi lo fa per amicizia, e l'amicizia non gli vieta di gradire il dono
d'una damigiana di vino, o di una bigoncia di fichi secchi, o di un
pò di formaggio, o di noci, secondo le stagioni e in ogni ricorrenza
festiva.
Ugualmente, quando ha bisogni di danaro, è perfettamente naturale
che egli lo chieda in prestito all'amico il quale si sentirà
in dovere di darglielo, per disobbligarsi delle sue cortesie, e non
lo vorrà più indietro, non penserà di riaverlo.
Ma don Luigi non è il solo amico che Carmine aiuti nella sue
faccende. Molte volte, quando l'incontro la notte, sta ritornando da
qualche paese della provincia, dov'è andato a fare i conti a
fattori o a mercanti di vino di questi spaventosamente arricchitisi
nei tempi presenti di calamità nazionale. Egli dice: "a
fare la contabilità", ma sospetto che non si tratti d'altro
che di contare il danaro a gente che non è neanche in grado di
sapere quanto ha stipato in cassettoni, madie e financo il saccone del
letto; al punto che se non hanno una persona di fiducia sottomano, son
costretti, se hanno da fare dei pagamenti o spartirsi dei guadagni,
a contare il danaro a peso, sulla bilancia. Carmine ogni quindici o
venti giorni, quando ne ha voglia, prende il treno e va a fare una visita
a qualcuno di questi suoi protetti. Dopo aver contato per tutto il giorno
pile di biglietti da mille, per milioni, cena familiarmente con loro
e se ne torna via senza aver voluto un soldo di compenso, suscitando
col suo disinteresse ammirazione e rispetto in questi avidi e diffidenti
contadini, i quali non dimenticano il loro amico e non saprebbero negargli
nulla se si degnasse di chiederlo.
CAPITOLO II
In un mattino di
soie, pulendomi con la mano i vestiti che si erano imbiancati di polvere
mentre rotolavamo per terra, io ed il compagno che mi aveva accusato,
e a cui mi riuscì di dare una buona scarica di pugni, gettai
un'ultima occhiata a quei vecchi pilastri di tufo e al busto torvo e
impettito del poeta della terza Italia, ritto su un'erma (2) nel mezzo
della piazzetta, e voltai le spalle per sempre a otto anni di vita liceale,
ai compiti di latino copiati all'ultimo momento, ai banchi sui quali
con una vecchia lama da barba avevo aggiunto il mio nome a quello di
mio padre; sebbene però, devo confessare, con assai meno abilità
e minuziosa eleganza di incisore.
Dopo aver fatto cerchio intorno a noi mentre ci battevamo, senza che
osassero d'intromettersi come in ogni altro caso avrebbero fatto, i
ragazzi mi guardavano partire con un silenzio pieno di rispetto e si
sporsero sulla via per seguirmi con gli occhi fino a tanto che non avessi
svoltato l'angolo. Ero stato espulso da tutti i licei del Regno. Mi
cacciai le mani in tasca e mi diressi verso la piazza. Il campanello
d'entrata che in quei momento sentii suonare con la sua consueta e balorda
frenesia non aveva più nulla a che fare con me.
Guardavo il fresco oro del sole scendere per i cornicioni delle case,
i commessi che aprivano i negozi, le donne seguite dai facchini con
le sporte della spesa, gli impiegati che andavano agli uffici, e infine,
con commiserazione, qualche scolaro in ritardo che correva coi libri
sottobraccio verso la scuola, e mi sentivo orgoglioso della mia libertà.
Fino al giorno prima ero stato uno degli studenti più scapestrati
del liceo, e mi sembrava che la scuola non avesse nessuna presa sul
mio spirito insofferente; invece solo ora, da questa sensazione così
piena e finora sconosciuta della libertà arguivo che ero sempre
vissuto nel giro della scuola, anche quando più mi pareva di
calpestarne leggi e principi.
Per accedere alla piazza vi erano diverse vie, ma una sola che conducesse
diritto alla sua anima segreta; era una stradina corta e angusta, chiusa
ai due sbocchi al transito dei veicoli, di cui del resto sarebbe a stento
potuto passarne uno solo, e fittamente punteggiata di oscure botteghe,
nipoti degli antichi fondachi veneziani di cui testimoniava il nome
stesso della via, che era via San Marco. Un via vai di gente vi si scontrava,
urtandosi, fermandosi a guardare alle vetrine, scomparendo entro i negozi'.
Quando questi erano aperti, e le loro porte fermate al muro all'esterno,
non si vedeva un solo centimetro di muro sui due lati; i commessi venivano
avanti sulla porta per far vedere alla luce la qualità d'una
stoffa al cliente, o incerto o diffidente, i padroni uscivano di corsa
sulla via per chiamare indietro un compratore con cui non s'erano messi
d'accordo sul prezzo, e invitarlo a una nuova, più favorevole
contrattazione. Per lo più si trattava di intere famiglie, perchè
l'acquisto d'un abito o d'un lenzuolo non era cosa da farsi senza che
tutti I membri della famiglia vi' avessero dato il loro parere. lo guardavo
queste scene con occhi nuovi e divertiti quando mi trovai davanti Carmine
Valente.
- E così sei disoccupato?
- Già - diss'io, e ci mettemmo a camminare insieme. E questo
fu strano, perchè conoscevo di vista Carmine non sapevo io stesso
da quant'anni. A quei tempo abitava dalle parti della mia casa, nei
pressi dell'Acquedotto, e non è da escludere che sia stato lui
uno di quei ragazzi più grandi che ci venivano a fare dispetti,
quando giocavamo io e i miei coetanei, Portandoci via la nostra palla
e non rendendocela se non dopo che il padrone di essa li aveva inseguiti
per un pezzo piangendo o insultandoli o scagliando loro delle pietre,
a seconda del carattere. Ma io lo ricordavo sempre così: coi
pantaloni lunghi che gli cadevano sulle scarpe come due vecchi tubi
scontorti, e sempre della stessa statura, bassa e già fermatasi
nel crescere, e la stessa aria d'uomo fatto, di cui non si riusciva
a capire l'età che avrebbe potuto essere di poco maggiore della
mia, com'era di fatto, o anche di dieci anni di differenza. Aveva gli
occhi chiari, coi quali sembrava non guardasse nessuno, e nello stesso
tempo nulla gli sfuggiva. Ora Carmine ed io ci salutavamo, come dicevo,
da anni ed anni, ma non più che questo. Aveva lasciato le scuole
da moltissimo tempo, ed era passato dall'altra parte, al di là
della nostra scatola e dei suoi feticci, dei suoi pregiudizi, della
sua allegria più stonata d'un compito, e così poco immaginosa
nelle sue manifestazioni da non differire gran che da quella dei nostri
genitori, e in noi stessi non soggetta a variazioni, sicchè,
a parte i disdegni per l'età, non v'era nessun altro schermo,
nessun scambio possibile da un ragazzetto del primo anno di ginnasio
a un giovane dell'ultimo anno di liceo, perchè il linguaggio
era identico. E finchè questo filo invisibile e sicuro aveva
legato me pure, io non avrei mai immaginato che Carmine sarebbe stato
mio amico.
- Andiamo a prendere il caffè? - mi propose.
- Non ho un soldo - Ed era vero, perchè quanto m'era successo
a scuola mi aveva messo in condizioni di non poter chiedere nulla a
mia madre e fino a quel momento io non sapevo ci fosse alcun altro modo
di avere del danaro.
- Non importa. Per questa volta posso pagare io. Questa mattina sono
uscito col fioretto.
- Col fioretto della Madonna? - gli chiesi ridendo.
- Che Madonna e Madonna! Col fioretto della scherma. Quando Carmine
esce la mattina col fioretto non fallisce il colpo, ricordatene!
- Sta bene. Me ne ricorderò. E ci sedemmo a un tavolo davanti
al Caffè
Esperia.
- Giacinto - chiamò Carmine, - portaci due caffè.
- Subito, signor Carmine - disse il cameriere con tono di rispettosa
confidenza, ed entrò dentro a ordinarli al banco.
Io ero stupito. lo ed i miei ex compagni di scuola sapevamo in media
due o tre aoristi greci per ciascuno, ma ignoravamo il nome dei camerieri
della nostra città, e tanto meno essi conoscevano il nostro.
Tutt'al più il cognome, perchè di noi non contava se non
di chi eravamo figli.
Tra una sigaretta e l'altra passammo buona parte della mattina, nel
corso della quale ci sfilarono davanti centinaia di persone d'ogni condizione
sociale ed età, e tutte Carmine salutava familiarmente per nome.
Quando fu mezzogiorno si alzò e disse che doveva andare a un
appuntamento:
- Cosa fai stasera? - mi chiese.
- Non ne ho idea - E infatti da un giorno all'altro io m'ero trovato
come in una città straniera, in cui Carmine era la prima persona
di cui avessi fatto la conoscenza.
- Allora vieni con me. Fra le undici e mezza e la mezzanotte mi troverai
dietro il Castello. - E il mio amico Carmine si allontanò, con
la sua curiosa andatura insieme lesta e guardinga, come ad ogni passo
tentasse il terreno col piede avanti di posarvelo: ciò ch'era
buffo a vedersi in pieno giorno, e nella piazza principale della nostra
città.
CAPITOLO III
Che ne è
di quegli uomini che ogni sera, vestiti di nero, passeggiavano nella
piazza da soli o, in piccoli capannelli ecc. ecc.? La piazza era molto
vasta (ora lo è di più, ma non è più una
piazza, è un vuoto), e lo appariva ancora di più perchè
circondata da case molto basse e bianche. La occupava nel centro un
enorme marciapiede rettangolare con in mezzo, elevata su un'alta colonna,
la statua del Santo protettore. Su questo marciapiede, nel senso più
lungo, nereggiava questa folla serale, andando avanti e indietro e fermandosi
ogni volta sull'orlo del marciapiede prima di tornare. Saliva verso
il Santo benedicente e il largo cielo di catrame un continuo, confuso
vapore di parole, e lassù in alto rimaneva sospeso; finchè,
quando il grande orologio pieno di polvere segnava le undici, a poco
a poco questa massa si diradava e in breve non restava più nessuno.
Nella piazza divenuta deserta io mi trattenni, ormai solo, qualche tempo
ancora, col brusio di quelle parole che ancora durava sotto il cielo,
ma disfacendosi, e annoiato di quella prima esperienza così vacua
e noiosa che la mia nuova vita mi proponeva. Non avevo voluto andare
in cerca del miei ex compagni di scuola, il cui linguaggio ormai non
m'interessava più, e la mia presenza fra loro avrebbe ora richiesto
un'infinità di compromessi d'ogni specie, dei quali lo ero sdegnoso
ed essi incapaci (per la loro unilateralità). Ma quel mortificante
spettacolo di quella passeggiata serale, di ogni sera per anni ed anni,
aggiuntavi la farsa luttuosa di quegli abiti neri e la mancanza totale
d'una donna che interrompesse la monotonia della vista, nonchè
la minuziosa perfezione di quella abitudine: con la fermatina ogni tanti
passi e la sosta più lunga alla fine del marciapiede, prima di
voltare, e l'occhiata all'orologio, tutto ciò mi dava da pensare,
contrastando con la mia oscura opinione sulla riuscita d'un uomo. Quando
furono le undici e mezza mi diressi ali appuntamento passando di sotto
il mercato coperto. Era giugno, e già in questo mese il caldo
da noi comincia a farsi sentire; così sotto li mercato fermentavano
insieme dei postumi odori di pesce e di frutta marcia, e qua e là,
sui banchi di marmo, vagabondi o forse pescivendoli e ortolani venuti
dalla costa o dalla campagna dormivano sdraiati, col capo fra le braccia,
di tanto in tanto rivoltandosi su un fianco nel sonno e sospirando.
lo passai fra i banchi, per abbreviare il cammino e mi trovai alle spalle
del Castello, sul cui fianco è appoggiato il mercato.
Guardato che ebbi a una a una tutte le panchine di ferro fra gli alberelli
degli oleandri senza trovare Carmine mi diressi verso un gruppo di persone
di cui sentivo le voci all'estremità del piazzale. Erano sette
o otto giovanotti che discorrevano seduti su delle panchine che avevano
divelto dal suolo e accostate fra loro. Era con essi Carmine che riconosciutomi
al buio mi chiamò, e quando mi fui avvicinato mi disse ridendo:
- Prenditi una sedia e siediti.
Sedutomi sull'orlo del marciapiede, cercai di riconoscere i suoi compagni,
ma non potevo, perchè per lo più era gente che non avevo
mai veduto, o di cui non m'ero accorto, fuorchè uno, Albertino
Maggio, un giovane alto e snello come un levriero, sempre vestito d'un
abito blu da cui' spiccava una camicia di seta bianca dal colletto alto.
Aveva dei lineamenti regolari e abbastanza belli, ma spiaceva un'aria
d'arroganza stanziata stabilmente sul suo viso e sottolineata da un
paio di grossi baffi nerissimi. Si sarebbe detto inoltre che non vi
era nessuna azione davanti alla quale un uomo come lui sarebbe arretrato,
e di fatti mi pareva d'aver sentito raccontare sul suo conto dei fatti
loschi, ma li avevo completamente dimenticati. Come dicevo, nonostante
la mia scapestrataggine, ero vissuto fino ad allora sempre nell'ambito
della scuola e in funzione di essa, cosicchè la mente s'era avvezzata
a non ritenere se non quanto a questo fine potesse servire, scartando
ogni altra notizia che non vi trovasse un posto o un impiego. Comunque
la presenza di Albertino mi contrariò, e per un istante mi chiesi
se era lì veramente il mio posto.
Mentre lo facevo queste riflessioni, Carmine riferiva con grande copia
d'i particolari un fatto accaduto all'albergo Risorgimento, il migliore
albergo cittadino. Un tale Mario, che alcuni anni prima doveva aver
fatto parte della loro comitiva, s'era seduto a un tavolo di poker in
uno dei salotti dell'albergo, con altri tre, fra cui un impresario teatrale,
Alfredo Fiore. Giocavano da un paio d'ore e questo Mario Il aveva quasi
lasciati senza una lira davanti, quando Alfredo Fiore aveva estratto
la rivoltella e posatala sul tavolo gli aveva detto freddamente.
- Tu sei un baro. Alzati, lascia il danaro che stai vincendo e va' via
immediatamente.
Il baro s'era fatto bianco come un fazzoletto (3) lavato e a momenti
cadeva dalla sedia. S'era alzato ed era uscito barcollando, senza una
parola.
Stettero a riflettere per qualche tempo, durante il quale io credetti
che ogni loro interesse per quell'argomento si fosse esaurito, quindi
uno che chiamavano il Barone, un giovane dall'aria viziosa e malata,
esclamò astiosamente:
- Che idiota! farsi squalificare in questo modo! E dire che con noi
si dava un mucchio d'arie, perchè aveva cinque o sei anni più
di noi.
- Va bene - intervenne Carmine - Ma l'errore dov'è? Mi sai dire
dov'è l'errore?
- L'errore è che è un idiota.
- Nossignore. Ricordatevi che nessuno è idiota. A tutti può
capitare che a un certo momento si passi per idioti. Bisogna vedere
se Mario poteva evitare o no questo incidente. lo dico di sì,
perchè sapeva benissimo chi è Alfredo Fiore, e nessuno
lo obbligava a sedersi allo stesso tavolo con lui. E poi c'è
la colpa dell'ingordigia. Io lo conosco bene, ha un'ingordigia che l'acceca.
Perchè per saper fare, ci sa fare, e se si fosse accontentato
di vincere moderatamente, di fare soltanto qualche buon colpo di tanto
in tanto, Alfredo Fiore, con tutto che è Alfredo Fiore, non se
ne sarebbe accorto mai e poi mai. Ti pare, Vittorio? - E si rivolse
verso di me.
Non conoscevo queste persone, e oltre a intendermi poco di tali fatti,
li giudicavo in partenza disonoranti, quindi non avevo mai creduto che
potessero essere fatti oggetto di un'indagine. Con tutto ciò,
non avrei amato per nessuna cosa al mondo scoprire di fronte a quella
gente, come di fronte a chiunque, la mia inesperienza, cosicchè
gli diedi ragione.
- La verità - disse Albertino - è che per fare quel lavoro
bisogna essere prima di tutto un uomo. A me Alfredo Fiore quello scherzo
non me l'avrebbe fatto.
- Siamo d'accordo - disse Carmine -. Bisognava non mettersi in quelle
condizioni.
Albertino non gli rispose direttamente. Continuò:
- Sapete cosa fece un duca francese in un caso come questo? Stavano
giocando e uno dei giocatori gli disse: "Lei sta barando."
Gli rispose: "Sì, è vero. Ma non mi piace che me
lo dicano", e gli diede uno schiaffo. - Senonchè Mario non
è un duca francese - ghignò il Barone.
- Certamente Mario non è un duca francese. Ma chiunque può
dare uno schiaffo a un altro che lo accusa di barare. A meno che non
si faccia scoprire con gli assi nella manica, ma allora è un
volgare impostore e si merita qualsiasi cosa. Quando uno sa il fatto
suo, e Mario lo sapeva, se anche uno degli avversari a un certo momento
s'accorge del trucco non è in grado di dimostrarlo. Allora non
gli resta altro che alzarsi e non giocare mai più assieme con
lui. Ma Alfredo Fiore sapeva chi è Mario, e che con lui poteva
permettersi quello scherzo.
Stettero per un po' ragionando, e chi diceva una cosa, chi un'altra;
poi Albertino propose d'andare a mangiare il cocomero. Trovammo verso
il mercato la tenda d'un cocomeraio che dormiva su una coperta, fra
i globi massicci dei frutti; accese una lampada ad acetilene e con un
suo sottile coltello ci andava tagliando e distribuendo le fette del
cocomero che avevamo scelto. Non sapeva di niente, è però
vero che non era ancora la stagione, e non potevamo aspettarci nulla
di più. Ma quando fu il momento di pagare, tutti ci demmo indietro
come se la cosa non ci riguardasse; il solo Albertino rimase è
pagò, contando il danaro alla luce dell'acetilene.
Ci raggiunse su un viale, per cui c'eravamo avviati, e quando fu a qualche
passo da noi cominciò a dire con una voce calma e sprezzante:
- Siete dei pezzenti, dei miserabili. Vi è piaciuto il cocomero,
sì? Se ne farà veleno nel vostri stomaci. - ed altre frasi
di questo genere. Gli altri non dicevano nulla. Allora io andai vicino
a un albero di leccio, di quelli che c'erano sul due fianchi del viale,
aridi e polverosi, e scorticati dalle, capre che a quel tempo i lattivendoli
mungevano in città, davanti alle porte dei compratori, e dissi:
- Vuoi vedere cosa me ne faccio del tuo cocomero? - e mi misi a orinare
contro l'albero cercando di far più rumore che potevo.
Sorsero nell'oscurità alcuni istanti di silenzio, gli altri fingevano
di non aver sentito, ma tacevano stupiti e in attesa. Finchè
Albertino disse con voce alta e chiara:
- Non parlavo per te. So bene che tu non sei come questi pidocchi.
Seguendo quel viale sorpassammo le ultime case della città, dei
piccoli dadi dipinti in rosa o turchino, quando non addirittura del
colore della pietra nuda, e generalmente non finiti, perchè i
loro proprietari, per lo più dei muratori, via via che mettevano
qualche soldo da parte ora compravano la pietra, ora gli infissi, ora
si pagavano la mano d'opera.
Venne fuori la luna; era ciò che la notte aspettava; difatti
le tenebre erano state fino a quel momento come acerbe e disunite. Vedevamo
la sua luce, da principio velata da vapori rossastri, rischiararsi sulle
pietre dei muretti e le pale dei fichi d'india che vi s'affacciavano,
e nel balenare della luce parevano ombre che si muovessero. Quella notte
imparai un nuovo sistema per rubare nei campi. Quando mi trovavo in
campagna coi miei compagni di scuola, saltavamo i muretti di cinta,
fatti di pietre messe le une sulle altre, e in qualche punto un po'
diroccati e, fatta rapidamente man bassa sul frutti che trovavamo alla
nostra portata, e che erano solitamente fichi d'india, uva e fichi,
risaltavamo il muretto e solo dopo allontanatici sulla strada del fondo
ove avevamo effettuato la nostra scorrerla consumavamo la nostra refurtiva.
Ma non potevamo portar via più di quanto potessero contenere
i nostri fazzoletti, e oltre a ciò bastava che il più
pauroso risaltasse il muro perchè anche gli altri se la battessero
in fretta, poichè nessuno voleva restar ultimo, quindi non avevamo
modo di scegliere i frutti che prendevamo talvolta acerbi, tal'altra
ormai passati, e dei grappoli d'uva, quand'era matura, nella corsa ci
ritrovavamo in mano il solo raspo. Invece questa volta, passato il muro,
io vidi questi miei nuovi compagni aggirarsi con calma per le siepi
di fichi d'india, in cerca delle pale dove fossero i frutti più
maturi, e trovatili staccarli e aprirli con un coltello a serramanico
che avevano tutti in tasca e mangiarli col più grande agio del
mondo, come fossero stati a casa propria. Io non avevo coltello e non
potevo imitarli, ma ognuno di essi ne tagliava ogni tanto uno per me
e così, credo, fini! per mangiarne più di loro, e intanto
non lasciai scorgere alcun segno che lasciasse comprendere il mio stupore
per tanta audacia, perchè è tale la feroce gelosia dei
nostri contadini che non esitano ad uccidere per un solo frutto che
sia stato staccato da una loro pianta, e tutte le cronache giudiziarie
dei nostri paesi sono piene di gente trovata uccisa con un colpo di
fucile fra i fianchi d'india. (Questo mi fa pensare che quella notte
c'era anche Gino con noi.) Ricordo anzi un fatto che era avvenuto quand'io
ero ragazzo. C'era una pianta di fioroni proprio sul confine fra un
fondo e la strada pubblica e metà dei rami di esso sporgeva dal
muricciolo sulla strada.
Tre ragazzi arrampicatisi avevano mangiato dei fioroni da questi rami
e di lì a un poco erano morti avvelenati. Per la rabbia di non
poter difendere quel pochi frutti, il padrone del fondo aveva innestato
del veleno al suo albero. Ma non tardai a riconoscere che vi era molta
più accortezza nella temerarietà degli amici di Carmine
che non nella nostra precipitazione, che ci avrebbe impedito di accorgerci
d'un contadino che fosse venuto di nascosto alle spalle di uno di noi,
il quale sarebbe rimasto solo, mentre gli altri fuggivano, alle prese
col feroce assalitore. Invece, stando lì calmi e attenti, non
c'era verso che qualcuno si avvicinasse senza che subito lo scorgessimo,
e potevamo uscire tutti insieme sulla strada, e lì, se il nostro
numero o il nostro sangue freddo non avesse un pò calmato la
sua collera, avrebbe dovuto affrontarci tutti insieme.
CAPITOLO IV
Quand'ero ragazzo,
alle spalle del Castello, che occupava con la sua tozza mole una vasta
area cittadina, si stendeva un piazzale o meglio un vuoto improvviso
che nei giorni di mercato si colmava di carri variopinti e cavalli dei
villani che venivano da ogni parte della provincia a comprare e a vendere.
Negli altri giorni della settimana e la sera, era un luogo quasi deserto,
e desolato così dalla terra battuta e senza un filo d'erba che
dalle corrose mura grigie del Castello arrivava sino al primi orti verso
la campagna, come dall'ossessione dei fatti di sangue che lì
si svolgevano. Era lì infatti che la malavita e i facchini di
mercato decidevano coi coltelli le loro questioni d'onore e un appuntamento
"dietro il Castello" equivaleva senza alcun equivoco ad una
sfida. Persino fra i ragazzi, alle scuole pubbliche, c'era l'uso di
andarsi ad azzuffare dietro il Castello, ma in pieno giorno; perchè
di sera nessuno, neanche le guardie, si sarebbero arrischiate in quel
pauroso territorio. E ricordo che quando, spinto da un'irresistibile
affetto, io deviavo passando di lì all'uscita di scuola, vedendo
delle larghe chiazze di sangue ancora fresco e che la terra pareva si
rifiutasse di assorbire, sangue presumibilmente di qualche bestia squartata,
ne provavo un vivo senso di orrore che mi oscurava la vista, non dubitando
che in quel punto fosse stato ucciso un uomo.
Da quel tempo il luogo era molto cambiato: il suolo nudo era stato ricoperto
di cemento, fra cui sorgevano aiuole e panchine, e sotto le mura siepi
di giovani oleandri; dall'altra parte, dei palazzi erano sorti nascondendo
la campagna; infine s'era provveduto il luogo della illuminazione di
alcuni fanali, parte dei quali, come del resto in tutta la città,
venivano spenti coll'inoltrarsi della notte. Questa preoccupazione di
risparmiare la luce elettrica è un tratto curioso nella psicologia
del nostro paese ed assume un aspetto maniaco. Ricordo che quand'ero
ragazzo la sera in casa nostra si accendeva la luce in una sola stanza,
e lì dovevamo stare tutti, chi a studiare, chi a leggere, chi
a cucire; ero un ragazzo molto studioso, e avrei passato la notte sui
libri se mi fosse stato possibile, cosicchè era sempre un momento
crudele per me l'ora in cui per ragione di luce elettrica dovevamo metterci
a letto tutti alla stessa ora; ma quando avevo del romanzi, di cui ero
avidissimo, non riuscivo a resistere e, stato alquanto tempo al buio
aspettando che la casa si addormentasse, accendevo la luce e leggevo,
a volte sino all'alba, se prima non si svegliava mia madre e dalla sua
camera non mi gridava di dormire; ciò che fingeva di fare soltanto
per la mia salute, ma io sapevo che era anche per la luce.
Ed anche oggi questa preoccupazione s'è conservata nelle famiglie
più antiquate, anche se ricche, e non c'è verso che qualcuno
entri in una stanza e accenda la luce senza che uscendo non spenga automaticamente,
o che, avendo dimenticato di farlo, subito gli altri familiari non lo
riprendano. Credo che ormai e questa abitudine non presieda più
l'accortezza, ma quasi una seconda natura nella quale una lampara accesa
inutilmente provochi inconsciamente una reazione fisica, un senso di
fastidio. Il fatto è che siamo un paese povero; dalle nostre
spalle ci spiano secoli e generazioni di miserie e di privazioni, e
questo ci è rimasto dentro, nè la ricchezza degli individui
può cancellare le cieche apprensioni del sangue. Si può
possedere un'enorme ricchezza e dilapidarla a piene mani in modi, come
ad alcuni accade, addirittura folli; ma in un minutissimo indizio trasparirà
l'antica indigenza della razza; non so se accada, ma può accadere
che un uomo perda o vinca al gioco una fortuna, e rincasando la notte
stia attento a non tener accesa in casa più d'una lampadina per
volta. Questa divagazione, venutaci per caso, non è forse inutile
a spiegare alcuni pensieri o gesti persino nei più spregiudicati
e ribelli della nostra generazione.
i nostri convegni notturni avevano dunque luogo nel piazzale alle spalle
del Castello, che aveva ormai perduto l'antico aspetto e il fosco alone
che lo circondava dieci anni prima; i miei compagni andavano per tutt'altra
ragione, ed era che con l'avanzare dell'estate quello era il punto più
fresco della città durante la notte; un filo di vento, provenendo
dalla costa, riusciva a infiltrarsi fra i fabbricati nuovi e a rigare
lo stagno di scirocco che ci era sopra.
Se non li trovavo là, non mi era difficile trovarli. Mi mettevo
a girare per la città, e di lì a poco, nel silenzio della
notte, solo interrotto dai colpi battuti a un portone o dal passo elastico
e spento di qualche cane randagio, subito sentivo le loro voci a due
o tre vie di distanza davanti a me, o dietro un blocco di case. Talvolta,
prima di raggiungerli e unirmi con loro, mi divertivo a seguirli per
qualche tempo per vedere che facevano o dicevano, ed era molto curioso
spiarli mentre a loro volta spiavano tutto, frugando nella città
addormentata come in un loro vecchio cassetto. Se tremolava una luce
di candela a una finestra o a una porta socchiusa per far cambiare l'aria,
essi sapevano chi era il morto; se colava dell'acqua da un balcone,
essi potevano dire chi era il vecchio che cercava d'ingannare l'insonnia
annaffiando i garofani o i gerani, e se una finestra si chiudeva con
cautela e qualcuno fingeva di trovarsi a passare per caso per quella
via, era un amore segreto che domattina non lo sarebbe più stato
per nessuno. Ogni volta poi che si pronunziava il nome d'una persona,
ecco che si stabiliva una gara a chi ne sapeva di più sulla sua
vita, o a chi sapeva giudicarla con più arguta malizia, mostrandone
gli errori e gli aspetti ridicoli.
Ma a prescindere da un eventuale sfruttamento immediato che potesse
farsi di tali nozioni, devo escludere che ciò che li induceva
a procurarsele fosse soltanto una morbosa curiosità; parlo specialmente
per Carmine ed Albertino; non escludo che alcuni di noi potessero farlo
soltanto per una mania del pettegolezzo, che d'altronde è assai
diffusa nel nostro paese, ma per Carmine e per Albertino si trattava
di qualcosa di più; nel fondo di ogni fatto e di ogni esistenza
essi cercavano qualcosa, qualcosa che doveva servire loro nella lotta
per la vita, uno strumento di dominio che compensasse le condizioni
di svantaggio da cui partivano, o semplicemente uno strumento di dominio.
E io notavo questa differenza fra loro, che Carmine lavorava su questo
materiale cercando, attraverso le rozze involuzioni e le lacune della
sua mente, di estrarre delle regole per la vita, ciò che, parlando,
lo induceva alla sentenziosità, Albertino invece ne faceva un
uso più diretto, ciò che voleva era conoscere a fondo
i suoi avversari e sapere in quale punto potevano essere colpiti. Anche
per un altro, per il barone, si può forse indicare che cosa vi
fosse dietro quel pettegolezzo. Egli era in realtà il figlio
naturale d'una serva, alla cui morte, avvenuta da parecchi anni, egli
era stato raccolto da un barone sordo e caduto in miseria che era stato,
al tempo della sua nascita, il padrone di sua madre. Come fosse stato
interpretato quest'atto di pietà lo diceva chiaramente il titolo
che tutto il paese dava dapprima per scherno poi per abitudine a questo
bastardo, il quale si rallegrava delle disgrazie di tutta la città
e non c'era per lui altro motivo di gioia che potesse eguagliare la
voluttà della maldicenza. Gli altri erano, rispetto a Carmine
e ad Albertino, delle figure affatto secondarie, fuorchè Gino,
che però era troppo fatuo per occuparsi dei fatti altrui.
Coi passare dei giorni finii col vedere i miei amici anche di giorno.
Ci si trovava al caffè Esperia, o agli altri due caffè
in piazza, e se non c'era nessuno bastava appostarsi per dieci minuti
a uno degli imbocchi di via San Marco perchè di lì a dieci
minuti apparisse Albertino o Carmine o Gino o qualcuno degli altri.
Ma non tutti i compagni notturni si vedevano durante il giorno; il loro
posto veniva preso da altri che vedevamo solo verso mezzogiorno, o il
pomeriggio tardi, quando uscivamo dopo aver dormito.
Un giorno eravamo Carmine ed io soltanto. Degli altri non si vedeva
nessuno. Allora m'invitò a fare una partita a biliardo per passare
il tempo.
Ma io non so giocare a biliardo. - obiettai.
Non sai giocare a biliardo? Ma tu, da che mondo sei venuto? Vieni a
imparare. Ci alzammo e infilammo una dopo l'altra una serie di veicoli
bianchi, dal lastrico scalcagnato, e le porte a vetri che davano immediatamente
sulla strada e, aperte, lasciavano vedere dei letti giganteschi e sui
mobili delle enormi rose rosse di carta uscenti da un vaso di vetro
o statuette di santi in cartapesta protetti da una campana di vetro.
Sulle soglie le madri spidocchiavano i figli con un'energia che strappava
loro urli di dolore; altri bambini seminudi giocavano a campana o a
stacce nel mezzo della via. Talvolta, se una carrozza girava l'angolo,
al rumore delle ruote sul lastrico dirupato da ogni porta uscivano madri
scarmigliate imprecando contro i figli con stridule voci e richiamandoli
in casa, o precipitandosi come furie a prendere il bimbo più
piccolo seduto in mezzo alla strada. In questa zona vi era una saletta
da biliardo, quasi clandestina, o forse lo era davvero, per non pagare
le tasse, in una stanzuccia bianca di calce, senza nemmeno una sedia
per sedersi, e un biliardo dal panno rammendato in più punti
e le sponde sorde, che attutivano l'impeto delle palle e ne alteravano
in parte gli effetti. Si pagava una lira l'ora. Carmine si tolse la
giacca e tirandosi su i pantaloni spiegò:
- La prima regola è prendere palla. - e incominciò la
lezione.
Fu qui che imparai a giocare a biliardo. Carmine mi spiegava ogni colpo
e mi riprendeva burlandosi della mia imperizia tornando a tirar lui
i colpi che io avevo sbagliato.
- Occhio e gesso: ecco il segreto di questo gioco.
Quando non avevamo danaro nè io nè lui per pagare si lasciava
a credito, e così alla fine, siccome il vecchietto del biliardo
cominciava a darci fastidio, fummo costretti a cambiar sede alle nostre
lezioni, le quali erano per fortuna a buon punto. Passammo a una sala
molto più ben messa e frequentata, perchè ormai s'erano
chiuse le scuole e qui non ci fu bisogno di far debito col padrone.
"Qualcuno pagherà" diceva Carmine quando non avevamo
danaro, o anche: "Ogni mattina, dai due punti opposti della città,
escono di casa uno stupido con dei danari in tasca e un dritto senza
una lira. La notte, quando se ne tornano a casa, lo stupido non ha una
lira in tasca e il dritto ha la stessa somma con cui l'altro era uscito
la mattina", e infatti Carmine cominciava a sbagliare qualche palla
e a farsi vincere qualche partita da me, fingendosene arrabbiato. Allora
c'era sempre qualcuno che diceva che Carmine era un giocatore assai
meno bravo di quanto credeva di essere. Al che lui rispondeva:
- Non importa. Ho sempre qualche tuo soldarello alla banca -, ed altre
frasi con le quali pungeva il loro amor proprio fino a che non lo sfidavano
a giocarsi danaro. Quando questo avveniva, ci capitava di restare fino
alle tre e anche fino alle quattro senza mangiare, ma in compenso a
quell'ora usciti nelle vie deserte e assolate ce n'andavamo a mangiare
al migliore ristorante della città, dove tutti i camerieri badavano
al nostro servizio, perchè eravamo i soli clienti, e Carmine
Il conosceva tutti e se aveva una lira in più da spendere preferiva
darla a loro anzichè al proprietario, ciò che l'esperienza
mi dimostrò praticissimo.
Finchè un giorno non toccò a me. Vi era fra i frequentatori
della sala una specie di scimmione dalle lunghe braccia che gli penzolavano
lungo i fianchi, con un viso verde, non olivastro com'è frequente
fra noi, e come ho io stesso, ma verde, come se fosse stato tinto con
l'erba. Era oltre a ciò presbite, ciò che lo costringeva
a portare dei grossi occhiali. Sua madre, una vedova che aveva accresciuto
con la propria oculatezza una discreta eredità lasciata dal marito,
lo aveva fatto ritirare dalle scuole, delle quali del resto egli faceva
assai poco profitto, per non fargli sforzare la vista e lo teneva, nonostante
i suoi diciannove o venti anni, sempre come un bambino, dandogli più
danaro di quel che gli bisognava ma richiedendo in cambio che la sera
stesse a letto alle dieci. Come si può comprendere, Luigi (questo
era il suo nome) era uno dei migliori polli di Carmine, che sapeva per
che verso prendere la gente e con una o due frasette lo faceva riscaldare
e giocarsi il danaro con lui. Ma un giorno che Luigi, non convinto della
sua superiorità perchè Carmine non vinceva mai con un
forte distacco e cercava di non tirare dei colpi difficili se non quando
vi era costretto dal punteggio, lo sfidò,ancora una volta, gli
rispose ghignando:
- Mi dispiace portarti via così il danaro dalle tasche, e spesso
la notte non riesco ad addormentarmi per i I rimorso; ma se tu vuoi
proprio rifarti, oggi ti voglio dare un vantaggio: ci giocheremo il
danaro, ma lo non voglio toccare la stecca; giocherà per me il
mio allievo.
Quel giorno vincemmo molto di più perchè Luigi, giudicando
forse giunta la volta buona per rifarsi degli altri giorni, volle giocare
con poste molto più alte. Ma Albertino non era da meno nel prendersi
la sua parte; non c'era caso che gli sfuggisse nulla, e che non finisse
col trovare la ragione d'ogni cosa, e un giorno s'accorse che Luigi,
il quale da qualche tempo veniva a sedersi a diverse ore del giorno
all'Esperia, quando credeva che nessuno l'osservasse, lanciava delle
rapide, disperate occhiate verso un edificio che chiudeva un lato della
piazza, e subito capì di che si trattava. Un giorno, alzatisi
insieme Carmine e Gino, eravamo rimasti noi tre soli seduti nelle poltroncine
di vimini dell'Esperia, cosicchè non potendo approfittare della
distrazione di quando si è in molti, soffriva smaniando sulla
sedia per non poter guardare verso le finestre di quella casa. Alla
fine credette d'aver trovato un espediente, e finse di interessarsi
al volo delle rondini sulla piazza.
- Queste rondini! disse.
- Già, le rondini! soggiunse Albertino, e ci mettemmo a guardare
il cielo della piazza, dove effettivamente prima d'imbrunire pare che
tutte le rondini della città si diano convegno ogni sera sfrecciando
pazzamente contro i cornicioni delle case o la statua del santo e schivandoli
destramente all'ultimo momento, con dei gridi acuti che paiono, e forse
sono, di gioia per quella loro prodezza.
- Caro Vittorio - disse d'un tratto rivolgendosi verso di me -, tu credi
che sia un vantaggio essere un bel ragazzo, e invece le donne vanno
dietro ai brutti. Più son belle più devono essere brutti
gli uomini per essere di loro gusto.
- Tanto peggio per loro. - risposi, senza capire dove volesse arrivare.
- Lo vedi questo scimmione? - disse indicando Luigi - L'hai guardato
bene? ebbene una delle più belle ragazze di Lecce s'interessa
di lui, di un bestione di quella fatta.
- Come? Come?
Quando vidi che non s'arrabbiava e non andava via, come faceva tutte
le volte che lo insultavamo per la sua bruttezza, capii che Albertino
lo aveva il suo potere.
E' come ho detto! Oggi una ragazza mi ha domandato di te.
Chi era?
Ora chiedi troppe cose. Tanto più che non ho nessuna voglia di
parlare perchè non abbiamo ancora preso il caffè, non
è vero, Vittorio?
- Nè il caffè, nè le paste. - diss'io.
- E se vi pago il caffè?
- E le paste.
- Se vi pago il caffè e le paste?
- Allora è un'altra cosa. - E chiamammo il cameriere. (All'Esperia,
e agli altri caffè in piazza, i camerieri ci conoscevano bene
e quando andava a sedersi qualcuno di noi, non s'avvicinavano se non
dopo che erano stati chiamati.)
- E allora, chi è la ragazza - disse Luigi quando i caffè
e il vassoio delle paste riempirono il nostro tavolo fino a qualche
istante prima così desolatamente vuoto.
- Lo sai bene chi è. L Flora.
Se Luigi avesse potuto arrossire, in quel momento io vidi bene che sarebbe
arrossito.
- Cosa t'ha detto?
- Eh, mi ha chiesto di te. Mi ha chiesto: "Chi è quel giovanotto
che sta sempre seduto all'Esperia con te e con Vittorio?". E lo
le ho detto che sei un bravo ragazzo, figlio unico ecc. ecc.
- E poi?
- Poi le ho domandato perchè s'interessava tanto di te? E lei
ha fatto il viso rosso e si è turbata e non ha voluto rispondermi.
Luigi rimase dapprima senza parole, e i suoi occhi ruotavano negli occhiali
come in un lago di felicità, ma ben presto questa felicità
gli parve incredibile:
- Tu mi stai prendendo in giro - disse furiosamente -. Son tutte fandonie
per scroccarmi le consumazioni. - Ma avrebbe dato qualsiasi cosa per
essere smentito. - Tu, Flora neanche la conosci.
- Come non la conosco? Vittorio, diglielo tu.
- Ah, sì, bella testimonianza! Io non vi pago proprio nulla!
- e stava alzandosi per andar via, furibondo.
- Hai ragione di non crederci. - disse allora Albertino - Neanch'io
ci avrei creduto, se non l'avessi sentita con i miei orecchi, perchè
una fortuna simile poteva capitare a chiunque fuorchè a un brutto
bestione come te, chè staresti bene soltanto nelle foreste del
Brasile, e forse neanche lì ti vorrebbero. E se non fossi mio
amico, se proprio devo dirti la verità preferirei non avere nulla
a che vedere con questo sporco affare, perchè una bambina come
lei mi farebbe assai meno impressione vederla morta piuttosto che fra
le tue braccia. Invece, purtroppo, è proprio come t'ho detto.
E sono pronto a dartene le prove.
- Che prove? - disse Luigi, un pò calmato da quel discorsino
e tornando a sedersi.
- Se io ti dico che stasera uscirà alla tale ora precisa, dubiterai
che oggi le ho parlato?
- Questa è un'altra storia che mi vuoi dar da bere.
- Ebbene, sei disposto a scommettere che lo ti so dire l'ora precisa
in cui uscirà stasera?
- Quello che vuoi.
- Facciamo cento lire?
- Si, facciamo cento lire, ma metti fuori le tue; le mie eccole. - E
mi porse un biglietto da cento.
Albertino chiamò il cameriere e mentre gli parlava gli strizzò
l'occhio.
- Dammi un momento cento lire: ho una scommessa con questo signore.
- Il cameriere guardò Luigi, stette un attimo sopra pensiero,
poi mise fuori un biglietto da cento, che passò nelle mie mani,
allontanandosi' e fingendo di disinteressarsi della cosa; ma io vidi
bene che dalla porta dei bar ci teneva d'occhio. Albertino alzò
lo sguardo all'orologio della piazza: erano le sei meno cinque.
- Se alle sei in punto la ragazza non avrà passato il portone,
io ho perduto, sta bene?
- Sta bene.
Aspettammo cinque minuti senza dire una parola. Alle sei in punto, con
il sottile braccio infilato sotto quello del padre, Flora compariva
sotto il portone.
Quando Flora traversava la piazza, sempre al braccio del padre, sembrava
Venerdì Santo, quando passa, oscillante sulle spalle dei portatori,
la barca di tulle bianco in cui si vede disteso il corpo di Cristo morto,
e su di essa un angelo che vola con le piccole bianche ali aperte. Vestita
di organdis bianco, che le si apriva a campana dall'esile vita in giù
oscillando a ogni passo e in alto alludeva a un timido petto fra le
rigide pieghe della stoffa, Flora dava gioia agli occhi di chi la guardava,
essendo in lei stessa qualcosa di triste, come se la sua fragile grazia
potesse infrangersi come un cristallo da un momento all'altro. Questa
delicatezza, così contrastante col il cupo vigore delle donne
e degli uomini del nostro paese, e i suoi capelli biondi, che erano
a quel tempo cosa rarissima, davano l'impressione d'una creatura d'altri
paesaggi, forse di laghi dalle rive fiorite, o forse di romanzi, capitata
in esilio fra noi. Non vi era più assurdo contrasto che immaginarsela,
non dico altro, ma camminare accanto a quel lugubre spaventapasseri
che era Luigi, il quale da quel giorno ci veniva dietro, ad Albertino
e a me, come una capretta.
CAPITOLO V
Per non rovinare
i nostri piani per la serata, ce ne andammo a cinema, poi a cena al
ristorante, Albertino ed io, tutti contenti non tanto che fosse Luigi
a fare la spesa della serata, ma al modo con cui gli s'era portato via
le cento lire, anzi novanta, perchè dieci erano toccate al cameriere.
- Come hai fatto a sapere che Flora sarebbe uscita alle sei? - avevo
chiesto ad Albertino.
- E' semplicissimo. Mentre parlavo ha scostato un momento la cortina
per guardare la piazza e io ho visto che aveva il cappello in testa.
Lui stava guardando insieme con me, ma non aveva gli occhiali e non
s'è accorto di nulla.
Cara usanza dei nostri tempi; io non saprei dire se resiste anche oggi
fra le donne, ma non dovrebbero essere così; queste hanno ormai
tanta familiarità con la via, che non dovrebbero più provare
alcuna emozione uscendo di casa. Ma per le ragazze di quel tempo, uscire
- insieme col genitori, naturalmente - era un avvenimento e dopo essersi
vestite, già pronte, allora s'affacciavano fuggevolmente ai vetri
della finestra a guardare la scena in cui fra poco avrebbero fatto il
loro ingresso.
Albertino mangiava con una disinvolta eleganza che mi incantava, e versava
il vino nei bicchieri riempiendoli solo a mezzo; mettendoci un po' più
d'attenzione, ciò che, mi rendevo conto, era a scapito della
disinvoltura, io facevo del mio meglio per imitarlo, promettendo a me
stesso che avrei imparato a mangiare come lui. Nella mia famiglia, come
credo in ogni casa della nostra città, quando non si sorpassino
certi limiti, è lecito un certo abbandono delle forme, come a
dire che dal momento che si deve vivere uno accanto all'altro, non vale
la pena fare degli sforzi per aversi del riguardi a vicenda. Ma io decisi
che da allora in poi avrei mangiato in casa in tutto come se fossi stato
fra estranei o in pubblico. Questo proposito ebbe l'effetto di rinfrancarmi,
e quando ci alzammo per uscire traversammo la sala con tale sicurezza
così nel passo come nelle occhiate di tranquilla superbia che
dispensavamo a quanti erano in quel momento seduti agli altri tavoli,
e dei quali già Albertino mi aveva illustrato mentre mangiavamo
i casi e le genealogie, che il nostro aspetto doveva sicuramente esser
quello di due gran signori.
Io pensavo, poichè era la mezzanotte passata, che saremmo andati
a trovare gli amici al solito posto, ma Albertino, quando glielo dissi,
mi rispose:
- Perchè dobbiamo sciuparci una serata che abbiamo cominciato
così bene? - E ci perdemmo senza meta in un dedalo di viuzze
popolari tutte usci e scalette scoperte, dove attraverso le porte a
vetri, sentivamo i dormienti smaniare nel sonno, a volta pronunziando
parole oscure, e gatti disperarsi sulle terrazze, e persino i colombi,
se passavamo accanto a una chiesa, agitarsi nelle loro nicchie, perchè
il caldo era ormai molto forte e lo scirocco impediva alle pietre di
rinfrescarsi. Finchè uscimmo sul viale della stazione e ci sedemmo
su un sedile di cemento, dove stavamo chiacchierando, e io gli stavo
raccontando la prima volta che avevo conosciuto la donna. Era un caso
abbastanza ordinario, perchè la maggior parte dei ragazzi da
noi comincia così, iniziato, anzi sedotto dalla serva di casa;
ma vi era un particolare abbastanza ridicolo, ed è per questo
che lo raccontavo.
Avevo quattordici anni quando capitò in casa questa serva di
paese, che si chiamava Rosaria, a cui da principio non feci caso. Una
sera, avendo perduto tempo prima di andare a letto, passando accanto
alla stanza dove essa dormiva vidi uscire un filo di luce dalla serratura;
mi piegai e attraverso il buco la vidi che si spogliava in piedi, perchè
toltosi l'ultimo indumento, rimase un momento nuda, guardandosi il petto
con compiacenza e sfiorandolo con la mano in una lieve carezza, poi
spense. In quel momento io provai un grandissimo dolore d'essere un
ragazzo e desideravo non esserlo più ma non sapevo come fare.
Restato alquanto tempo dietro la porta, me ne andai a letto e suppongo
che stentai a dormire. Ma da quella sera dovetti cominciare a guardarla
in un certo modo che a lei fece capire molto di più di quanto
osassi pensare, e quand'eravamo soli in casa mi nascondeva i libri che
io leggevo, e entrava con mille pretesti nella stanza dove studiavo
ridendomi in faccia alle mie proteste che mi lasciasse in pace, e ottenendo
ogni volta che io per gioco mi gettassi su di lei per picchiarla. Una
sera, con un libro, che mi aveva preso da sul tavolo, mi attirò
fin nella sua camera, dove, mentre cercavo di strapparglielo, finse
di cadere svenuta sul letto. La sua straordinaria furbizia di contadina
gli aveva suggerito quello stratagemma per farmi vincere la mia vergogna,
e di fatti da quella sera io andavo ogni notte a trovarla nel suo letto,
quando tutti in casa dormivano e lì, senza che nè lei
nè io dicessimo una parola, stavo con lei come un ladro, con
l'alleanza del buio, mentre invece di giorno ero angustiato dagli sguardi
di complicità e dagli ironici sorrisi che Rosaria mi lanciava
persino sotto gli occhi di mia madre. E' curioso fino a che punto la
timidezza mi facesse diventare ipocrita e con che astuzia essa mi punisse
tenendomi in apprensione per tutto il giorno col ricatto dei miei peccati
notturni, e la notte invece spersonalizzandosi, per non imbarazzarmi
sicchè tutto avveniva furtivamente nel silenzio e nell'oscurità,
come se non si trattasse di lei e di me, ma di due personaggi di un
torbido sogno. Finchè una volta accadde che io mi confidassi
a quei pappagalli dei miei compagni di scuola, i quali cominciarono
ad allarmarsi dicendomi di stare attento perchè avrei potuto
avere un figlio, e come io domandavo come fare per evitare una così
spaventosa occorrenza, uno più saputo degli altri disse che bisognava
che la serva si lavasse dopo che eravamo stati insieme. Era facile a
pensarsi, ma come fare a dirlo a Rosaria? Per alcune notti io tentai
più volte di farmi forza e di dirglielo, ma tutte le volte era
come se una mano mi afferrasse alla gola impedendomelo, finchè,
crescendo l'ossessione del figlio, una notte mi feci coraggio e arossendo
vivamente nel buio le mormorai:
- Sarebbe bene che ti lavassi. - E qui mi fermai, non riuscendo a continuare.
Erano le prime parole dette fra noi nel corso di quelle notti e furono
anche le ultime perchè il giorno dopo essa non mi guardò
più in faccia e la notte non mi volle più nel suo letto,
e così le successive. lo capivo quale equivoco avevano creato
le mie parole, facendole credere che lo avessi voluto rimproverarle
un difetto di pulizia, ma non potevo far nulla, perchè piuttosto
sarei morto che spiegarle il senso delle mie parole, e così dovetti
privarmi del mio piacere, e fu sempre in collera con me, finchè,
avendo rubato del danaro e della biancheria da casa, mia madre non la
cacciò via.
Non so cosa stava dicendo Albertino di questa storia, quando sentimmo
dei passi e delle voci di donne e tacemmo. Venivano dalla parte nostra,
e dopo un poco apparvero nella luce d'un fanale; erano due donnine eleganti
che battevano i tacchi alti sul lastricato e parlavano ridendo. Quando
ci furono vicine, senza alzarsi, come io forse avrei fatto, e tenendosi
un ginocchio fra le mani, Albertino le salutò; di fatti s'avvicinarono
loro:
- Salve, o messeri - rispose una di esse, la più alta -. Ma io
non conosco il signore, Albertino. - disse accennando a me, e guardandomi
con interesse.
Albertino mi presentò. Quella che aveva parlato si chiamava Nelly,
l'altra Lina.
- Che andate facendo a quest'ora? - chiese Albertino.
- Facciamo quattro passi prima di andare a letto; fa un tale caldo!
abbiamo la camera al Majestic, dove siamo state finora. Ma il caldo
ci ha tolto ogni desiderio di andarci a rinchiudere in camera.
- Il caldo e la solitudine - rise Albertino.
- Alte nel cielo sono le Pleiadi - declamò Nelly, alzando le
braccia con aria desolata; è mezzanotte, e io dormo sola.
Mi fece piacere sentirla recitare Saffo; dunque non era tutto perduto
il tempo che avevo passato a scuola; e dissi qualcosa per far vedere
che avevo riconosciuto quei versi.
Non è cominciata la stagione del vino? - chiese poi Albertino.
E' cominciata, è cominciata. - risposte Nelly - Ieri ne sono
arrivati un paio. Ma sono così zotici, Dio mio! Sono milanesi.
De Milan. Ma io, se uno non mi va a genio, non gli do retta neanche
se si offrisse di coprirmi d'oro - e mi diede un'occhiata. Del resto
quando saranno stati qui un pò di tempo impareranno a comportarsi
con una donna.
- Anch'io sono così - disse l'altra. - Se uno non mi piace, non
c'è niente da fare.
- Perchè restate seduti? Come siete poco galanti. Venite a fare
quattro passi con noi.
Ci alzammo e imboccammo i Villini, su cui spiccava fra tutte la forma
nera della palma che era davanti alla mia casa e Nelly mi chiese se
ero di L., e com'è che non mi aveva mai incontrato prima di quella
sera.
Giulicando dalla poca gente che conoscevo io, fui un pò meravigliato
di quella domanda, come se volesse dire che la mia persona non era di
quelle di cui si può ignorare l'esistenza, e questo mi rese ancora
più piacevole quella passeggiata notturna con due donne che conoscevano
la vita e tuttavia mostravano di gradire la mia compagnia. Così
arrivammo a una delle quattro porte che un tempo chiudevano la città
in un giro di mura grigie e massiccie delle quali solo una parte è
ancora in piedi, mentre, dove non ce n'è più traccia,
l'antico circuito cittadino è indicato da viali fiancheggiati
un tempo da olivi e ora sostituiti, non so perchè, da oleandri,
che oltre ad essere degli alberelli insufficienti a ornare con le loro
minute dimensioni dei viali così ampi, d'estate con lo scirocco
che fa ristagnare l'aria mandano un odore di carne corrotta e di medicine;
e presso la porta vedemmo brillare vividamente la fiamma d'acetilene
d'un venditore di cocomeri.
Albertino propose, prontamente applaudito dalle due donne, che si andasse
a mangiare il cocomero, e così si fece. S'alzò il cocomeraio
che era disteso sotto la sua tenda:
- Son tutti rossi - diceva, mentre noi sceglievamo -. Rossi come il
fuoco, rossi come il sangue.
E Nelly a quelle parole mi guardava con uno sguardo fattosi improvvisamente
serio. Nel deserto di tenebre che quella luce bianchissima creava intorno,
in quella piccola scena, il cocomero, che era realmente d'un rosso ardente,
la lama del coltello, la tenda, osservai bene Nelly, e avrei dovuto
sospettare che la sua gaiezza era falsa, nervosa, e che essa era in
fondo assai più simile ad altre cose che conoscevo e detestavo
di quel paese, una scontentezza secca e irrequieta, che gira a folle
fra le cose, coltello cocomero palme, e poi pane, vino pietra di tufo,
e la miseria i gridi delle rondini ecc. ecc. Era brutta: con le larghe
narici che sconfinavano nelle guance, una bocca larga e tinta d'un rosso
che gridava; gli occhi allungati sotto le sopracciglia molto basse e
sporgenti quando erano seri sembravano esprimere un odio furibondo.
Ma era alta e ben fatta: la sua carne aveva una saldezza da contadina
e una cupa vitalità, sembrava carne segnata. Un diversivo a questi
pensieri mi venne dalle fette di cocomero, che maturo com'era, appena
avvicinato alle labbra si sfaceva sgocciolando; dovemmo tagliarlo in
piccoli pezzi alle due donne che a mangiarlo a fette temevano di lavarcisi
il viso, e così ridevamo, e ridendo gettavamo le fette in una
cesta che pareva il canestro della ghigliottina in cui cadevano le ghigliottinate
fette di cocomero. Al ritorno, mentre le riaccompagnavamo in albergo,
Nelly restò un po' indietro con Albertino e parlarono sottovoce,
io andai avanti con Lina, che era piccola e graziosa, ma con un'aria
modesta, direi casalinga, nonostante il gran rumore di tacchi che faceva
camminando.
Pensai che Albertino stesse attaccando con Nelly e lo invidiavo. Da
parte mia avrei dovuto far lo stesso con Lina, ma nè mi piaceva
gran che nè d'altra parte mi incoraggiava molto e le parole che
scambiavamo furono abbastanza convenzionali. Le salutammo sulla porta
dell'albergo. Erano le tre di notte. Un inserviente stava battendo gli
stuoini contro i sedili del viale per scrollarne la polvere.
- Allora siamo intesi? - disse Nelly ad Albertino e di nuovo mi guardò
in un modo che voleva dire qualche cosa.
Tornammo via dapprima in silenzio, poi Albertino disse:
- Lo sai cosa mi ha detto quando siamo rimasti indietro? Mi ha domandato:
"Dev'essere un giovane molto romantico, non è vero?",
e io le ho risposto: "Com'hai fatto a indovinare? L romanticissimo,
e scrive persino delle poesie."
Questa risposta mi urtò profondamente. Ero stato contento fino
a quel momento così del mio comportamento come del fatto che
nessuna delle due donne aveva mostrato di tenermi in poco conto per
i miei diciotto anni e perchè fino a qualche mese prima non ero
che uno studente di liceo, ed ora quella stupida bugia guastava tutto.
- Perchè hai detto questo? E' uno stupido scherzo di cui potervi
fare bene a meno.
- Stai zitto. Non capisci nulla. M'ha chiesto di condurti da lei domani
sera in albergo.
Io tacqui, e pensavo a quanto mi restava ancora da imparare per essere
come Albertino.
CAPITOLO VI
Nei primi tempi,
tutte le notti fra l'una e l'una e mezzo telefonavo a Nelly al Majestic
da qualche altro albergo, perchè non c'era nessun altro posto
da cui a quell'ora avrei potuto farlo, e se era libera l'andavo a prendere,
se no raggiungevo i miei amici dietro il Castello, dove li avevo lasciati,
o finito col ritrovarli, se erano andati via. Sebbene per quell'ora
solitamente Nelly cercasse d'essere libera, questo tuttavia avveniva
con una certa frequenza. In questa stagione, fra agosto e settembre,
al Majestic che era solitamente abitato da viaggiatori occasionali che
arrivavano dal Nord coi treni della notte e vi sostavano fino all'indomani
mattina ripartendo nelle prime ore del giorno coi treni che s'irradiavano
nella provincia, scendevano dalla Lombardia una decina di commercianti
e sensali di vino che vi si installavano e visto l'andamento del vino,
concordavano fra loro il prezzo del mercato, imponendolo al produttori
e facendo quello che volevano. La ricchezza della terra, l'unica che
abbia questo paese, nello spazio di quindici giorni passava nelle loro
mani senza che vi fosse nessuna volontà e possibilità
di opporvisi, poichè ai proprietari terrieri, non conoscendo
le fatiche che costa la campagna ai loro servi che tengono per fame,
non importa mettere a repentaglio il guadagno immediato, anche se ottenuto
a un prezzo da strozzinaggio, e si reputano solo contenti se sono riusciti
a guadagnare un soldo più del loro vicino. D'altra parte se si
rifiutassero a questa speculazione, dovrebbero pensare loro ad andare
sù e a vendere il loro vino, ciò che solo potrebbero fare
se fossero tutti d'accordo fra loro, e non fossero così sleali
come realmente sono, e in più dovrebbero avere ciò che
non hanno, in secoli dacchè dura questa storia, del serbatoi
dove tenere il vino in attesa d'un migliore mercato. E s'è visto
durante la guerra, quando l'Italia è rimasta divisa e non hanno
potuto mandare il vino al Nord, che ne hanno riempito persino le pentole
e i bicchieri di casa, e il resto è andato perduto.
Invece per pigrizia si lasciano portare via ogni cosa, tanto il paese
è miserabile e la mano d'opera costa centesimi, nè essi
vi spendono un soldo, perchè vengano quei milanesi coi loro treni
e si portino via appena vendemmiato ciò che dovrebbe dare il
benessere a un'intera regione.
In questa stagione avevano preso due camere in albergo Nelly e Lina,
come avevano forse fatto esse stesse ed altre negli anni passati, perchè
i milanesi ogni anno facevano col vino affari d'oro. La sera si annoiavano
a morte, e in più c'era un via vai dei grossi proprietari della
provincia che andavano a pregarli di prendergli il loro vino per una
miseria. Tuttavia Nelly era abbastanza orgogliosa, e se non la trattavano
coi riguardi che credeva di meritare piantava con qualche frase di disprezzo
la compagnia e se ne stava in disparte in attesa che io, dopo averle
telefonato, l'andassi a prendere, e allora andavamo a dormire nella
casa dove viveva con sua madre. Questa casa era addossata alla-parte
interna delle mura, dove era il suo ingresso principale, ma la camera
di Nelly s'affacciava fuori le mura, dalla quale parte ci si poteva
accedere salendo due o tre gradini scavati nello spessore della muraglia.
A volte andavo al Majestie solo, altre volte con Carmine o con Albertino,
o con tutti e due insieme, e dopo essere stati alquanto tempo sdraiati
nelle poltrone di vimini davanti all'ingresso, a chiacchierare e a fumare,
prendendo un caffè o un liquore se avevamo danaro, e nulla se
non ne avevamo, Nelly mi chiedeva se volevamo andare, e se m'alzavo,
gli altri o venivano via con noi, o se si trovavano in buona compagnia
restavano. Ma generalmente la gente che era lì era abbastanza
noiosa e benchè forestieri, noi non avevamo nulla da imparare
da loro, poichè di tutti i paesi che avevano girato non sapevano
parlare di altro che di orari e di coincidenze ferroviarie e di alberghi,
se il servizio era buono o cattivo, se vi erano delle cameriere graziose,
e tutto ciò senza nessuna vivacità, sicchè io vidi
bene che Carmine e Albertino ben presto si rifecero dell'attenzione
con cui li avevano ascoltati la prima volta trattandoli con commiserazione
e qualche volta dicendogli frasi maliziose di cui non capivano il senso
e raccontandogli frottole che quelli con la loro stupida serietà
credevano vere. Questo faceva piacere a Nelly a cui pareva di vendicarsi
del suo aver bisogno di quella gente e spesso partecipava anche lei
agli scherzi del miei amici, ma faceva precipitare la sottile bilancia
delle loro ironie, perchè aveva la mano pesante, e in più
si sentiva a volte nelle sue parole una ritorsione di discorsi, e di
fatti precedenti che ignoravamo.
Poi i milanesi a una cert'ora se ne andavano a dormire, perchè
la mattina dopo dovevano alzarsi presto, e noi aspettavamo l'ultimo
treno, delle due, per vedere chi arrivava, ed erano per lo più
forestieri che venivano a passi svelti, come se ancora prolungassero
il moto del treno, benchè stanchi e assonnati, e chiedevano una
camera. 0 passava qualche frate, per lo più francescano, coi
capelli ricci su una faccia da contadino, e una valigia che gli squilibrava
il corpo, con il sermone tenuto sul petto, ripassandolo a memoria dopo
averlo letto in treno, per la predica del giorno dopo in qualche chiesa
della città.
Albertino, Carmine facevano gli scongiuri. Il monaco passava senza accorgersene,
con lo sguardo infiammato dall'ambizione della propria eloquenza.
Dopo l'arrivo di quest'ultimo treno, di colpo il segretario e il portiere
dell'albergo cominciavano a non vederci più dal sonno, e dalla
fatica non si reggevano in piedi; gli inservienti cominciavano a togliere
tappeti e stuoini per spazzolarli, scendevano le facce nuove dei camerieri
e del guardiano del turno di notte. Ma difficilmente restavamo fino
a quell'ora, perchè di solito Nelly, prima che i forestieri se
ne fossero andati, si appoggiava al mio braccio e fatto un bell'inchino
alla compagnia diceva con un tono fiero: - Chi ci vuol bene, ci segua.
- E così andavamo via e per lo più Albertino e Carmine
ci accompagnavano fino alla porta della sua casa.
La prima volta che fui da lei, dopo che avemmo salutato Albertino, Nelly
mi guidò per la mano nel buio, attraverso una saletta a cui dava
la porta della strada, sino alla sua camera, dove alla luce di due deboli
lampade che essa accese ai due lati del letto, vi potei vedere, sepolti
nel tenue chiarore rossastro del paralumi, il grande letto che occupava
tutta la parete di fronte, fuorchè il posto per due piccoli comodini,
e un divano addossato alla spalliera del letto. Sulle altre pareti una
toletta e un armadio con un grande specchio. Senza dire una parola,
Nelly si spogliò e infilò una vestaglia, sedendosi davanti
alla toletta per pettinarsi. Era una magnifica vestaglia di seta azzurra
su cui erano dipinti dei draghi rossi e dei grandi crisantemi gialli.
I draghi rossi con le fauci aperte e gli artigli alzati erano spaventosi,
ma i crisantemi, con cui si disponevano a lottare, non erano meno feroci;
erano arricciati minacciosamente e ogni loro petalo era divenuto un
lungo pugnale ricurvo. Quella vestaglia, il rumore del pettine fra i
capelli, quelle luci che parevano avere una memoria umana e mi giudicassero
in silenzio, tutto questo m'era così strano, che io me ne stavo
in piedi in capo al letto, ad attendere, e non sapevo più che
cosa fossi venuto a fare.
All'alba, quando andai via senza che avessimo chiuso occhio neanche
un momento, dopo aver camminato per un po' sul sentiero di terra battuta
che costeggiava le mura, serio, pensando che Nelly mi potesse spiare
da dietro le persiane verdi della sua camera, quando ebbi oltrepassato
uno sprone che le mura formavano da lì a poco, lasciai il sentiero
e mi misi a correre fra l'erbe basse che crescevano tutt'intorno, saltando
le buche, salendo e ridiscendendo di corsa dai monticelli di terra,
e prendendo a calci le pietre che a quell'ora biancheggiavano curiosamente
nel verde, come cose cadute lì per caso e smarrite. Non si vedeva
nessuno. Se passava sulla strada, oltre gli alberi, qualche carro cigolando,
a passo d'uomo, non si vedeva li carrettiere che sdraiato fra le pareti
(4) dormiva. Vera ancora la lanterna accesa che oscillava fra le grandi
ruote, la sola cosa viva in quell'ora, e io la salutavo con la mano.
Passando accanto alla porta scorgevo le case della città, bianche
ancora immerse nel sonno, e mi sembrava un buon auspicio che io fossi
in quell'ora il solo uomo ancora sveglio, e che fosse stata quella la
mia prima notte d'amore, perchè ormai la serva Rosaria e le altre
donne che avevo conosciuto dopo di lei nel postriboli s'erano mostrate
per quelle che realmente erano, e che io avevo sempre, oscuramente sospettato:
dei miserabili indizi.
Nei pressi di casa io procurai di mettere un po' di calma in tanta disordinata
felicità, per timore che mia madre, accortasi che non avevo dormito
in casa (5), fosse desta e in ansia ad attendermi; ciò che in
quella notte più che in ogni altra mi avrebbe offeso. Per fortuna
tutto taceva, il palmizio, le persiane, e io, fatto il giro del portone,
saltai dentro da una finestra di cui da due anni s'era rotto il saliscendi
senza che a casa mia fosse mai venuto in mente di farlo riparare, e
questo mi faceva comodo, perchè è di lì che rientravo
ogni notte.
Quel gesto di prendermi per mano e guidarmi attraverso il buio sino
alla sua camera, che Nelly ripetè le notti seguenti, ora a tanti
anni di distanza, mi piace accrescerlo d'altri sensi nella mia memoria;
e invero non era tanto in una stanza che lo penetravo, guidato da lei,
quanto in una ragione, fino a quel momento confusa, e tutto ciò
che imparavo di lei lo imparavo anche di me.
Perciò secondavo ogni suo capriccio o desiderio che da principio
mi sembrasse tale, e la mia curiosità e ambizione mi tenevano
sveglio sino all'alba, o qualche volta sull'alba ci addormentavamo per
un'ora, quanto bastava perchè non potessi più rientrare
in casa di nascosto. La prima volta che ciò accadde, restato
alquanto tempo davanti alla porta, alla fine mi decisi e suonai il campanello.
Mi venne ad aprire mia madre, e senza guardarmi in faccia nè
rispondere al mio saluto, se ne tornò in cucina dove stava preparando
il caffè. lo andai a lavarmi nel bagno e quando ne uscii diretto
verso la mia camera, passando dalla sala da pranzo trovai una tazza
di caffè sull'angolo del tavolo. Capii che era per me e lo bevvi,
contento che tutto si risolvesse in quel modo, ma ecco che in quel momento
entrò mia sorella Maria, ancora spettinata e con gli occhi gonfi
di sonno, e come io la salutai sorridendole mi passò accanto
senza rispondermi; ma nel passarmi vicino mi lanciò una tale
occhiata di maliziosa ironia che io ne ebbi paura per i suoi tredici
anni. Si sarebbe detto che sapesse ogni cosa, e io provai più
vergogna vicino a lei che davanti a mia madre, e nello stesso tempo
ero turbato per lei, per i suoi tredici anni. Me ne andai a letto, e
immediatamente si scatenarono sul mio capo le campane d'una chiesa a
cui era attaccata, attraverso uno stretto cortile, la mia casa e gli
uccelli, sembrava che tutti gli uccelli del mondo se ne fossero venuti
a fischiare in quel cortile.
Le sere quando al telefono mi rispondeva Nelly che era stanca, o il
segretario dell'albergo che era già salita a dormire, ciò
che in entrambi i casi io sapevo cosa voleva dire, me ne tornavo dai
miei amici e si passava la notte bighellonando.
Andavamo spesso in campagna, dove anticipammo più d'una vendemmia,
specialmente nel fondo dei Passionisti, dove crescevano una magnifica
uva e dei fichi che sembravano di zucchero. Delle albe terribili si
scoprivano in una campagna piatta e funerea, che è quella del
nostro paese, dove a perdita d'occhio non si vede altro che un cielo,
a quell'ora livido, che schiaccia contro una pianura di calce i pochi
alberi di fico e le siepi irte dei fichidindia. In tale ora i muretti
di pietra di scoglio che dividono i campi, piccoli nel pressi della
città, sino a diventare sempre più grandi man mano che
ci si allontana da essa, e farsi latifondi che non si possono percorrere
interamente se non con diverse giornate di cavallo, quei muretti di
pietra, dicevo, sembravano d'ossa umane fittamente accumulate. Quella
luce, o la mancanza di sonno che rivelava, faceva grigi e un pò
gialli i nostri volti, e veramente, se quando tornavamo via nelle tenebre
avevamo voglia di cantare le canzoni di quei tempi, quando ci attardavamo
sino alle prime luci ce ne tornavamo in silenzio e divisi in gruppi
di tre o quattro pronunciavamo solo rade parole, guardando dalla parte
dove sarebbe sorto il sole a nascondere tanto sfacelo.
Per quanto fossimo lontani, da qualsiasi punto guardassimo, vedevamo
la città, poichè non v'è schermo che possa nasconderla,
così come si vedevano per un giro di chilometri e chilometri
i circostanti paesi spuntare col loro campanili dalle ombre. La nostra
città sembrava allora calata lentamente dal cielo per un filo
invisibile, come un enorme ragno biancastro, e appiattitasi al suolo.
Questa campagna era la stessa in cui pochi anni prima andavo a caccia
di lucertole. Le prendevamo sotto il sole ardente con uno stelo d'avena
fatto a cappio alla punta, che insinuavamo fra l'erba davanti a loro;
nonostante il tremolio dello stelo, che esse scambiavano per erbe mosse
dal vento, non se ne accorgevano se non quando avevano il nodo attorno
alla gola e subito, correndo, vi s'infilavano dentro. Era il momento
di alzare con un colpo netto il braccio e di far ruotare tre volte nell'aria
quei corpi, dal ventre molle e madreperlaceo che brillava nel sole.
La regola era che si dovevano fare tre giri; se nella traiettoria riuscivano
per una ragione qualsiasi a sciogliersi e a cadere al suolo prima dei
tre giri avevano la vita salva. Questo se le scoprivamo ferme a prendersi
il sole, ma se al nostro arrivo si mettevano a correre, le inseguivamo
a pietrate o cercando di arrivare su di esse col piede, e spesso capitava
che raggiunte da una pietra o dal piede, si lasciavano dietro la coda
e correvano via col corpiciattolo mutilato. Allora la coda cominciava
ad agitarsi freneticamente come se ci fosse entrato dentro uno spirito,
e bisognava fare gli scongiuri, che consistevano nel ripetere rapidamente:
Al diavolo a casa tua e la Madonna a casa mia", finchè quei
moto convulso durava. Ma questi anni, come erano fuggiti in fretta;
pareva che non li avessimo percorsi con le nostre gambe, ma con un veicolo
veloce che Il aveva rapidamente esclusi dalle nostre prospettive!
In questo tempo, in conseguenza della mia relazione con Nelly, mi parve
che il mio credito agli occhi della nostra compagnia fosse aumentato
e mi accorsi anche d'un altro fatto, che molti di noi provavano una
viva antipatia per Albertino, forse per gelosia dell'autorità
che era riuscito ad acquistare sugli altri e su loro stessi. Così,
dopo la mia avventura, io vidi come alcuni di essi cercavano di far
lega con me, per staccarmi da Albertino e tirarmi dalla loro parte.
Cominciò D'Amore, uno che era tornato in. quei tempo dal servizio
militare in Libia e che se ne stava fra noi senza mai dire una parola,
nè so perchè venisse nella nostra comitiva, ma probabilmente
perchè, dopo un paio d'anni di vita militare, non gli riusciva
più facile di rientrare direttamente nella abitudine della vita
borghese. Questo D'Amore, una volta che eravamo rimasti indietro, cominciò
a parlarmi con esaltazione dell'Africa e dei tramonti nel deserto. Non
sapeva discorrere, e non faceva che pronunziare enfatiche esclamazioni
con cui era sicuro di comunicarmi le sue emozioni e "Ah, i tramonti
nel deserto!!" diceva con nostalgia. Ma a me di tutto questo m'importava
assai poco. Specialmente i deserti erano la cosa che aveva meno posto
in quella vita che mi fantasticavo in segreto, e alla quale mi andavo
preparando coscienziosamente, come credo facessero molti di noi, ma
certamente Albertino e Carmine.
Un'altra volta eravamo in tre su una gobba che forma d'un tratto il
terreno, e che nel nostro paese chiamano pomposamente la collina, sebbene
non sia più alta di cinque o sei metri dal livello della strada.
C'eravamo allontanati dagli altri per fumare in tre una sigaretta, l'ultima
che avessimo fra tutti, perchè a una cert'ora della notte questo
era invariabilmente il nostro dramma, non aver più una sigaretta,
ed eravamo io, Ruggero e uno studente che s'era licenziato quell'anno
dall'istituto Tecnico: una figura scialba che qualche tempo dopo ebbe
un impiego nel partito che occupava allora il potere e non perdeva un'occasione
per pavoneggiarsi nella sua divisa ad ogni parata o altra pubblica cerimonia:
per cui noi lo lasciammo perdere, perchè disprezzavamo quel modo
di riuscire non sembrandoci frutto d'un suo esito personale, e d'altra
parte anche lui preferiva mostrare di non aver mai avuto con noi nessuna
intimità, perchè essere nostro amico era cosa che contrastava
con l'ipocrisia di quel partito.
Ci stavamo disputando quella sigaretta, contando i bocconi; la notte
su di noi andava sbiadendo come se un liquido verdino vi si stesse versando
sopra; sentivamo poco lontano le voci dei nostri amici, e a un certo
punto uno scoppio di bestemmie e d'ingiurie da parte di Albertino. Allora
Ruggero disse irosamente:
- Sono di una volgarità rivoltante. lo non so proprio perchè
andiamo con gente simile. In fin dei conti noi siamo di buona famiglia
e potremmo avere delle amicizie migliori.
- Si, è vero. - disse lo studente.
- Voi avete fatte le scuole. Quanto a me, sono stato un disgraziato
a lasciare ai primi anni di ginnasio. Certo, se avessi avuto i miei
genitori io non mi troverei in queste condizioni. Ma infine sono ugualmente
di buona famiglia, e a B. ho dei parenti nobili; e il mio cognome è
spagnolo.
- Ma anche Albertino è di buona famiglia - obiettai Io tanto
per parlare, perchè non mi sembrava importasse tanto a noi il
punto di partenza quanto quello a cui saremmo potuti arrivare.
- Sì, Albertino!, ma quello è peggio di quegli altri.
Il tono astioso con cui Ruggero nominò Albertino mi fece capire
che tutto il discorso era diretto proprio contro di lui, e ne fui disgustato,
perchè, se anche Albertino non fosse stato figlio d'un ingegnere
delle ferrovie morto da alcuni anni, il fatto è che valeva molto
più di loro, ed era questo che contava. Perciò mi allontanai
disgustato e raggiunsi gli altri. Non prima però d'aver fumato
la mia parte della sigaretta.
Questa loro avversione credo fosse condivisa anche dal Barone. Ma il
più velenoso avversario di Albertino era un pezzetto d'uomo magrissimo
e basso che chiamavamo appunto Pezzettino. Qualche giorno prima che
io facessi il mio ingresso nella compagnia, Albertino gli aveva portato
via la ragazza. Ciò nonostante aveva continuato a venire con
noi, come se niente fosse stato, e si studiava di evitare ogni urto
diretto con Albertino, e ogni volta che lo contraddiceva, o cercava
di opporsi a qualche sua idea, lasciava ad ogni modo sempre aperta la
via ad un ripiegamento.
Quanto a Carmine, egli godeva un'autorità quasi pari a quella
di Albertino, ma non lo faceva pesare. Era amico di tutti, e se voleva
che si facesse o non si facesse una cosa manovrava in modo che a ciascuno
sembrava d'essere stato lui a volere o a non volere quella tal cosa;
e forse senza di lui tutta la compagnia si sarebbe sfasciata, o si sarebbe
messa apertamente contro Albertino, se non fosse stato per ciò
che io a quel tempo chiamavo (6) soltanto la prudenza di Carmine, e
vidi invece più tardi ch'era stata anche amicizia.
CAPITOLO VII
- Ti piacciono i
bambini? - mi chiese d'un tratto Nelly mettendomi una mano sul braccio.
Imbruniva. I cieli, tutto il giorno rigidi e disumani sulle nostre pietre,
solo a quest'ora si tingono un po' di verde, d'un verde inquietante
e peribile, che difatti capitola rapidamente alle tenebre. Ora Nelly
non c'era notte che non mi dicesse d'andarla a prendere in albergo,
e qualche volta mi pregava di andarla a trovare in casa prima di sera,
poichè quell'ora, diceva, le dava lo sgomento. Se la notte mi
era facile stare con lei e annegare ogni differenza nella concordia
dei nostri corpi, in quest'ora io non capivo più Nelly e restavo
estraneo al suoi umori e ai suoi discorsi. Per diverse volte mi chiese
di leggerle mie poesie, e specialmente sperava che io ne scrivessi per
lei, e io non osavo scoprire recisamente la bugia di Albertino, sicchè
negavo debolmente in modo che lei credeva che negassi per vergogna e
insisteva di più. Alla fine si rassegnò a malincuore,
ma allora volle che io leggessi delle poesie da una antologia scolastica
che essa possedeva, perchè aveva fatto gli studi, prima di darsi
alla vita, e un giorno mi mostro i suo diploma di maestra elementare.
Amava Pascoli e D'Annunzio, e questi poeti io le leggevo alla finestra
mentre calava la sera, e sullo spiazzo d'erba davanti alle mura dei
ragazzi giocavano a pallone, chiamandosi per nome con voci acerbe e
penetranti o querelandosi per qualche errore o questione che fosse sorta
sul gioco. E in quello spiazzo aveva giocato anch'io, avevo gridato
come loro, e corso e sudato, e questionato perchè, essendo le
porte formate da due pietre e al più dalle nostre giacche, a
ogni momento sorgeva la controversia se il pallone fosse entrato dentro
o al lato o al di sopra della porta.
- Ti piacciono i bambini? - tornò a dire Nelly, ripetendo la
domanda con cui aveva interrotto la mia lettura, ed lo non sapevo cosa
rispondere perchè in verità non m'ero mai posto una tale
questione, tutt'al più avrei potuto dire che i bambini davano
fastidio, ma il viso di Nelly esprimeva una tale preoccupazione che
non seppi deluderla.
- A secondo - risposi, tanto per non mentire.
- E d'una donna che ha un figlio, cosa ne penseresti?
- Ma, vi son tante donne che hanno dei figli... Cosa vuoi che ne pensi?
Se non vi fossero donne che hanno dei figli noi non esisteremmo.
Nelly ebbe una smorfia di disperazione. Io vidi bene che era brutta
in quel momento.
- Ma se una donna ha un figlio da un uomo, capisci? Se ha un figlio
che è senza padre, capisci?
- Bisognerebbe vedere caso per caso. Quello che è certo è
che non si può condannare senz'altro, senza sapere come siano
andate le cose. Risposi così, perchè mi parve che questa
era la risposta, o forse una metà della risposta che essa voleva
sentire da me. Difatti spalancò ancora di più gli occhi,
così scuri in quelle prime ombre della sera, e avvicinò
il viso al mio per guardarmi meglio.
- Allora tu non disprezzeresti una donna simile?
- Non avrei il diritto di farlo, mi pare.
- E se fossi io quella donna! Se fossi io? Dimmi.
Feci uno sforzo. M'importava così poco di tutto ciò. -
Se fossi tu meno che mai.
- Aspetta, - e si allontanò dalla finestra. Io non mi voltai.
Sentii che apriva un cassetto. Nel frattempo guardavo i ragazzi che
avevano smesso di giocare perchè ormai il pallone non si poteva
più vedere. Stavano fermi a discorrere vicino alle due porte
e chi si legava le scarpe, chi si' gettava la giacca sulle spalle. Parlavano
piano dopo tanto gridare, forse le ombre della sera li impaurivano un
pò, mentre si dirigevano lentamente verso la porta per rientrare
in città.
Ed ecco Nelly tornò alla finestra e mi mise bruscamente fra le
mani una piccola fotografia d'un ragazzo che poteva avere undici anni,
d'un brutto ragazzo dal naso un pò schiacciato sul viso, come
il suo, e gli occhi neri e cupi.
- E' tuo, vero? - e le misi una mano sulla spalla - E' un bel bambino,
sai?
Essa non mi rispose. Guardava quei ragazzi che stavano girando lo sprone
che per un momento li avrebbe nascosti al suo sguardo, come fu difatti.
- Dov'è ora?
- E' lontano di qui. Ma un giorno lo vedrai. Lo riprenderò con
me. E tu gli vorrai bene, vero?
- Ma certo.
Restammo in silenzio per qualche tempo alla finestra. Poi improvvisamente
essa si alzò;
- E ora va' via. - Mi disse con tono irritato e cattivo. - Va' via.
Vorrei non vederti più.
lo mi alzai e uscii senza una parola. Quando fui fuori mi gridò
dalla finestra:
- Mi telefoni stasera?
Ero irritato per quella scena e soprattutto mortificatissimo di aver
dovuto mentire. Mi sembrava che tutto ciò non sarebbe avvenuto
se io fossi stato all'altezza della situazione, ma quando arrivai al
caffè bastò la vista dei miei amici per farmi uscire di
mente ogni cosa. C'erano Albertino e Michele, e proprio mentre io arrivavo
spuntava sulla piazza Flora al braccio del padre. Camminava sotto i
fanali a passi calmi e gentili, col lungo collo un pò curvato,
forse per l'abitudine di camminare col padre, che essa già superava
del capo, e le due trecce bionde che le scendevano sul petto. lo feci
segno cogli occhi ad Albertino, che mi rispose con un'occhiata per dirmi
che l'aveva già veduta.
Dopo un po' Michele alzò gli occhi verso il balcone. lo non capisco
- diss'io - che guardi a fare se di qui al balcone non ci vedi neanche
di giorno, e figuriamoci dunque di sera.
- Poveretto, l'hanno lasciato qui a fare il cane da guardia alla casa.
- Che cosa volete dire? - disse Michele andando con lo sguardo da Albertino
a me.
- Che è inutile che stai a scocciarmi l'anima voltandoti a guardare
ogni cinque minuti: primo, perchè tanto non vedi nulla, secondo
perchè la tua bella se n'è uscita di casa.
- Come lo sai?
- Ecco, ora ricomincia. Che vuoi scommettere come l'altra volta? - E
dov'è andata?
- M'ha detto che doveva andare al San Carlino.
Michele guardò Albertino come se fosse stato la reliquia d'un
santo: ai suoi occhi non era meno d'un essere sovrannaturale un uomo
a cui Flora aveva rivolto la parola, a cui aveva detto che sarebbe andata
al San Carlino.
- Davvero?
- Come osi domandarmi se è vero ciò che lo ho finito di
dirti in questo momento. Che impertinenza è mai questa?
- Scusami. Non volevo offenderti. Mi accompagnate?
- Non è possibile.
- Perchè. Sù, accompagnatemi. Che dovete fare qui?
- Non ci possiamo alzare se qualcuno non ci paga le consumazioni. Michele
andò nel caffè, poi tornò:
- Ho pagato. Andiamo?
Il cinema San Carlino era due passi: una costruzione in mattoni - l'unica
costruzione in mattoni in tutta la città - senza fondamenta e
attaccata alla facciata del Castello, davanti all'entrata di questo.
Tinta in un rosso vivace, color rosolaccio, metteva una nota di allegria
su quelle vecchie pietre grigie, e aveva un pò l'aria d'un baraccone
da fiera, con la tettoia di lamiera, e una palizzata di legno, da cui
si affacciavano sulla strada due o tre oleandri, e che serviva a impedire
che le gente si avvicinasse a spiare quando d'estate per il caldo tenevano
aperte le entrate laterali. Era così vicino all'entrata del Castello,
che quando mettevano fuori i cartelloni per l'annunzio degli spettacoli,
con la fotografia dei films o delle ballerine, se c'era varietà,
questi stavano accanto alla garitta della sentinella, e a non sapere,
c'era da credere che lo spettacolo avesse luogo nel Castello.
Questo cinema posto a due passi dal mercato e dalle scuole elementari
era in un punto animatissimo, e io ricordo che da bambino, ogni volta
che uscivamo di scuola passavamo incuriositi davanti ad esso, e ci fermavamo
incantati davanti ai cartelloni. Il San Carlino - come tutti lo chiamavano
con una familiarità un pò maliziosa, come se quello fosse
il punto debole della nostra città - ci era infatti inibito a
quei tempi, perchè i suoi spettacoli erano riservati ai fortunati
che avessero più di sedici anni. Questo limite era indicato nei
programmi che distribuivano su foglietti di carta due banditori, uno
davanti al teatro, l'altro all'entrata di via San Marco, e nelle ore
di punta gridavano a gran voce: "Serata nera a San Carlino".
In quei programmi, di cui noi c'impadronivamo ansiosamente quando qualche
passante li lasciava cadere a terra dopo averli scorsi, noi almanaccavamo
cercando di indovinare che cosa mai potesse aver luogo in quelle misteriose
serate nere. Ma non venivamo a capo di nulla, e la sola cosa per noi
intelligibile in quei programmi restava la scritta perentoria a grossi
caratteri: "Vietato ai minori di sedici anni"; questo limite
il venerdì veniva portato da sedici e a vent'un anni, e questo,
mi pare, ci consolava un poco della nostra esclusione.
Queste serate erano la colpa affascinante della nostra città
e chi vi andava lo faceva di nascosto dalla famiglia, salvo, una volta
dentro, a incontrarvi il padre o il fratello, ma fingevano di non vedersi
e nessuno di essi faceva mai più alcun accenno a quegli incontri.
Quanto ai mariti, guai se le mogli scoprivano che erano stati al San
Carlino: succedevano orribili scene, al termine delle quali le mogli
chiedevano, se volevano essere perdonati, che le conducessero con loro,
per rendersi conto, dicevano, dell'entità della colpa e vedere
se potevano perdonarli.
Ugualmente avrebbero fatto i parroci, se avessero potuto; come non potevano,
si facevano descrivere minutamente lo spettacolo, tanto più minutamente
se il peccatore era una donna, dopo di che non concedevano l'assoluzione
se non con mille difficoltà. I più comprensivi, e i meno
indiscreti nelle domande erano forse i Passionisti, e per questo i confessionali
della loro chiesa furono a quei tempi più frequentati degli altri,
e ciò specialmente a scapito dei gesuiti.
Noi ragazzi avevamo un vago sentore delle ripercussioni che provocavano
quelle serate nere nelle nostre famiglie, e questo non faceva che accrescere
la nostra curiosità, ma, la nostra età non permettendo
comunicazioni di tal genere con i più grandi, restavamo nell'oscurità
più completa, o non ci restava che anelare che i nostri sedici
anni giungessero al più presto. Senonchè nel frattempo
i cambiamenti politici imposero la sospensione di quegli spettacoli,
e così il teatro dovè trasformarsi in cinema. Dalle testimonianze
che ho raccolto più tardi su quelle serate, pare che si presentassero
sulla scena delle ballerine vestite d'un abito di tulle nero molto accollato,
calze nere e scarpine nere e danzassero per un po' tra l'attesa distillata
del pubblico, poi accelerandosi il ritmo della danza, sollevando le
gonne lasciassero intravedere due dita di bianco della carne fra il
nero delle calze e delle vesti, mandando in delirio gli spettatori,
e strappando ululati di piacere dal loggione. Ancora più appassionante
era l'a solo della prima ballerina, allorchè dopo aver danzato
con un sorriso malizioso sulle labbra e ammiccamenti verso i palchetti,
d'un tratto dava un colpo di reni in avanti, arretrando nello stesso
tempo il busto. Nessun acuto di grande cantante fu mai applaudito così
freneticamente come quei movimento che chiamavano "la mossa",
e questo era il grido che correva su tutte le bocche, e una volta ottenuto
si continuava a insistere urlando e pestando i piedi sul pavimento di
legno per il bis, più e più volte, e ogni ripetizione
scatenava lo stesso entusiasmo della prima volta. Quanto agli spettacoli
del venerdì sera, riservati, come abbiamo detto, ai maggiori
di ventun'anni, eccone un esempio, quanto basta per farvi un'idea. E'
uno spettacolo che nel programma figurava sotto il titolo: "Le
nozze di fra' Filippo Lippi". Questo fra' Filippo Lippi saranno
state in tutto dieci persone in tutta la città che ne avranno
sentito parlare, e forse queste dieci persone erano le sole che non
andassero al San Carlino. All'alzata del sipario si vedeva una monaca
posare per un pittore. Questo pittore era tutto concentrato nella sua
tela e nei suoi pennelli, pareva che se gli fosse crollata ogni cosa
d'intorno non se ne sarebbe neanche accorto, ogni tanto piegava il capo
di lato e gettava un'occhiata rapida e severa alla monaca, ma come se
fosse stata una pera in un piatto. A un certo punto si avvicinava alla
monaca per metterla in posa. Ritornava alla tela, ma questa volta tornava
a riprendere con più frequenza la sua modella, e anche sembrava
un pò turbato, e meno sicuro nel dipingere e improvvisamente,
come preso da un demone, gettava via la tavolozza e il pennello, che
facevano un gran fracasso sul pavimento, e si gettava sulla monaca urlando:
Monachella, monachella,
togliti la camisella.
A questo punto sul
sipario si spegnevano tutte le luci e la scena restava al buio, come
se ci fosse caduta sopra una bottiglia d'inchiostro.
Questi sono gli spettacoli a cui per l'età non mi fu dato di
assistere; così pure non ho assistito alla demolizione del San
Carlino, avvenuta durante il tempo che sono stato lontano da L. Questo
teatro era sorto verso il principio di questo secolo, e il suo proprietario,
un gobbo piccolissimo che camminava con un'aria regale, appoggiandosi
a un bastoncino dal pomo d'argento come se fosse stato uno scettro superbo,
aveva un contratto coi Comune che gli garantiva per trenta o trentacinque
anni il permesso di tenere su la sua baracca. Senonchè i proprietari
degli altri due teatri cittadini, invidiosi del successo dei suoi spettacoli,
dopo aver usato mille mezzi per nuocergli, alla fine riuscirono a tirare
dalla loro parte i capi del partito che si era impadronito del potere
e bandirono la crociata della moralità contro il San Carlino.
L'astuto gobbo capì di che si trattava, e fu allora che il teatro
si trasformò in cinematografo, e il biglietto costava la metà
che agli altri due. Così finchè c'era il contratto, non
gli poterono fare altro. Ma quando scadeva il contratto il giornale
di quel partito cominciò a sostenere che quel baraccone da fiera
offendeva l'estetica d'un monumento nazionale com'era il Castello e
che in una città civile quest'offesa al culto dell'arte e delle
memorie era vergognosa ed intollerabile. In realtà il Castello
è un tozzo edificio schiacciato e ingombrante nel cuore della
città, e in più il San Carlino non era la sola appendice
che ne offendesse i pregi piuttosto dubbi, perchè vi erano qua
e là sul suoi fianchi il mercato coperto, dei cartolai dalla
parte della scuola, e un maniscalco, un garage, e persino uno dei due
altri cinematografi. Ma quel giornale rappresentava l'opinione non suscettibile
di discussioni del partito al governo, e il contratto non fu rinnovato.
Sotto i colpi di piccone dei muratori, non caddero tanto i mattoni del
San Carlino, ma una sottile striscia dell'anima della nostra città,
e questa è la causa della nostra divagazione.
Non so come facesse Albertino ad essere così sicuro delle proprie
supposizioni. Anch'io avevo pensato che Flora e suo padre andassero
al San Carlino, ma non l'avrei affermato con tanta sicurezza.
Quando fummo davanti al San Carlino, facendo segno di salutare Michele
e di andar via, egli ci guardò desolato.
- Andate via?
- Certo. Dovremmo venire a reggerti la candela?
- Non ve n'andate. C'è un film nuovo.
- E cosa vuoi che ce ne importi del film nuovo. Buona fortuna.
Michele ci corse dietro, e ci prendeva per il braccio pregandoci di
non lasciarlo. Alla fine ci chiese che almeno lo accompagnassimo dentro
e poi lo lasciassimo e quando ci vide incerti corse a fare tre biglietti,
coi quali tornò tutto trionfante. La verità è che,
miope com'era, nonostante la sala fosse molto piccola, temeva, una volta
entrato solo, di non riuscire a vedere Flora, e in quell'angustia di
doversi sorbire tutto lo spettacolo. Entrammo, e la sala era al buio,
ma i nostri occhi, abituati all'oscurità, non tardarono a scorgere
la macchia bianca e vaporosa che faceva il vestito di Flora fra le file
delle poltrone.
- Sei tutto fortunato - disse Albertino; e infatti vi era un posto libero
proprio accanto a lei, e altri due più indietro, a poche file
di distanza. Ma quando spiegammo a Michele la sua fortuna non ne fu
per nulla contento e cominciò a dire che non voleva farsi notare
dal padre di Flora.
- Sù, non essere idiota - insistemmo noi, e stavamo per andarci
a sedere al due posti di dietro, ma Michele ci prese per braccio:
- Ve ne pergo, non mi fate sedere lì. Questo forse potrebbe compromettere
ogni cosa. Si segga lì uno di voi. Siediti tu, Vittorio, fammi
questo favore. lo mi siederò dietro con Albertino.
Insistette ancora. Alla fine accondiscesi:
- E sia! - dissi - Proprio per l'amicizia. Ma ora mi pare che tu te
ne stia abusando un po' troppo.
Così andai a sedermi accanto a Flora, e da un brevissimo movimento
del suo cappellino mi accorsi che mi spiava. Aveva tolto i lunghi guanti
bianchi che portava di solito e che salivano dalle mani sino al gomito,
e teneva il braccio posato graziosamente sul bracciuolo dalla mia parte.
lo, dopo aver cercato senza risultato di fare attenzione al film, senza
sapere cosa facessi le posai la mano sul braccio e carezzandolo con
dolcezza finii col prendere la sua mano e dopo averla tenuta stretta
qualche tempo la staccai dal bracciolo e la portai alle mie labbra.
Ricordo che vi era ancora il cinema muto a quel tempo, e la gente intorno
a noi leggeva a mezza voce le didascalie sillabando le parole, e non
sempre arrivavano alla fine, sicchè l'ultima sillaba si mutava,
allo scomparire della didascalia, in un confuso sospiro di rammarico,
ma se vi era qualcuno più bravo con loro questi diceva loro il
seguito della frase, o almeno il senso. E questo di solito era fastidioso,
ma questa volta quel parlottare quieto e confuso per tutta la sala rassicurava,
facendomi sentire che nessuno badava a noi. osi tenni qualche tempo
la sua mano fra le mie, portandola più volte alle labbra, e non
essendovi più alcun dubbio che Flora gradisse le mie carezze,
le passai il braccio intorno alle spalle e, manovrando lentamente per
non spaventarla e anche per suo padre, le cercai il petto fra le due
trecce bionde che le scendevano di sotto il cappello e la leggera rigidezza
dell'organdis, e lo trovai, due timidi passeri che palpitavano non so
se di gioia o di spavento nelle mie mani. Restai qualche tempo, contento
dalla mia fortuna, quando bruscamente suo padre si voltò verso
di lei, forse per indicarle qualche particolare dei film che poteva
esserle sfuggito, e forse per anticiparle qualche sua previsione sulle
conclusioni. Non so se le cose sarebbero andate meglio se non mi fossi
mosso; ritirai precipitosamente le mani dal suo petto, ma non potevo
fare miracoli, perchè s'era già voltato e si accorse di
tutto.' Di scatto si alzò agitando un braccio in aria e con l'altro
tirandosi indietro sua figlia, mentre le gridava:
- Svergognata! e tu te ne stavi ferma e non dicevi nulla! - Così
abbandonarono le poltrone, rumorosamente e sbattendo i sedili e in un
attimo avevano lasciato la sala.
Per un poco corse intorno a me un mormorio della gente che al buio voleva
sapere che cosa era accaduto e nessuno sapeva dire precisamente. Poi
tornò la calma, e le voci che tornavano a leggere le didascalie.
Allora io accesi una sigaretta, pensando che salvo la sfortuna di non
avere più Flora a portata di mano e il suo dispiacere di quella
scenata, tutto sommato era andata fin troppo bene. Restava Michele,
ma speravo che dal posto dov'era non si fosse accorto di nulla. Intanto
per fortuna prima che finisse lo spettacolo due persone che erano sedute
nella fila di dietro, proprio alle spalle delle poltrone occupate da
Flora e da suo padre, si alzarono e andarono via. Quando le luci si
accesero, ecco Michele chiamarmi e chiedermi con voce alterata cos'era
successo.
- Cosa da nulla - gli risposi -. Dei mascalzoni che hanno dato fastidio
a una signora. Risposi così perchè, a distanza di diverse
file, ero costretto a parlare a voce alta.
- Chi è stato? - domandò con tono aggressivo.
- Non lo so. Sono andati via al buio. - e indicai con la mano i due
posti vuoti. Questa coincidenza e la sicurezza con cui risposi se non
diradarono per lo meno tolsero ogni forza ai suoi sospetti, nonchè
a quelli di chi ci stava vicino, e poichè eravamo entrati solo
a metà dello spettacolo aspettammo che ricominciasse per vedere
quella parte a cui non ci eravamo trovati: ma io per la verità
non avevo veduto neanche la seconda.
Chi non si lasciò confondere fu Albertino, ma io non avevo nessuna
ragione per nascondergli la verità e così, quando ci riunimmo,
ed egli mi scrutò maliziosamente negli occhi, lo gli risposi
con un sorriso impercettibile in un momento in cui Michele non mi guardava.
Quella sera, quando arrivò una certa ora, io, ricordandomi della
scenata fattami quel giorno, non volli andare da Nelly, e le telefonai
in albergo che non mi aspettasse per quella notte.
CAPITOLO VIII
Nelly non mi chiese
più che andassi da lei il pomeriggio, ma stavamo insieme ogni
notte e smisi di telefonarle prima di andarla a prendere in albergo.
Di lì andavamo a dormire a casa sua, perchè quando non
passava la notte in albergo non le mettevano in conto la camera. Diventava
sempre più nervosa, e nel ritorno a casa la notte mi faceva mille
rimproveri parendole che io la trascurassi, e a me non sembrava. Passavo
tutto le notti con lei, e parte della mattina, perchè spesso
sul far del giorno ci addormentavamo, e lo non avevo più alcuna
ragione di andar via presto, perchè ormai a casa mia madre aveva
trovato più volte il mio letto non disfatto al mattino, e ormai
tanto valeva che mi vedesse tornare a un'ora o ad un'altra.
Quando restavo con Nelly, era lei che mi svegliava, dandomi il caffè,
un caffè domestico in tutto simile a quello che si beveva a casa
mia, che sembrava disceso dal cielo entro le due tazzine e il vassoio,
perchè Nelly era ancora a letto, e tutto in lei - gli occhi pesanti
e la massa disordinata del suoi capelli - davano a credere che s'era
svegliata un momento prima.
D'altra parte dal resto della casa non veniva il più piccolo
rumore. Veniva invece dalla finestra il cigolio dei carri sulla strada
e talvolta il riverbero del fanale d'una carrozza nel sole penetrava
attraverso le persiane e correva qua e là sulla opposta parete
come un ragazzo rincorso che corre a zig-zag per ingannare l'inseguitore.
Questo mistero del caffè mi fu svelato una mattina che mi ero
svegliato prima di Nelly, ma avevo ancora sonno e tenevo gli occhi chiusi
per non lasciarlo sfuggire.
A un certo punto sentii bussare un colpettino alla porta e subito Nelly
fece un salto e mi coprì la faccia col lenzuolo, allora io aprii
gli occhi e mentre qualcuno abbassava la maniglia e penetrava silenziosamente
nella camera io scopersi uno spiraglio che facevano le pieghe del lenzuolo
attraverso il quale lo mi misi a spiare. Si vedeva l'armadio, e poichè
il battente era rimasto a metà aperto, lo specchio che lo ricopriva
mi lasciava scorgere l'opposto angolo della stanza: i piedi del letto,
la tappezzeria del muro in prossimità del comodino di Nelly.
Un attimo dopo penetrò in questa scena una donna anziana, di
bassa statura e dai capelli evidentemente tinti perchè erano
troppo scuri per la sua età, e tirati sulla nuca. Il suo viso
aveva quell'aria costantemente irritata che hanno tante donne della
sua età che si vedono nelle nostre chiese, e i suoi labbri erano
serrati dispettosamente. Posò il vassoio senza far rumore sul
comodino, e stava per andar via, invece tornò indietro e cominciò
a parlare. lo vedevo da una parte con gli occhi l'immagine che parlava
nello specchio, e invece i miei orecchi percepivano dall'altra parte
le parole: - E inutile che fai questa commedia tutte le mattine. Credi
che non sappia chi c'è lì?
- Sta' zitta.
- Sono stata zitta finora e ti ho lasciata fare, credendo che fosse
un capriccio passeggero. Ma ora sta durando troppo. Bisogna essere una
pazza come te per mettersi con quel bamboccio che non ti può
dar niente. Che cosa ne speri?
- Smettila, mamma, te ne prego. Potresti svegliarlo.
Vidi la donna che scrollò le spalle e faceva per andarsene. Poi
di nuovo tornò indietro.
- Ricordati che hai trentaquattro anni. Trentaquattro. Codeste pazzie
si fanno a vent'anni, non alla tua età. Potrebbe essere tuo figlio.
- Basta! Finiscila! - sibilò Nelly.
- Parlo per il tuo bene. Hai trentaquattro anni e dovresti pensare al
tuo avvenire.
- E al tuo, non è vero?
- Al mio? Disgraziata che sei!
- Lo so che sono disgraziata. Ma ora vattene. Sparisci, hai capito?
La vecchia sparì dallo specchio. Sentii la porta rinchiudersi,
poi Nelly mi svegliò per darmi il caffè. Sapeva un po'
amaro.
Non dissi nulla di ciò che avevo ascoltato; e del resto che cosa
avrei potuto dire? Avrei potuto lasciare Nelly, ma mi sembrava che essa
avesse più bisogno di me, di quanto io ne avessi di lei. D'altra
parte, era vero che non aveva nulla da sperare da me; se anche avessi
avuto del danaro, non credo che avrei voluto dargliene così per
non offenderla come, più ancora, per non offender me, poichè
una delle norme più elementari che avevo appreso dai miei amici,
e alla quale aderivo pienamente, parendomi assai giusta e sensata, era
che le donne non si pagano. Questo non era segno, nè in loro
nè in me, di meschinità; al contrario, da tutti i loro
discorsi appariva che, avendone la possibilità, essi avrebbero
speso piuttosto centomila lire per una donna, piuttosto che dargliene
cento.
Così, non sapendo che fare, finsi di non aver sentito nulla e
decisi di andare avanti; poi si sarebbe veduto. D'altra parte, fu in
questo tempo, e per ragioni che non avevano nulla e che fare con Nelly,
che io tornai a chiedere qualche lira a mia madre.
Da quando m'era capitata quella disavventura a scuola, io non le avevo
più chiesto niente, e anzi, poichè avevo fatto del giorno
notte e della notte giorno, ci vedevamo poco e quasi non scambiavamo
parola fra noi. Essa dovette capire il lato buono di questa situazione,
e cioè che durando questa sua collera non avrebbe più
dovuto darmi le poche lire che da qualche anno mi dava, e mai spontaneamente,
ma dopo reiterate richieste e discussioni e avermi fatto aspettare un
mucchio di tempo, dicendo alla fine che non le aveva, che doveva farsele
prestare da qualche vicina e andando e tornando dopo un'ora con quelle
venti o trenta lire che essa s'era certamente portata con sè
e poi, andata da quelle vicine, s'era messa lì a chiacchierare.
E tutto questo faceva per scoraggiarmi e far sì che gliene chiedessi
meno spesso che potevo. E teneva i conti di quelle miserabili cifre
e delle date, ma nel corso della discussione le falsava, specialmente
queste ultime, e diceva: "Come? Se t'ho dato trenta lire l'altro
giorno!", e invece era stato una settimana prima, e qui nasceva
una discussione per stabilire, con l'aiuto di mille circostanze, in
che giorno era stato.
Perciò conoscendola bene, non tarda! a capire quanto vi fosse
di calcolo in quel suo sdegno così per la mia espulsione dal
Liceo come per la vita che m'ero messo a fare da qualche tempo. Non
che fingesse completamente; essa era perfettamente convinta d'essere
in collera con me; ma son pronto a mettere la mano sul fuoco che quella
sua collera sarebbe già da tempo sfumata se inconsciamente non
avesse calcolato che finchè durava io non le avrei più
chiesto danaro.
Lasciai passare due mesi senza mai chiedergliene, poi tornai alla carica
e questa volta le discussioni furono rese più aspre e antipatiche
da quelle due nuove circostanze. Me ne uscivo con l'animo avvelenato,
stringendo rabbiosamente quelle poche monete di falso argento nella
tasca, e bestemmiando contro mia madre me ne andavo verso la piazza.
Quando mi vedevano arrivare con un pacchetto di sigarette appena incominciato
e ordinare il caffè con il tono di spavalderia che ormai avevo
appreso da loro, tutti cominciavano a ammiccare verso di me e a dire
frasi maliziose:
- Hai munto la capretta quest'oggi? - domandava uno. E un altro: - Eh,
lo sai bene tu dove dorme la lepre.
E se c'erano Carmine e Albertino e non avevano ancora preso il caffè,
ne ordinavano anche per sè rimanendo sottinteso che li avrei
pagati io.
Questo perchè credevano che mi facessi dare del danaro da Nelly.
lo a quelle allusioni alzavo le spalle, senza dir nulla, perchè
se questa era una buona ragione perchè mi invidiassero, non era
il caso che io correggessi il loro errore.
Qualche altra volta per guadagnarmi una miserabile moneta da cinque
lire andavo da mio zio Giovanni.
CAPITOLO IX
Arrivammo agii ultimi
giorni di agosto, quando il caldo maggiormente s'inferocisce contro
la nostra città. Passata l'una pare d'essere chiuso in un forno;
il sole arroventa le pietre delle case, le cui facciate, bianche di
calce, mandano riverberi come specchi e non le si può guardare.
Lo sguardo si rifugia nell'ombra dei portoni o sul verde delle persiane:
verde di Francia, come lo chiamano qui, e affermano che questo colore
tiene lontane le mosche, che non lo possono soffrire. Dalla due alle
sei per le vie non c'è un'anima, i lastricati scottano e neanche
i contadini, la cui pianta dei piedi è diventata impenetrabile
come fosse di cuoio, vi s'arrischierebbero scalzi. A volte si vedono
alzarsi dai lastrici e tremolare, nella luce abbagliante, dei vapori.
Nelle case si tenta di dormire nei vasti letti al buio, rivoltandosi
continuamente. Si dorme senza lenzuolo che dopo un poco ci si troverebbe
tutto incollato al corpo per il sudore; il lenzuolo invece si usa annodarlo
ai quattro angoli alla spalliera del letto, dopo averlo inzuppato d'acqua.
Questi pomeriggi sono ossessionanti per chi non riesce a dormire, e
io ricordo di averne enormemente sofferto da ragazzo quando mio padre,
allora vivo, mi chiudeva a chiave nella mia camera perchè non
facessi rumore girando per le stanze o nel cortile. Uno di questi terribili
pomeriggi giacevo nel letto non già dormendo, ma in uno stato
incerto di assopimento, quando sentii dei fischi nel portone. Non vi
ero che io che avessi degli amici così pazzi da chiamarmi in
quelle ore ancora più insolite che le ore di notte; così,
ripetendosi il richiamo balzai dal letto e corsi alla finestra dalla
quale solevo rientrare di notte. Infatti era Carmine. Mi vestii e ce
ne andammo.
Carmine viveva con la matrigna e il padre inchiodato al letto da alcuni
anni, non so da che malattia. Quando videro che non c'era verso di mandarlo
a scuola, verso i sedici, diciassette anni cercarono di farlo andare
a lavorare in qualche posto, come commesso o come fattorino. Ma Carmine
non poteva tollerare un lavoro regolare che costituisse un impegno,
e non voleva avere padroni nè stipendi, fossero anche stati d'un
milione. Suo padre, un piccolo impiegato in pensione, ne aveva già
abbastanza dei suoi guai, di cui morì di lì a qualche
anno, e la matrigna alla fine lo lasciò fare, ma facevano conto
che non esistesse; non gli passavano che il letto per dormire, e qualche
volta da mangiare; ma non poteva fare affidamento che sul letto, perchè
nel preparare da mangiare la donna non teneva nessun conto di lui e
gli lasciavano soltanto quello che avanzava, se avanzava. Così
doveva pensarci da solo, e qualche volta se la passava male. Quel giorno
per esempio mi bastò guardarlo in faccia per capire che aveva
saltato il pasto. Gli diedi una sigaretta e dalla prima boccata che
diede vidi bene che non doveva fumare da alcune ore.
- Hai qualcosa? - mi chiese subito.
Facemmo il conto di quanto avevo nelle tasche: poco meno di cinque lire,
e gliele diedi; e ci mettemmo a cercare dove avremmo potuto trovare
da spenderle. Ma a quell'ora era tutto chiuso. Percorremmo tutta la
città in cerca d'una trattoria o almeno d'una panetteria aperta,
ma era un sogno. Non incontrammo che qualche mendicante disteso a dormire
sotto un portico, e dei Cristi e delle Madonne in cartapesta, a grandezza
naturale, lasciati davanti alle botteghe ad arrostire al sole. Occhiaie
vuote e gesti. Allora Carmine si fermò, e dopo qualche istante
di riflessione, disse:
- Non c'è che una speranza. - E si diresse verso il Convento
dei Passionisti. Seguendo la breve lista d'ombra lungo i muri, passammo
il convento, la chiesa di pietra cruda, con la cupola a mattonelle di
maiolica verde piena di riflessi e raggiungemmo con gli abiti incollati
dal sudore, e la giacca sulle spalle, le ultime case, che erano già
d'una borgata che la città aveva raggiunto, in direzione della
costa. Trovammo un gioco di bocce e in una stanzuccia intonacata di
fresco una donna che armeggiava attorno al fuoco preparando del fegato
arrostito per i clienti che sarebbero venuti a giocare appena il soie
fosse un po' calato. Si sentiva un grato odore di lauro, ma veniva anche
dal fornello un gran calore e la donna aveva il viso rosso come un cocomero.
Carmine mangiò del fegato con del pane rustico, e un uovo sodo
e dei finocchi, e poi ci sedemmo fuori, sotto una piccola tettoia a
fumare e a bere del vino allungato con l'acqua, perchè a quell'ora
un solo bicchiere di quel nostro vino nero e denso, che si direbbe pigiato
dai diavoli, tanto è forte e maligno, ci avrebbe fatto girare
la testa. lo temevo che non saremmo arrivati a pagare tutta quella roba,
ma Carmine aveva fatti i conti fino al centesimo.
Ci mettemmo a discorrere del più e del meno, e a un certo momento
Carmine domandò:
- E Nelly?
- Non l'ho più vista. Te l'ho detto che l'ho lasciata, no?
- Sì, ma pensavo che fosse una baruffa passeggera.
- Non voglio saperne più.
- A me pare che tu abbia fatto male a lasciarla.
-Perchè?
- Ti poteva ancora servire.
- Era un comodino, non è vero? - chiesi ironicamente. - Un comodino
o come altro lo vuoi chiamare.
- Ma era un comodino molto noioso.
Carmine alzò le spalle e stette qualche tempo in silenzio, a
tracciare del segni con lo stecco sulla terra. lo guardavo quel paesaggio
piatto e nello stesso tempo irto della campagna che si apriva davanti
a noi. Aveva qualche cosa del granchio: il corpo piatto e però
gli scogli che affioravano fra i campi, e il verde insidioso dei fichi
d'india, e i muri a secco che cingevano i campi di tabacco dalle foglie
coperte d'un fitto strato di polvere bianca e pesante, di pietra polverizzata
dal caldo e dalle ruote dei carri.
- Fa' come vuoi - riprese, facendosi serio e abbassando un pò
la voce con un tono di segretezza. - Queste sono sciocchezze, dei contorni.
Ma ora è venuto il momento di pensare alla pietanza.
lo tacqui. Carmine incominciava sempre molto alla larga, ed era difficile
dire dove aveva intenzione di parare, e anche se vi era l'intenzione
di andare a parare in qualche cosa, perchè a volte cominciava
così e poi d'un tratto si fermava.
- Vedi, Vittorio, non so se tu te ne sei accorto: noi facciamo l'arte
dei funaioli, che invece di andare avanti vanno indietro.
A dire il vero, io non ne ero convinto, ma dissi di sì per lasciarlo
proseguire, e fui compiaciuto che egli mi attribuisse la stessa anzianità
sua e degli altri amici in quella vita, dimenticando che fino a due
mesi prima ero ancora nelle scuole. Egli però dovette accorgersi
che gli rispondevo senza convinzione, perchè riprese a dire:
- Io ho un po' più d'esperienza di te, e questa vita tirata avanti
giorno per giorno ha i suoi lati belli, non dico di no, ma alla fine
può anche stancare. Perciò bisogna provvedere in tempo,
e risolvere ogni cosa in un colpo solo, perchè noi non siamo
gente da mettersi a lavorare per comprarsi una camera da letto a rate,
ti pare?
Io, naturalmente, su questo non potevo non essere d'accordo, ma non
vedevo la soluzione, e glielo dissi.
- La soluzione c'è, ed è per questo che te ne sto parlando.
Non dipende che da te e non ci sarebbero più preoccupazioni per
nessuno di tutti e due, nè dovremmo più andare elemosinando
una lira, come facciamo, o stare ad aspettare il pollo che la mattina
esca di casa con i danari che ci servono.
- E che vorresti fare? Svaligiare una banca? - gli chiesi ridendo.
- C'è delle altre banche oltre quelle che tu conosci. Delle banche
che non presentano nessun rischio, e se uno riesce a metterci sopra
le mani diventa un galantuomo a cui tutti si tolgono il cappello. E
a una di queste banche che io ho pensato per te, se mi prometti di non
dimenticarti della nostra amicizia. Che ne diresti di una moglie con
un paio di milioni di dote, eh?
Io storsi la bocca. L'idea del matrimonio non mi garbava punto, ma poichè
la sua idea mi sembrava ingegnosa e priva di qualunque probabilità
di essere attuata, gli feci delle obbiezioni più che altro per
farlo parlare e vedere che cosa mi avrebbe risposto.
- Le ragazze ricche non sposano uno squattrinato. Sai bene Che sono
le famiglie che combinano i loro matrimoni.
- Non sempre. Tutto sta a togliere alle famiglie la possibilità
di scegliere. Si fa girare la testa alla pulzella, dopo di che le si
fa la festa quanto più clamorosamente è possibile, in
modo che lo venga a sapere tutto il paese, e allora alla famiglia non
rimane altro che rassegnarsi al fatto compiuto, e pregarti di sposarla.
- E tu credi che una ragazza ricca vorrebbe saperne d'uno che non ha
un soldo?
- Non devi mica andarle a dire che vuoi sposartela. Vedi, queste ragazze
sono allevate per il matrimonio, come le altre del resto, ma queste
più che tutte le altre. Sono come i capponi che s'ingrassano
per le feste, e finchè non si presenta l'occasione buona vivono
sotto una vigilanza strettissima e ogni volta che i genitori s'accorgono
di qualche simpatia pericolosa immediatamente intervengono troncando
ogni cosa sul nascere. Ma questa tattica va bene se si tratta di una
relazioncella palese; se invece si riesce ad arrivare di contrabbando
sino alla pulzella, la famiglia non ha modo di difendersi, e la ragazza
sarà la prima a esser contenta di sfuggire all'assedio, mi capisci?
Queste ragazze ricche, per la loro stessa mancanza d'esperienza, sono
le più stupide, e ci cascano più presto delle altre. Credimi
pure, l'unica difficoltà è quella di non far sapere niente
a nessuno, ma questo non ti riguarda, questo sarebbe affar mio. - Ma
non ti pare che per fare ciò che dici ci vorrebbe comunque del
denaro?
- Lo si troverebbe. Conosci Mauro M.? Era più pezzente di noi,
e andava vestito come un povero diavolo, quando decise di fare il colpo
sposando la T., che ora è di fatti sua moglie. Mauro aveva degli
amici, e son quelli che anche ora fanno parte della sua compagnia. Cominciarono
a prestargli gli abiti, le scarpe, le cravatte, le camicie. Così
cominciò a farle la corte. Quando le cose cominciarono a mettersi
bene, uscì anche il danaro, capisci? So io dove trovarlo; tu
non ti devi perdere in questi dattagli. Questa parte riguarda me. Tu
non devi preoccuparti di nulla; devi fare solo quello che ti dico io.
Siamo d'accordo?
- No - gli risposi proprio di cuore, perchè se a principio il
progetto mi sembrava irrealizzabile e buono tutt'al più per passare
il tempo a discorrerne, ora cominciavo a convincermi che Carmine era
uomo da attuarlo davvero. Il sole aveva cominciato a calare, e ora il
bianco della polvere sul fichi d'india e sul tabacco aveva qualche cosa
di spettrale.
Già i primi giocatori vociavano sul campo delle bocce. Decidemmo
di tornare in città.
Carmine mi prese per braccio, mentre camminavamo:
- Ci pensi che è la fortuna per tutti e due che tu stai rifiutando?
E perchè poi?
- Perchè non voglio rinunziare alla mia libertà.
- Di che libertà vai parlando? Della libertà che ha un
uomo che non ha un soldo? Credi che sia meno libero un uomo sposato
che ha un mucchio di quattrini di un altro che è scapolo ma non
ha una lira? Intanto viaggeresti per tuo conto tutto il tempo che vorresti,
e quando invece tu fossi qui ci sarei io a eliminare ogni ostacolo.
Perchè io non ti lascerei. lo non voglio nulla. Non dovresti
darmi neanche un soldo. Starei con te e penserai ai tuoi affari.
- Non c'è da fare, Carmine. E poi, vuoi che ti dica tutto: mi
ripugna far fortuna coi danari d'una donna.
Carmine scosse il capo.
- Lo sai che cos'è il danaro? Il danaro è una fortezza
piena di guardie e di cannoni e noi siamo fuori e abbiamo solo due coltellini,
hai capito? E tu vorresti attaccarla di fronte? E pensi di poter penetrare
nel Castello senza ricorrere all'astuzia? lo ti mostro il punto debole,
il solo punto debole di questa roccaforte, e tu ti fai uno scrupolo
di entrare di là? Andiamo, pensa che si tratta del nostro avvenire!
Ma io non l'ascoltavo più...
Ma io non l'ascoltavo più. Da un balcone aperto sulla via, proprio
sul nostro capo, cadevano le note d'un valzer suonato da un pianoforte.
Era un valzer che avevo sentito una volta sola molti mesi prima, e mi
parve miracoloso riconoscerlo così prontamente (7). Un vero presagio.
Durante l'inverno ero stato invitato a una festa in casa d'un compagno
dei Liceo; com'erano noiose le serate dei miei tempi! Le ragazze sedevano
accanto ai genitori e quando la musica suonava, allora soltanto era
permesso avvicinarsi e invitarle, ma allora, finchè durava il
ballo, non c'era verso che i genitori staccassero gli occhi dalla figlia
e se le si diceva qualche frase: "C'è molta gente, non si
può ballare". "Lei balla molto bene" - questi
erano i discorsi che si tenevano -, era certo che come tornava al suo
posto sarebbe stata sottoposta a un interrogatorio per sapere che cosa
le era stato detto. Se poi si invitava una ragazza per due balli a poca
distanza l'uno dall'altro, tutta la sala se ne accorgeva e subito si
facevano supposizioni. Quella sera c'era stato uno scandalo, perchè
una vedovella, col pretesto che io ballavo molto bene, era venuta lei
stessa ad invitarmi e a richiedere che facessi con lei un ballo sì
e uno no, e ogni volta si stringeva con più calore. A me questo
non garbava gran che, perchè mi premeva ballar bene, e anche
perchè da qualsiasi parte guardassi mi vedevo sopra una fila
d'occhi pieni di rimprovero dei genitori delle ragazze seduti lungo
le pareti della sala, ma non c'era veramente nulla di meglio da fare,
perchè nessuna delle loro figlie aveva abbastanza meriti da vincere
lo svantaggio di quei noiosi custodi, così continuai per qualche
tempo, quando d'un tratto vidi seduta al piano una ragazza dal corpo
magro e slanciato, e i grandi capelli neri che le ricoprivano le spalle.
Alla fine del ballo le andai vicino e le chiesi:
- E lei non balla?
- Se non suonassi lo, come fareste a ballare? - mi rispose, senza guardarmi
-. E poi i miei genitori non mi farebbero ballare.
- L una crudeltà - diss'io - Ebbene, non ballero più nemmeno
io.
Allora essa si voltò a guardarmi, dapprima seriamente, poi vidi
nascere lentamente, come una luna che spunti dalle nuvole, il più
bel sorriso che sia mai stato al mondo, e questo sorriso era per me
e per nessun altro, e ridevano specialmente gli occhi, che erano celesti
e serbavano tutta la freschezza dell'infanzia e facevano con i capelli
neri un inatteso contrasto.
- Qual'è il suo nome? - le chiesi. - Ines. E il suo?
- Vittorio.
In quel momento s'udì un vocìo nella sala di gente che
reclamava la musica per poter ballare e batteva le mani. Ines si piegò
sul piano, accennando degli accordi, e mormorò:
- Balli. Suonerò per lei.
- Io resterò qui a sentirla suonare.
In quei momento mi venne davanti la vedovella:
- Andiamo, mio bel cavaliere.
- Non ballo più. Sono stanco.
- E' un gran torto che voi mi fate - e subito s'allontanò svolazzando
per la sala in cerca di qualcun altro, e Ines incominciò a suonare.
Suonava impetuosamente, ma con una rigidezza molto simile a quella del
suo corpo, non ancora del tutto uscito dal l'adolescenza. In piedi presso
il piano, io ascoltai in silenzio da principio alla fine.
Una sola volta aprii la bocca per chiederle come si chiamava quella
canzone:
- Valzer bleu - rispose, cautamente, senza alzare il capo dal piano,
come se mi confidasse qualcosa di nascosto.
Non aveva neanche finito di suonare che suo padre si avvicinò,
e severamente squadrandomi disse a sua figlia: - S'è fatto tardi,
Ines, andiamo a casa. Mi salutò impacciata, e quando fu sulla
porta si volse un'ultima volta a guardarmi e così scomparve ai
miei occhi come un caro fantasma a cui per la propria confusione non
si è riusciti a domandare come fare per rivederlo ancora una
volta.
A quel tempo, pur sapendo che la città in cui vivevo era una
piccola città di cinquantamila abitanti, essa mi faceva lo stesso
effetto d'una enorme metropoli che non si riuscirà mai' a conoscere
interamente. Nel giorni seguenti, dopo aver chiesto notizie di Ines
a quei compagni di scuola che erano stati alla festa, e ne ebbi ricevuto
la risposta che non ne sapevano nulla e che, come me, non l'avevano
mai veduta prima di quella sera, non mi restò che rassegnarmi,
e sperare che un capriccio del caso mi facesse incontrare in quella
enorme e sconosciuta foresta di case quella apparizione con la quale
mi sembrava di aver vissuto nel giro di poche frasi tutta un'intera
vicenda d'amore. Per mia disgrazia, delle due sole notizie che avevo
di lei: il suo nome e il valzer che aveva suonato per me, non ricordavo
più quest'ultima. E questo era strano, perchè avevo una
grande memoria per le canzoni, e dopo la prima volta che ne avevo sentito
una, ero in grado di ripeterla interamente dalla prima all'ultima nota
e non me la dimenticavo, ma forse, mentre essa suonava, m'ero troppo
distratto dietro ai significati che essa aveva voluto nascondere in
quella musica, e così non ci fu più verso che io potessi
ricordarla. Tuttavia non dubitavo che mi sarebbe bastato sentirla ancora
per riconoscerla immediatamente. Così appena sentii quelle note,
mi fermai sull'istante sotto il balcone da cui provenivano, e dopo un
primo istante di stupore subito mi tornò in mente Ines e non
ebbi alcun dubbio che potesse essere un'altra persona che stesse suonando,
perchè quei valzer mi pareva qualcosa che fosse strettissimamente
congiunto alla sua persona. Guardai nella via, non c'era nessuno; allora
mi chinai, e preso un sassolino attraverso il balcone lo gettai nella
stanza.
- Chi c'è lì? - chiese Carmine.
- Non lo so ancora. E' proprio questo che voglio vedere.
Ma il piano suonava ancora, e questo mi rassicurò, pensando che
non c'era nella stanza se non la persona che suonava, che badando a
suonare, non aveva fatto caso al rumore del sassolino". Sicchè
tornai a chinarmi, e scelta una pietra più grande tornai a gettarla,
e stavolta, mentre Carmine mi domandava se ero impazzito, la musica
si spezzò a mezzo con un tonfo una figura accorrendo s'affacciò
alla ringhiera del balcone. Era Ines. Appena mi vide, le si illuminò
il volto di gioia:
- Mi hai fatto spaventare. Sei stato tu? Come hai fatto a trovarmi?
- Passavo di qui e ho riconosciuto la musica.
Io vidi che essa era veramente felice, ma in quel momento dovè
sentire qualche rumore alle sue spalle, perchè si ritrasse bruscamente
senza salutarmi, e io m'allontanai in fretta oltre la svolta, seguito
da Carmine.
CAPITOLO X
Vi è una
sola libertà di cui gli abitanti di L. sono realmente gelosi,
ed è quella che esercitano nel chiuso delle pareti domestiche,
picchiando le proprie mogli o essendone picchiati, senza che altri intervenga,
o almeno senta le ingiurie e indovini i colpi scambiati nella lite,
e mangiando male senza che i vicini possano arguirlo dalla cassetta
degli avanzi. "A casa sua ciascuno è Re" è un
proverbio che ricorre abbastanza spesso sulle loro labbra, e purchè
sia illesa questa loro potestà, poco importa chi comandi al di
là della porta di casa. In tutta la città non vi sono
più di due edifici che superino il secondo piano, e questi sono
adibiti ad uffici pubblici. Nella parte vecchia della città solo
le case dei signori hanno un primo piano, perchè in origine le
loro famiglie occupavano tutto intero il palazzo, fra enormi stanze
o vuote o adibite a dispensa, mentre i poveri abitavano in case basse,
di una o due stanze, ma con la porta sulla strada, e non avrebbero scambiato
questi loro miserabili tuguri umidi e senza luce con un appartamento
nuovo in cui però vi fossero un portone e una scala in comune
con altra gente. Si sarebbero sentiti oppressi e orbati della più
necessaria libertà. Senza contare i litigi e infine la feroce
inimicizia a cui porta questa insofferenza fra i vicini di casa, e di
cui per solito sono inconsapevoli istigatori i bambini.
Gli stessi principi regolano la costruzione delle nuove case che s'innalzano
alla periferia, con questo di peggio: che oltre a costruirle per lo
più col solo pianterreno e raramente ad un piano, non essendovi
penuria di spazio le si costruisce staccate le une dalle altre. Così
in un paese dov'è considerato eroe indigeno un muratore che per
sfuggire ai pignoramenti per le tasse s'era fabbricato tutti i mobili
di casa in pietra, dall'armadio e dal tavolo fino alle seggiole e al
letto coniugale, d'altra parte viene disprezzato il vantaggio di risparmiare
l'alzata d'un muro addossando una casa all'altra, e l'altro vantaggio
di costruire più piani sullo stesso suolo edificatorio del pianterreno.
Questa è la ragione per cui la città copre un'estensione
almeno doppia di quanto lo comporterebbe il numero delle sue famiglie
e senza posa trabocca nella circostante campagna. lo ricordo che quand'ero
bambino, alle spalle della Villa Comunale non c'erano più case
e si vedeva in lontananza il convento dei Passionisti e, intorno, un
borghetto di poche case. Ricordo anche una specie di Calvario, con una
croce che spuntava da un monticello di pietre e su di essa il Cristo
inchiodato, di cartapesta, con delle grosse gocce di sangue che gli
scendevano sul viso dalla fronte incoronata di spine e delle piaghe,
alle mani ed ai piedi, d'una verosimiglianza rivoltante. Ora però
la città aveva raggiunto e quasi sorpassato il convento e le
case, oltre i quali si stendevano le terre della Duchessa D., sino a
un'enorme distanza, comprendendo vigneti, coltivazioni di tabacco, boschi
d'ulivi, i più grandi della provincia. In questo punto s'era
spinta più lontano l'avanzata della città, in altri invece
era restata più indietro. Da questa parte il punto dove aveva
trovato più resistenza era la via dove abitava Ines.
Poche case, distaccate l'una dall'altra, che bruscamente s'interrompevano
davanti a una lieve barriera di melograni, oltre i quali pareva che
il cielo si abbassasse con un salto; la via, spezzata, non aveva altro
sbocco che in un viottolo a sinistra, che usciva sui campi. Così
pure la campagna faceva capolino fra le case, sulla destra, dov'era
la casa di Ines, che era la sola ad un piano, sicchè io vedevo
subito il suo balcone, appena imboccata la via. Ma era difficile che
la trovassi affacciata, più spesso era dietro i vetri, nell'ora
in cui per un tacito accordo sapeva che sarei passato, e mi faceva dei
cenni di saluto così festosi che io non mi sarei meravigliato
se un giorno mi avesse accolto battendo le mani dalla gioia. Altre volte,
col balcone aperto, suonava al piano, quella nostra canzone, ogni tanto
interrompendosi e facendo un salto al balcone per vedere se io passavo.
Per lo più cercavo di passare in compagnia di qualche amico,
in modo da far vedere, poichè la via era fuori mano e frequentata
solo da quei pochi che vi abitavano, che ci fossimo trovati lì
passeggiando a caso, e quando mi fermavo sotto il balcone di Ines, che
ci fossimo fermati a discorrere per nostro conto. In tal modo forse
non ingannavo nessuno, ma mi evitavo l'impaccio dì sentirmi solo
e spiato nella strada deserta, e se il padre o la madre di Ines fossero
apparsi a un'altra finestra o all'angolo della strada non avrebbero
potuto affermare con certezza che io stessi lì perchè
anche lei c'era; infine, se entravano nella stanza dov'essa era, essa
faceva un piccolo moto del capo, e a quei cenno io giravo l'angolo,
sparendo nel viottolo. Mi accompagnavano di solito o Carmine o Ruggero;
altre volte passavo in motocicletta con Albertino. Appena entrati nella
via, invece di rallentare, Albertino passava a corsa pazza sotto il
balcone, con grande strepito del motore, e a quella velocità,
giunto all'angolo, voltava frenando di colpo e facendo girare la ruota
posteriore sulla anteriore ferma in modo che sembrava che la motocicletta
si stesse spezzando in due parti, poi riprendeva a correre come un dannato
nel viottolo, fra i sassi e le buche del terreno. In quel tempo, con
quella vecchia motocicletta presa a nolo, Albertino vinse una gara importante,
arrivando con mezz'ora d'anticipo sugli altri concorrenti. Mi trovai
al suo arrivo, ed ebbi il sospetto che si fosse fermato a qualche chilometro
dalla città per togliersi la tuta e lavarsi il viso, perchè
dopo aver fatto il giro della provincia e aver sollevato le tonnellate
di polvere bianca e attaccaticcia che ricopre le vecchie strade scassate
della nostra terra, arrivò col viso fresco e i capelli ben pettinati,
una mezza sigaretta spenta fra le labbra e il suo inseparabile abito
blù, come se avesse fatto appena un giro in città. Mezz'ora
dopo arrivarono gli altri, con due occhi che si muovevano stranamente
su una maschera bianca, e bianchi dalla testa ai piedi, su enormi motociclete
rosse da corsa, e quando la gente li vide non parve che Albertino li
avesse vinti ma anche coperti di polvere e di ridicolo. Effettivamente
egli guidava come un pazzo, ed io sono il solo che lo possa dire per
esperienza, perchè ad andare in motocicletta dietro di lui c'era
da mettersi le mani nei capelli, e nessuno accettava l'invito che egli
faceva con un sorriso di sfida, fuorchè io. Se vedeva due veicoli
incontrarsi per qualcuna delle viuzze cittadine, subito correva per
passare in mezzo nello strettissimo spazio che restava, e se andavamo
fuori di città come vedeva uno di quei pali del telegrafo sostenuti
da un altro palo inclinato, non stava in sè se non passava correndo
in quello stretto triangolo, abbassando il capo e infilando prima una
poi l'altra estremità del manubrio. E se vi erano lungo la strada
i monticelli di selce degli spaccapietre saltava da uno all'altro con
salti da cavalletta (9).
La notte invece ogni tanto riuscivo a trascinarmeli dietro con la prospettiva
dell'uva che da quella parte non avevamo ancora vendemmiato. Fingevano
di credere che Io lo facessi solo per l'uva, ma poi quand'eravamo sotto
il balcone di Ines si mettevano a schiamazzare, senza dare a vedere
che lo facevano apposta per me, sperando che io mi scoprissi pregandoli
di smetterla. Ma io facevo finta di nulla, giocando sul fatto che Ines
non sapeva di quel mio passaggio notturno e sicuramente a quell'ora
dormiva. Una notte il cielo era pieno di nuvole correnti che si spostavano
rapide da una parte all'altra, parevano squadre che facessero evoluzioni
in una piazza d'arme, e come c'era la luna, che solo in brevissimi istanti
splendeva scoperta, vagava per la notte un chiarore mutevole, a seconda
della densità del vapori, ora sul punto di farsi luce, ora affievolendosi
sino a mancare. Com'eravamo nella via di Ines, per un attimo brillò
come una candida fiamma il muro ch'era di fronte al suo balcone, e subito
dopo spegnendosi come se una mano avesse bruscamente tirato una cortina
su di esso; ma quel momento gli era bastato per attrarre l'attenzione
dei miei amici.
- Ci vogliamo mettere su una firma? - propose qualcuno, forse Ruggero;
gli altri non si lasciarono sfuggire quella proposta:
- Ma certo! Perchè no? - e si fermarono presso il muro e con
delle matite si misero a disegnare a gara degli enormi falli, spiandomi
nello stesso tempo con la coda dell'occhio, nella speranza che io mi
sarei messo a protestare, o comunque che avrei dato a vedere in qualche
modo la mia vergogna. Ma io me ne stetti a guardare dalle loro spalle
i loro disegni e gli arabeschi con cui Il decoravano minuziosamente
incurvando la punta della matita e raschiando il legno sulla calce,
e mi accontentai di dire:
- Non sapevo che fosse quello il vostro nome e cognome.
In quel momento percepii un brevissimo scricchiolio alla finestra del
balcone. Mi volto e vedo una forma bianca sgusciare con precauzione
fra i battenti socchiusi e sporgersi alla ringhiera. Non potevo esser
certo che fosse lei perchè in quel momento passava sulla luna
un nuvolone più denso, e così mi scostai dai miei amici
fermandomi proprio sotto il balcone, ma non sapevo che fare, temendo
che potesse esser sua madre. Stavo Il zitto, senza saper che fare, e
anche gli altri s'erano taciuti vedendomi allontanare e guardare in
sù; in quell'improvviso silenzio, in cui s'introdusse un lontano
canto di grilli che fino a quel momento non avevo udito, mi giunse come
un sospiro la voce di Ines:
- Sei tu, Vittorio? Ho sentito la tua voce da lontano mentre dormivo.
Sentii Albertino che diceva alle mie spalle:
- Beh, andiamo all'uva - e si mossero tutti. Quando arrivarono all'angolo,
si senti la voce di Carmine che diceva ad alta voce per me:
- Noi stiamo andando all'uva.
Io ero un po' vergognoso che essa avesse potuto sentire i nostri discorsi,
d'altra parte, pensavo, se avesse capito, certamente non avrebbe voluto
ammetterlo e non si sarebbe affacciata. Come potevo immaginare che ci
fosse in lei tanto candore se non avevamo scambiato che qualche frase,
la sera della festa e la volta che le avevo gettato la pietra nella
stanza? Ed ecco, la sua voce tornò a farsi sentire, insidiata
dai grilli e dal rumore dei passi degli amici che si disperdevano fra
i campi:
- Sono tuoi amici?
- No. Facevamo la strada assieme.
- Sai, non lo dicevo per te. Non m'importa se sono tuoi amici. Tu puoi
andare con chi vuoi.
In quel momento dovè sentire qualche rumore perchè si
affacciò nella stanza e stette qualche tempo in ascolto, poi
ritornò al balcone:
- Tornerai anche domani sera?
- sì.
- Allora vieni dall'altra parte. Mi affaccerò di là. Buona
notte. Sono contenta d'averti visto.
- Anch'io cara. Buonanotte.
La notte successiva ritornai con gli amici. Mentre essi si spargevano
per i campi, io feci il giro della casa, scendendo sul fondo fra i fichi
d'india che chiudevano il vigneto; a principio non vidi nulla, perchè
la luce della luna gettava una polvere bianchissima sul muro bianco,
finchè abituatosi lo sguardo, vidi un'ombra a una finestra. Ci
salutammo, ma non potevamo parlarci, perchè intanto il livello
del fondo era più basso di quello della strada, e perciò
la finestra era più distante, secondariamente, veniva dalla campagna
un rumore confuso, in cui il meno era il canto del grilli o il latrare
dei cani in lontananza, e a questo rumore fatto di infiniti rumori si
aggiungevano più vicino a noi ora lo schianto di rami secchi
sotto il passo dei miei amici che ora si avvicinavano ora s'allontanavano
e il fruscio delle viti che essi tastavano di sotto per scoprire i grappoli
nascosti, ora le loro voci con cui si richiamavano quando qualcuno di
essi aveva scoperto qualche punto fruttuoso, o scherzavano per lo più
a mie spese, elogiando il banchetto di cui io mi privavo, o gridando
in modo che io sentissi:
- Dove s'è cacciato Vittorio?
- Eh, starà mangiando da solo. - rispondeva qualcun altro.
Noi tacevamo, aguzzando lo sguardo, ma non vedevamo più che le
nostre ombre: io un'ombra bianca nella luna e lei un'ombra scura fra
i fichi d'india. Tuttavia anche così stavamo bene, e quando ci
salutammo ci pareva d'aver fatto chissà che lunghi discorsi.
Fu peggio quando la luna andò via: ci dovevamo accontentare di
saperci là, l'un l'altro, e stavamo a sentire il va e vieni degli
amici nei campi, denunziato dal frusciare delle foglie, a volte vicinissimo
se qualcuno di essi aveva scoperto un itinerario d'uva non tagliata
in prossimità del luogo dove io ero, quando bruscamente una notte
vidi alla finestra un movimento che non capii, ed ebbi la sensazione
che Ines non fosse più là.
lo non mi mossi, aspettando se mai ritornasse dopo scampato il pericolo,
e non dovetti curarmi di nascondermi perchè nell'oscurità
non si può vedere un uomo nascosto tra i fichi d'india se non
dopo averci urtato il naso contro; quando bruscamente una voce piena
di collera scoppiò a pochi passi da me:
- Mascalzone. Lascia stare mia figlia, hai capito? Lascia stare mia
figlia! Tu non devi neanche permetterti di guardarla.
Un uomo s'era avventato contro uno dei nostri, che risultò poi
essere Albertino, e lo aveva afferrato per il petto. Albertino non disse
una parola; fece scattare il coltello che aveva in mano e glielo mise
sotto il naso. In quel momento da tutte le parti del fondo si alzarono
delle ombre, circondando i due.
- Che è stato? Che è successo? - domandavano con tono
minaccioso.
Il povero padre di famiglia, e per giunta impiegato, che se n'era venuto
sicuro di trovarsi davanti il corteggiatore di sua figlia, con tutto
il vantaggio che la sua posizione gli assicurava, vide il coltello,
si vide circondato da sei o sette sconosciuti in campagna di notte,
lasciò la presa e non riusciva a capire in che pasticcio s'era
cacciato.
- Cos'è successo? - domandavano quelli ora che lo avevano circondato.
- Questo signore è il padre della vigna. - spiegò gravemente
Albertino.
Gli altri scoppiarono a ridere e presero a dileggiarlo e Carmine, colla
sua solita maniera per far durare gli scherzi quando davano fastidio
a qualcuno, fingeva di non capire:
- Come? Come?
In realtà in principio capirono male, perchè credettero
che fosse lì padrone del fondo.
- Dice che è il padre della vigna - tornò a spiegare Albertino
- e che non ci dobbiamo permettere neanche di guardarla.
Allora il pover'uomo si fece coraggio:
- Io non ho parlato della vigna.
- E di che parlavi allora?
- Parlavo di mia figlia. C'è stato un errore. - E passava lo
sguardo da uno all'altro cercando se poteva riconoscermi -. Vi ho scambiato
con un'altra persona.
E dopo qualche esitazione si arrischiò:
- C'è qualcuno che si chiama Vittorio fra voi?
- Vittorio? - disse Carmine -. Io, no. Ora domandiamo. Tu, Albertino,
ti chiami Vittorio?
- Io, no.
- E tu, Ruggero? E tu, Mario? E tu... - Carmine era fatto apposta per
portare questi scherzi alle lunghe. Quando ebbe terminato l'appello,
si rivolse al mai capitato:
- Vedete bene che qui non c'è nessun Vittorio!
- Allora, Vi chiedo scusa. - disse il genitore, e fece per andarsene.
- Un momento. Ti abbiamo dato tutte le spiegazioni che hai voluto, ora
abbiamo anche noi il diritto di sapere qualcosa, non ti pare? Sarebbe
troppo comodo. Si aggredisce un galantuomo che se ne sta per fatti suoi,
lo si insulta, e poi gli si dice: "vi avevo scambiato per un altro".
Eh, no, Dunque, tu hai una figlia, è vero?
- Sì.
- E questa figlia se la intende con un certo Vittorio, è così?
- No. Mia figlia è un angelo.
- Allora fra tua figlia e questo Vittorio non c'è nulla.
- No.
- E tu vai in cerca di questo Vittorio all'una di notte e giri per la
campagna, per aggredirlo o picchiarlo per così poco? Allora vuoi
dire che sei un maniaco e un prepotente. Sei un uomo pericoloso, ed
è nostro dovere consegnarti alla forza pubblica.
Il poveretto non sapeva che dire. lo ne avevo un pò di pietà
perchè era il padre di Ines, d'altra parte mi divertiva come
lo tormentavano, e in fondo mi pareva che se lo meritasse, perchè
se mi avesse trovato solo non avrebbe fatto tanti complimenti e io non
so come me la sarei cavata, perchè era un uomo abbastanza robusto
e inferocito dall'onore familiare offeso.
Non trovava che dire. Quando si sentì battere della manate sulle
spalle, e vide che lo volevano portar via, se ne uscì con un
tono lamentoso:
- Ma io sono un uomo probo ed onesto. Sono il vice ricevitore dei Registro.
C'è da figurarsi che risate e che nuovi scherni suscitò
questa frase. Alla fine, quando furono stanchi di tormentarlo Albertino
gli disse;
- Dovresti vergognarti. Un vice ricevitore del Registro che va girando
la notte per dar fastidio alla gente che non gli ha fatto nulla. Va'
a coricarti subito! E guai a te se ti peschiamo un'altra volta.
Poi, mentre stava per andarsene, lo richiamò indietro:
- Vieni qui, e apri bene gli orecchi. Se dici una sola parola a tua
figlia domani mattina tutta la città conoscerà le prodezze
notturne del signor vice ricevitore del Registro.
Non aveva fatto dieci passi per andarsene che Barone si mise a gridare
verso il posto dove io me ne stavo nascosto:
- Puoi uscire, Vittorio. Se n'è andato.
Ma lui si guardò bene dal voltarsi indietro. Dovette pensare
che fosse un ultimo scherzo alle sue spalle, ma credo che non si sarebbe
voltato ugualmente se fosse stato sicuro che io ero realmente là.
CAPITOLO XI
La notte non era
più il caso di passare davanti alla casa di Ines; continuai invece
a passare verso mezzogiorno e nel pomeriggio, qualche tempo avanti che
la città si sciogliesse dal suo accaldato letargo, e vedevo Ines
con la fronte appoggiata contro i vetri, guardarmi le prime volte con
tristezza, poi con la gioia d'un tempo, quando vide che io continuavo
a passare come se non fosse accaduto nulla.
Ciò che era accaduto essa del resto non lo sapeva; fui io a raccontarglielo
un pomeriggio che mentre i suoi dormivano non potè resistere
alla tentazione e mi fece cenno di entrare nel portone dove potemmo
parlare per pochi istanti, io sotto la scala e lei in alto affacciata
alla rampa, e la prima cosa che mi domandò fu che cosa fosse
avvenuto quella notte dopo che s'era vista improvvisamente la madre
alle spalle, che l'aveva mandata a coricarsi, e aveva capito che suo
padre era sceso per me. E aggiunse che dopo che aveva sentito suo padre
rientrare in casa, dopo una mezz'ora, non aveva potuto dormire per tutta
la notte, temendo che non mi avrebbe più rivisto.
Non volendo ferirla per alcuna ragione al mondo, io le feci un racconto
molto prudente dell'abbaglio che aveva preso suo padre e della scena
che ne era seguita con i miei amici, ed essa ne era tutta contenta e
insistè a lungo perchè io le riferissi tutto per filo
e per segno, finchè io, che non sapevo negarle nulla fini! coi
riferirle la burla che gli avevano fatto, mentre io me ne stavo nascosto
fra i fichi d'india, ed essa ne rideva divertita, senza mostrare alcun
dispiacere per la ridicola figura fatta da suo padre, e allorchè
nel dialogo che le riferivo si veniva a parlare di lei, come quando
suo padre aveva negato che potesse esservi alcun legame fra lei e me
e aveva protestato che sua figlia era un angelo, rideva come se fosse
una bambina a cui stessi raccontando una storia comica. Quando ebbi
finito mi disse:
- Ti vogliono molto bene i tuoi amici, non è vero? lo dissi di
sì.
- Anch'io gli voglio bene. Sono stati molto bravi. Se fossi stata lì
gli avrei dato un bacio per ciascuno.
- Sei contenta che abbiamo preso in giro tuo padre?
- Sì. Perchè lui voleva farti del male.
Poichè parlavamo coi minuti contati, le chiesi se non vedeva
qualche altro modo per poterci parlare, ora che la notte non potevamo
vederci più. - Sì, c'è - mi disse -. Sai quanto
ci ho pensato prima di trovarlo? lo tornerò fra giorni dalla
mia maestra di piano, due volte la settimana. - e m'indicò la
casa dove abitava -. Ma mio padre m'accompagna fin sotto il portone
e poi viene a riprendermi.
- Ma allora come faremo a parlare?
Essa mi. guardò con gli occhi che le ridevano, fatta giuliva
della propria astuzia: - Quando tu ci vedrai passare attraverso la Villa
Comunale, correrai avanti e ti nasconderai nel portone, hai capito?
Ti indicherò più in là i giorni e l'ora dalla finestra.
- E portatesi le punte delle dita alle labbra si ritrasse dalla rampa
e rientrò in casa.
lo andai verso la campagna, poi ritornai indietro per vederla ancora
una volta alla finestra e mi diressi verso la piazza, dove già
cominciavano a radunarsi gli amici al caffè. L'occasione recente
della gara aveva messo in corso da alcuni giorni ragionamenti sui motori,
le valvole, gli accumulatori, i cambi, le medie orarie, ed altre cose
meccaniche di cui io non m'intendevo punto. Perciò me ne stavo
zitto, ma mi fece piacere sentire dichiarare da Albertino che anche
lui s'infischiava di tutte quelle notizie e abilità da meccanici.
- Tutte queste son cose da meccanici - disse ad un certo punto, - e
perciò non mi riguardano assolutamente. Datemi un catorcio che
sia in grado di camminare e io vi trovo l'acqua a tutti, con qualsiasi
vantaggio. Non voglio sapere di altro.
Si trovò, dopo questa frase, che a molti che sembrava stessero
discutendo con passione di quelle cose non gliene importava proprio
niente, e furono subito d'accordo con Abertino. Solo qualcuno cercò
di fare delle obiezioni, mi pare Pezzettino e un giovane bolognese,
che era commesso viaggiatore di non so che articoli.
- Ma bisogna pure conoscere quali sono le possibilità d'un motore,
e come impedire che ti lasci sulla strada.
- Io, se una macchina si ferma, la butto sulla strada e me ne vado.
Non è affar mio sporcarmi le mani d'olio per ripararla. Quanto
a codeste faccende di cronometri e di cambi ecc. ecc., se lo sport non
è altro che questo meglio impiegarsi all'ufficio del catasto.
Queste di Albertino non erano solo parole. Egli era capace di fare tutto
quello che diceva, infatti era già accaduto un paio di volte
che rifiutatasi d'andare avanti una motocicletta o avuta in prestito
o noleggiata, egli aveva buttata su un lato della strada, in piena campagna,
e se n'era tornato facendosi prender sù da qualche veicolo che
si trovava a passare di lì. Una di queste due volte m'ero trovato
anch'io: ce n'eravamo tornati con la carrozza d'un collegio, piena di
bambini, e quando rivide in città il padrone della motocicletta,
gli disse:
- La tua trappola per topi te l'ho lasciata al tale punto. Un'altra
volta impara a darmi una macchina che faccia il suo dovere e non un
catorcio. Mentre noi stavamo chiacchierando, arrivarono Carmine e Ruggero,
e siccome eravamo già molti attorno al tavolo, s'andarono a sedere
un pò più in là e stettero a confabulare per tutto
il tempo, specialmente Carmine.
- Cos'hanno da dirsi in segreto quei due? - mi domandò Albertino.
lo non seppi che rispondergli. Più tardi, quando restammo soli
noi quattro, e Michele, ma Michele non badava a ciò che si diceva
attorno a lui e non staccava più gli occhi dalle finestre di
Flora, che dalla sera del cinema non avevamo più veduto e si
diceva in città che fosse ammalata; quando dunque gli altri si
allontanarono, Albertino cominciò a sondare Carmine e Ruggero
con domande che a tutta prima non si vedeva a che cosa mirassero. Ma
Carmine non tardò a capire, e invece di rispondergli gli rise
in faccia:
- Questa volta la tua furberia non ti servirà a niente. Tu sei
molto furbo, caro mio, ma non è detto che non ci sia chi è
più furbo di te.
Saresti tu?
Forse. - e rivolse un'occhiata d'intesa a Ruggero che se ne stava sdraiato
su una sedia di vimini, con le gambe accavallate e un sorriso fatuo
sulle labbra.
- Mi bastano tre giorni per scoprire il piattino.
- Non impuntarti troppo, Albertino. Perchè vuoi fare una brutta
figura?
Bisogna sempre lasciarsi dietro una porta aperta, ricordati di questo,
se non vuoi che; ti capiti di perdere in una sola volta ciò che
hai acquistato in mille volte. Vedi, per esempio: tutti sanno che tu
sei un ragazzo furbo; che bisogno hai di giocartela in un colpo solo,
e in un'occasione così insignificante per te? Se tu ti impegni
così risolutamente, fra tre giorni noi abbiamo tutto il diritto
di burlarci di te, e per una sciocchezza di questo genere la gente finirà
coi convincersi che sei uno spaccone a vuoto.
- Se fra tre giorni io non saprò ogni cosa, fa' conto che non
mi chiamo più Albertino. Ti ringrazio delle tue prediche: un
prete non saprebbe farne di migliori. Ma non cambio idea: Napolitano,
ricordati.
- Dobbiamo scommettere qualche cosa?
- No. Questa volta non c'è bisogno di scommettere niente. Soltanto
mi prenderò la mia parte. - E li guardò diritto in faccia
tutti e due.
Dopo un poco, Carmine e Vincenzo si alzarono:
- Scusate, dobbiamo sbrigare un affaruccio - disse Carmine maliziosamente
-. Ma ci vedremo più tardi.
Quando imboccarono via San Marco io guardai Albertino: - Sarà
il caso di seguirli?
- No. E' tutta una commedia per far perdere le tracce - si alzò
e entrò nel bar. Io lo seguii, e vidi che interrogava a uno a
uno i camerieri e i garzoni per vedere se sapevano qualcosa, ma senza
nessun risultato.
Lasciammo l'Esperia, e facemmo il giro di tutti i caffè, sempre
domandando, poi passammo ai ristoranti, ai lustrascarpe, ai portieri
d'albergo, ai barbieri. A tutti Albertino domandava se non erano al
corrente di qualcosa che riguardava Ruggero, se non avevano notato nulla
di strano in questi ultimi giorni, o se non lo avevano visto fermo o
di passaggio per qualche via insolita. Conosceva tutti, e tutti gli
rispondevano rispettosamente, dopo averci pensato un po' di tempo.
- No, don Albertino. Mi dispiace di non poterla servire. Se mi riesce
di sapere qualcosa verrò a dirglielo subito.
CAPITOLO XII
Ce ne tornammo sulla
piazza; Albertino con le mani affondate nelle tasche guardava soprapensiero
gli uomini che a poco a poco convenivano sul marciapiede incominciando
la loro camminata avanti e indietro.
- Pare che non sarà facile. - dissi io, per rompere il silenzio.
- Credi che non ce la farò? - era serissimo; una volta tanto
la sua voce non aveva quel tono di spavalderia che a molta gente riusciva
più offensiva di un insulto. Io non l'avevo mai sentito parlare
altrimenti che così, e son certo che se vi fossero state altre
persone avrebbe parlato anche quella volta in quel modo; mi parve che
in quella sua domanda i nostri rapporti avessero bruscamente toccato
un segno più umano, e nell'alleanza, non più che questo
in quel nostro paese dove la vita è una guerra e chi oggi ci
è accanto lo è solo per un reciproco calcolo, finchè
non si presentino nuove circostanze, si fosse timidamente affacciato
il fiore dell'amicizia. Risposi stringendomi nelle spalle, per dire
che non sapevo proprio; Carmine doveva sentirsi sicuro del fatto suo
se aveva potuto ridere in faccia ad Albertino, e provocarlo con quella
chiacchierata ipocrita la quale non mirava ad altro se non ad accrescere
lo scorno di Albertino nel caso non fosse riuscito a mantenere la parola.
Poichè da noi non c'è amicizia che possa impedire ad uno
di colpire l'amico che ha perduto, e se anche Carmine non avesse parlato,
nessuno avrebbe fatto tacere Vincenzo e impedendogli di spargere ai
quattro venti la sconfitta di Albertino, della quale si sarebbe ingiustamente
attribuito una parte del merito. E con tutto ciò, questo non
avrebbe potuto significare che Albertino fosse meno furbo di Carmine;
ma aveva la mania di giocare dando il vantaggio agli avversari, di non
scegliere il momento per giocare ma di lasciarlo scegliere agli altri,
e di battersi sul terreno che essi ritenevano più conveniente
per loro. Esattamente il contrario di Carmine.
A quei tempi la città era mai rischiarata. Le vie del centro
fruivano per qualche ora della luce che mandavano le porte e le vetrine
dei negozi, ma quando arrivava l'ora della chiusura, a poco a poco le
tenebre rodevano il cuore della città: solo qua e là da
alcuni negozi ancora aperti cadevano sulla via dei rettangoli di luce
a gran distanza l'uno dall'altro. Oltre i caffè, che rimanevano
sino alle undici, gli ultimi a chiudere erano i salumai e le farmacie,
i primi perchè la gente solo a quell'ora si ricordava della cena,
che da noi si fa con roba fredda prima di andare a letto, i secondi
perchè vi si riunivano gli amici del farmacista, a chiacchierare
dei più e del meno: corna della città, descrizione d'un
viaggio in qualche città settentrionale, oppure, in alcuni casi
ben individuati, avvenimenti politici. Per una perfetta eguaglianza,
parlare di politica voleva dire parlare contro il governo. Era un vizio
che ormai faceva parte delle loro esistenze, e si sarebbero sentiti
male se per una sera avessero dovuto rinunziarvi.
Io ricordo la mia noia quando in altri tempi mi trovavo ad entrare qualche
volta in una cartoleria vicino al Circolo dei Nobili a comprare della
carta o un calamaio, e subito cinque o sei persone che stavano appoggiate
al banco interrompevano i loro discorsi e si voltavano a guardarmi con
un'aria piena di sospettosità e di vergogna, come se li avessi
colti in fallo.
Ma in generale alla gente la politica non importava proprio nulla. Valeva
la pena di mangiarsi l'anima per un governo lontano che non sapeva neanche
che noi esistevamo, e per il quale tutta intera la nostra città
non era altro che un nome su una carta geografica? Ogni tanto, se c'era
stata un'annata scarsa, scoppiavano dei tumulti in qualche parte della
provincia. Ma non si trattava di politica, si trattava piuttosto di
fame. Qualche centinaio di braccianti affamati riunitisi la sera sulla
piazza, proprio come in città, con le camicie bianche ma senza
colletto e l'abito nero, lo stesso con cui s'erano sposati e sarebbero
stati seppelliti, di lana pesante, anche se era agosto e c'era da scolare
come ceri dal caldo, s'inferociva e dopo aver arrestato e rinchiuso
in un'aula delle scuole elementari un paio di carabinieri che rappresentavano
la forza pubblica del paese, dava l'assalto al Municipio e all'Ufficio
delle tasse, dando fuoco agli archivi e ai registri, in cui, come per
un sortilegio, pensavano che risiedesse la loro sventura: e non è
detto che i proprietari non concorressero a ribadire in essi il loro
errore. Dopo di che, con più fame di prima, se ne tornavano nelle
loro case, e vi si rinchiudevano, in attesa che le guardie governative
venute con un camion dalla città venissero ad arrestare cinque
o sei di loro scelti a caso, e tutto finiva lì. Spesso la notizia
di questi fatti non riusciva neanche a penetrare nella città,
ch'era l'unico tramite col resto del mondo, o se vi penetrava era subito
contraddetta, smentita, o chi la raccontava aveva per avversione al
governo raccontato tali altre incredibili fandonie che non si sapeva
veramente che cosa fare di ciò che dicevano.
Andammo alle farmacie, andammo dai salumai. Filammo per tutte le osterie
della città, così simili l'una all'altra per le pareti
dall'intonaco bianco appena dato e già caduco, pericolante, perchè
non attacca sulla pietra di tufo di cui son fatte le nostre case, e
non c'è intonaco che aderisca sicchè tutti i muri sono
scrostati, basta sfiorarli col braccio e si scrostano lamine sottili
di calce. Uguali per quel bianco dell'intonaco, e il vino, che non è
rosso, ma nero tant'è denso, un vino da condanna a morte, che
incupisce i sensi, più inferno che peccato.
Il nostro ingresso, dì due signorini, faceva di colpo interrompere
le dispute interminabili occasionate dal gioco del padrone, poichè
il codice che definisce la limitazione dei poteri di chi è stato
indicato dalle carte come padrone dei vino non sempre è chiaro,
e i poteri del padrone sono assoluti, ma il più piccolo fallo
da lui commesso nell'osservanza dei rituali complicatissimi può
fargli perdere ogni potere. Questo il gioco, in cui il popolo, il popolino
di questo paese d'avvocati, consuma ogni sera la sua naturale ed inutile
sottigliezza, mentre gli orci enormi dalle piccole anse, su un piedistallo
di pietra di tufo, sembrano assistere come giudici panciuti e enigmatici
dai braccini troppo corti.
Molti conoscevano Albertino e tanti c'invitavano, ma Albertino offriva
lui da bere. A tutti domandava di Vincenzo: quando lo avevano visto
l'ultima volta, e dove, ma non usciva nulla, malgrado la gran voglia
che avevano tutti di essere utili.
- Se lo vedete, fatemelo sapere. lo sono da Alvino tutti i giorni verso
le dodici.
Già chiedevamo dappertutto e avevamo finito il danaro, o meglio
lo aveva finito Albertino, perchè io non ne avevo. La sera, prima
di andare al caffè, ero stato a far visita a zio Giovannino,
ma un avvenimento eccezionale aveva mandato in aria lo scopo di quella
mia visita.
- Perchè non hai domandato anche di Carmine? - chiesi ad Albertino
mentre ci dirigevamo dietro il Castello per vie male illuminate, dove
l'aria pareva di fumo.
- E perchè? Tutti mi avrebbero detto di averlo visto; Carmine
sta sempre nella via: in un giorno non c'è angolo per cui non
sia passato. Avremmo concluso che lo hanno visto in ogni angolo della
città, e staremmo allo stesso punto.
Svoltati sullo spiazzale, avanzammo per un po' occultati dagli oleandri.
Sentivamo da lontano le voci dei compagni, che parlavano di mogli e
di corna. Come presentivamo, non c'erano nè Vincenzo nè
Carmine. Quando li raggiungemmo ci misero al corrente dal loro problema.
- Come ti comporteresti tu, Albertino, se scoprissi che tua moglie ti
fa le corna?
- So di un uomo - disse - che scoprì sua moglie a letto con un
altro. Non disse nulla. Da quel giorno dormì in un'altra camera.
Di tanto in tanto andava a trovare sua moglie. Dopo essere stato con
lei, apriva il portafoglio, ne toglieva un biglietto da cinquanta lire
e lo lasciava sul comodino, uscendosene senza dire una parola. Fece
questo per diversi anni e avrebbe continuato a farlo se la moglie non
fosse, morta.
Se ne stettero zitti per qualche minuto, ciò significava che
la risposta di Albertino era stata la più ingegnosa.
- E tu, Vittorio? - disse il Barone.
Ma ormai non c'erà più gusto, non sapevo nulla che potesse
essere più grazioso della risposta di Albertino, ormai non si
poteva dire altro, se non era migliore.
- Io - dissi - non credo che mi troverò in simile circostanza.
Era un modo di uscirsene, ma ero sincero. Non credevo che un simile
problema potesse riguardarmi. Per crederlo sarebbe stato necessario
che io mi considerassi un uomo come gli altri. Sapevo di non essere
perfetto, ma nel fondo di me trovavo la sicurezza che lo sarei diventato.
Per questa ragione mi disinteressavo di gran parte dai problemi che
si ponevano i miei amici. Non dicevo nulla, ma me ne disinteressavo,
se non era per ammirare qualche volta la ingegnosità con cui
Albertino li risolveva. Così pure, non m'importava nulla di conoscere
a fondo la vita dei nostri cittadini; questo sembrava potesse assicurar
loro dei vantaggi, di diversa natura. Ma io, che non avevo ancora un'idea
chiara su ciò che avrei fatto nella vita, sentivo però
con chiarezza che sarei andato molto lontano, che era altrove dove avrei
dato battaglia.
Dissi: - Ora ritorno, fra cinque minuti. - Nella nostra città
questo è provato esser l'unico modo per evitare che gli amici
ti trattengano, o se ne vengano con te, se non riescono a farti rimanere.
- Fra cinque minuti ritorno - Così aspettano, e poi si dimenticano
che stanno aspettandoti. E me ne andai a passare davanti alla casa di
Ines. La via era buia, il balcone vuoto. Ma io non speravo di vederla.
Volevo solo passeggiare davanti alla casa dove era lei dormiente.
CAPITOLO XIII
Mezzogiorno. L'usciere
del municipio è venuto a gettare il becchime ai colombi. Nel
sole che acceca gli occhi non l'abbiamo veduto, ma l'hanno visto i colombi
che sono scesi precipitosamente con un grande sbattere d'ali dal cielo,
dalle nicchie della Chiesa, dai piedi dei Santo Protettore, e gli sono
d'intorno petulanti e voraci. Alcuni gli si posano sulle spalle, sul
capo. Gli cade il berretto, ride, mentre comincia a gettare il biondo
mais per terra fra tumulti d'ogni genere.
- Buon giorno, don Albertino - davanti a noi c'è un povero diavolo,
alto, incurvato, dal naso violetto e la barba di più giorni,
su cui si possono notare, agli angoli della bocca, dei pezzettini di
rosso d'uovo rappreso. L Fionda. Lo chiamano così, non so per
quale ragione, ed è terribilmente difficile dire se è
un pò idiota o se è un briccone. Vive vendendo anelli
d'oro falso, della sua sciocchezza si raccontano vari episodi, come
quello di quando si finse sordo per essere scartato, durante la prima
guerra mondiale. Si presentò per la visita medica; lo fecero
aspettare in un cortile e quando fu il suo turno chiamarono il suo nome
dall'alto d'una scalinata. Presente! - rispose.
- Don Albertino, continuano a interessarvi le informazioni su don Vincenzo?
Mi ricordai che lo avevamo visto in una delle osterie che avevamo visitato
la sera prima. - Sì. Sentiamo. - A quanto pare l'informazione
vale molto danaro, eh? Albertino assume un'aria annoiata e si volta
a guardare verso la piazza, dove i colombi stanno disputandosi disordinatamente
gli ultimi chicchi di mais.
- Che appetito! Come se non mangiassero da chissà quanto tempo.
E invece stamattina hanno già fatto una prima colazione. Noi
due ne sappiamo qualche cosa, non è vero, Fionda?
- Io non so nulla. Che cosa facciamo con l'informazione che vi porto?
-Facciamo un cambio. Tu mi dici quello che sai su don Ruggero e io non
dico alla guardie quello che so su di te.
- Mi date almeno una sigaretta?
Albertino getta sul tavolo un pacchetto con due o tre sigarette dentro:
- Tienile.
- Questa mattina alle sei ho visto don Vincenzo davanti al Collegio
dei Gesuiti. Ci sono altri ordini? - Se ne va. Torna indietro:
- Avete un cerino?
- Tieni la scatola e vattene.
- Che c'entrano i colombi? - chiesi a Albertino.
Albertino non aveva voglia di parlare. Disse: - Poi ti spiegherò,
anzi lo vedrai da te.
Lo vidi infatti dopo tre o quattro giorni. Sul far dell'alba, eravamo
già passati da un fornaio dove avevamo comprato del pane appena
uscito dal forno. Eravamo diretti al Caffè delle Due File a prendere
il caffè e latte quando sbucammo sulla piazza. C'era anche Alfredo
Leone e Carmine. Era tornato con noi. L'aria schiariva rapidamente,
già fra le macchie grigie apparivano zone celesti, persino una
verde, piccola, proprio sul capo del Santo Protettore. Da via San Marco,
dalla piccola imboccatura buia, così simile a uno scenario, vediamo
sbucare un uomo alto, incurvato, con un sacco sulla spalla e un grosso
bastone. Albertino ci fece nascondere in un portone. Di là vedemmo
l'uomo raggiungere il centro della piazza guardandosi intorno sospettosamente,
poi aprire il sacco, cavarne fuori qualcosa che poi risultò essere
granone e gettarlo, quasi sbatterlo, più rumorosamente che poteva,
contro le mattonelle. Nel silenzio udimmo quella caduta, come di grandine,
e il rimbalzare del granone. Lo udirono anche i colombi e abbandonarono
le nicchie e i cornicioni delle case e di Santa Anna e cominciarono
a venir giù, plumbei, con un volo tardo e senza entusiasmo. Pareva
che sapessero, sapevano già a che andassero incontro, ma erano
così sciocchi da non resistere a quell'invito funesto. Volavano
tenendosi alla larga dall'uomo, cercando di cogliere qualche chicco
caduto più lontano e subito riprendendo il volo. Fionda cercava
altro becchime nel sacco e ne gettava, ma poco, e facendolo rimbalzare
sempre più vicino a sè. Scesero altri colombi, ormai una
trentina, e forse trovando più coraggio nel proprio numero o
perché smemorati dalla vista dei cibo, presero a scendere e a
fermarsi, muovendosi in gruppo e a piccoli passi se l'uomo s'avvicinava.
Ma Fionda non aveva bisogno di avvicinarsi, ci pensava il granone ad
accorciare le distanze, finchè fu il momento. Volò il
bastone e parve flessibile come un serpe nell'aria chiara. S'udì
un gran sbattere d'ali. Quattro piccioni non s'alzarono, una mano li
rinchiuse fulminea dentro il sacco.
- Morti per un po' di colazione. - diss'io, pensando ai pane che avevo
in mano, - Se fossimo del colombi...
Uscimmo dal portone.
- Se fossimo dei colombi - disse Albertino -, non capiteremmo. - Perchè?
-domandò Alfredo.
- Perchè saremmo un po' più dritti.
- Come potremmo essere dritti essendo dei colombi?
- Cercando di essere meno stupidi degli altri. Costerebbe meno fatica
e darebbe più vantaggio, perchè un uomo dritto deve lottare
contro disuguaglianze sociali e pregiudizi che invece i colombi non
conoscono.
Continuarono a discutere per tutto il cammino, finchè arrivammo
alle Due Pile. Meno male che non era troppo lontano, perchè Carmine
si sarebbe mangiato tutti i panini. Alla fine, Albertino seccato dalla
voglia di contraddirlo che aveva Alfredo, gli disse:
- E dopo tutto, è inutile ragionare con te: primo, perchè
non capisci, secondo perchè non sei un dritto, e se fossimo dei
colombi tu saresti un piccione qualsiasi come sei un uomo qualsiasi.
Alfredo Leone non replicò. Temeva che Albertino se ne uscisse
con la storia della ragazza del tabacchino.
Il caffè che davano alle Due-Pile sapeva di orzo e di ceci. Ma
non avevamo voglia di aspettare le sei, ora in cui apriva anche il Bar
Laudisa.
CAPITOLO XIV
L'informazione di
Fionda non ci aiutava per nulla. Me ne davo perfettamente conto dalla
faccia di Albertino. Ci ritrovammo al caffè la sera, verso le
sei. Il sole ormai cominciava a perder forza a quell'ora ed era ormai
solo luce, una sciarpa fragile di luce sulla parete alta delle case.
Vennero a sedersi gli altri; venne Aldo e il Barone, poi Michele. Michele
era molto abbattuto e il verde dei suo viso s'era un po' stinto nel
cinereo. Non gli facemmo nessuno scherzo.
Da qualche giorno correva voce in città che le condizioni di
Flora fossero molto peggiorate.
In segno di gratitudine egli chiamò Severino, il cameriere, e
volle offrirci' il caffè, a me e ad Albertino. Tanto meglio.
Quel giorno io ero stato in casa dello zio Giovanni, ma non avevo avuto
la moneta da cinque lire, era successo un fatto straordinario.
La serva dal viso barbuto come una capra mi aveva accolto con un mugolio
più festoso del solito. Il viso della zia Carolina splendeva,
la sua enorme mole si muoveva con una insolita leggerezza e dava dei
calci al due vecchi gatti slombati e mezzi ciechi della casa chiamandoli
impotenti, figli di troia, e spingendoli verso la ciotola del latte.
Ma Clodomiro, Clodomiro tremava.
- Papà è uscito! - mi disse.
lo lo vidi così emozionato che finsi di non crederlo. Ma pensavo
anche
alle cinque lire in pericolo.
- Si, è uscito, - E con un'improvvisa dignità mi disse:
- Andiamo nello studio.
Lo seguii. La poltrona era vuota. Passai in rassegna la lucertola, le
carte, la contadina dalla camicetta sbottonata. Cercai di non far cadere
l'occhio sul contadino antipatico, poi dissi:
- Dov'è andato?
- Siediti. Ti spiegherò. Tu sai che io ero fidanzato, no? Conoscevo
bene quella storia. Se la conoscevo! Diciotto anni prima quando faceva
ancora la quinta ginnasiale, Clodomiro si era fidanzato con una ragazza.
Quella ragazza era la figlia d'un vetturino. Per tutta la durata del
liceo egli passò ogni giorno davanti alla sua porta, che era
a pianterreno, pago del saluto con cui essa rispondeva al suo; dopo
quei tre anni fu ammesso a parlare sull'uscio, dietro il cancelletto
che precede la porta a vetri nelle case basse di antica costruzione,
non senza mille trepidazioni per paura d'un improvviso rincasare del
vetturino il quale, in teoria, ignorava la cosa. Così passarono
molti altri anni. Clodomiro si era confidato alla madre, la quale sia
per la infinita tenerezza che aveva per il figlio, sia forse anche per
una solidarietà di classe dell'antica sguattera per la figlia
d'un vetturino, ne fu commossa e si schierò senza esitazione
dalla sua parte. Ma furono d'accordo, madre e figlio, che non potevano
dir nulla allo zio Giovanni: questa seconda passione avrebbe scavato
la piaga che non si era mai serrata, e non era da escludersi che se
li suo matrimonio gli era costato la perdita d'ogni rapporto col mondo,
quella del figlio avrebbe potuto costargli la stessa esistenza. Così
cominciò nella famiglia una vita di sotterfugi con cui la madre
riuscì, o credette d'essere riuscita, a tenere celata al recluso
marito la relazione del figlio. Erano passati diciotto anni. Negli ultimi
tempi Clodomiro veniva ormai ammesso in casa dell'amata, era ormai considerato
della famiglia. Senza nulla di male, naturalmente: ciò che forse
era peggio.
Questa fidanzamento interminabile, l'ufficio e le cortine stinte di
casa, le vecchie carte giudiziarie, avevano fatto di lui un vecchio.
Aveva i capelli grigi, e il suo aspetto dimostrava dodici anni di più
di quanti ne aveva realmente. Ma dentro era rimasto un bambino timido
e stupefatto.
- Sì, - disse - io ero fidanzato da moltissimo tempo, ma al babbo
non gli avevamo mai detto nulla. - Parlava al plurale, come se con la
figlia del vetturino fossero fidanzati lui e sua madre. - E siccome
non è mai' uscito di casa e non ha mai parlato con nessuno, non
c'era mezzo che potesse saperlo. E invece, sai cos'è successo?
Oggi mi ha chiamato nello studio e mi ha detto a bruciapelo: "Ebbene,
cosa aspetti a sposare quella ragazza?". lo son rimasto senza parola
e lui ha continuato a parlarmi, che dovevo capire che dopo tanti anni
la vita di una donna si può considerare distrutta, che era senza
coscienza tenerla così, molto peggio che averla sedotta. lo non
riuscivo a dire una parola. Meno male che la mamma, che aveva sentito
tutto da dietro la porta, è entrata piangendo, e allora puoi
immaginarti, tutti in pianti e abbracciando il babbo. Poi s'è
vestito ed è uscito per andare a chiedere la mano di Maria.
Io dissi che non dubitavo che sarebbero stati felici, che se lo meritavano.
Poi Clodomiro per cambiare discorso mi disse:
- E c'è un'altra novità. -Davvero? Quale?
- Mi hanno nominato capostrada. lo non sapevo cosa fosse un capostrada.
Mi informò che era una recentissima invenzione del partito che
era al potere e che non se ne poteva ricusare la nomina. Prospettava
questa impossibilità di rifiutare la carica, non diceva che avesse
tentato di rifiutare, ciò che non sarebbe stato vero, poichè
si vedeva che ne era orgoglioso.
- E che compiti hanno i capistrada?
- Sono la massima autorità fra tutti i vicini d'una strada. Devono
badare che non si verifichi nessun incidente, e poi hanno un altro compito
più delicato, che è mantenuto segreto; devono vigilare
se ci sono vicini sovversivi e spiarne i movimenti.
- Davvero? - dissi io -. Oh mamma candida!, pensavo dentro di me, e
non potevo fare a meno di ammirare l'astuzia d'un regime che sapeva
sfruttare l'ingenua vanità di gente come mio cugino Clodomiro
per farne degli strumenti di asservimento. Poi finsi di dire distrattamente:
- Tu avrai ben poco da fare, suppongo. La tua via dev'essere tranquillissima.
- Qui t'inganni! - mi disse, tutto contento di avere un segreto. - Vieni
a vedere. -S'avvicinò alla finestra. - Vedi quella porta dove
stanno giocando quei bambini? Lì ogni notte fanno delle riunioni
sovversive; è la casa d'un barbiere, ma ancora non sono riuscito
a Individuare quelli che lo vanno a trovare.
- Ah! E' interessante, molto interessante. - Poi non avevo più
nulla da fare. Gli feci di nuovo molti auguri. Lui disse:
- Aspetta un momento. - Andò nella sua stanza, tornò con
un pacchetto di sigarette nazionali. - Tu fumi, no? - e me le diede.
Salutai zia Carolina. Era raggiante. "Hai saputo?", "Sì,
sì." E me ne andai.
Così avevo le sigarette, ma ero senza un soldo.
Anche Albertino stava male. Gli offrii da fumare. Mi disse: - Va' piano
con le sigarette. Stanotte ne avremo bisogno. Verso mezzanotte lasciammo
gli altri dietro il Castello e ci avviammo verso il Collegio dei Gesuiti.
Proposi ad Albertino un cammino più lungo per passare dalla via
del Cartapestai. Quando vi fummo, vidi infatti una luce che filtrava
dalla bottega di Ernesto l'incisore. Bussai alla porta discretamente.
- Chi è?
- Sono io, Ernesto. Apri.
Ernesto tolse i ferri alla porta, ed io entrai, mentre Albertino rimase
fuori ad aspettare.
C'era gente nella bottega. Quattro o cinque persone che non conoscevo.
- Bevi un bicchiere di vino?
- Sì, anche, ma ho bisogno di parlarti a solo.
- Puoi parlare. Non c'è nulla che non possano sentire questi
amici. - (In seguito risultò che si sbagliava. Uno di loro denunciò
tutti, anche me. Non mi fecero nulla perchè i miei rapporti con
Ernesto erano saltuari, ed anche perchè ci si mise di mezzo mio
zio Alberto, fratello di mia madre, che ricopriva una carica politica.)
- Conosci un barbiere che sta in via Maniscalchi? - Quello che suona
la chitarra?
- Non so se suona la chitarra. L l'unico barbiere che c'è in
quella via.
- Sì, dev'essere quello che suona la chitarra.
- Lo conosci?
- Ci conosciamo tutti in città, non è così?
- Sì, ma non sappiamo chi di noi è capostrada e chi non
lo è.
Ernesto non sapeva ancora nulla del capistrada; dovetti spiegarglielo.
- Per esempio, in questa via - aggiunsi - ce n'è uno. Sarà
l'ultima persona che tu immagineresti. Potrebbe essere la tua vecchia
suocera. A questa persona, chiunque essa sia, è difficile che
sfugga che tu ricevi degli amici a quest'ora, e chi sono questi amici.
Bene, ora me ne vado. Per l'appunto, il capostrada del barbiere sa che
anche il barbiere riceve amici. Ma non sa ancora chi sono. Arrivederci.
- Aspetta. Non finisci di bere?
- Sì. - Vuotai il bicchiere. - Ma ho un amico fuori che mi aspetta.
Buona notte!
Il Collegio dei Gesuiti era dalle parti di casa mia, al principio del
viale. Era un edificio quadrato, circondato da una cancellata da dove
si vedevano giocare a palla i collegiali nell'ore di ricreazione. Sulla
facciata aveva due porte, da una delle quali si accedeva alla chiesa.
Ispezionammo tutti i paraggi, porta per porta, ma Albertino eliminava
ogni volta, per ragioni che io ignoravo, la possibilità che ciascun
abitante di quei dintorni potesse avere qualche rapporto col mistero
di Ruggero. Alla fine ritornammo davanti al Collegio.
- La spiegazione deve trovarsi lì. - disse indicando l'edificio.
lo non dissi nulla, ma pensai che quella volta stava per sbagliarsi.
- Non c'è da fare altro che una cosa: nascondersi e passar qui
la notte e sperare che appaia qualcuno.
C'era proprio di fronte al Collegio un'altra chiesa in costruzione.
Il luogo era scelto male, ma quei pezzo di terreno era stato regalato
alla Chiesa da una vecchia bigotta ed era sembrata la maniera migliore
di utilizzarlo. Si cominciò a edificare coi danari delle collette
e così sorse la facciata e accanto alla facciata della chiesa
una piccola costruzione che venne destinata ad abitazione del parroco.
Finita la casa del parroco, non vi furono più fondi per andare
avanti, e la chiesa rimase così, con le fondamenta e la facciata,
e nient'altro. Devo aggiungere che ancora oggi, a distanza di tanti
anni, le cose stanno allo stesso punto. Sulla facciata v'era l'entrata
senza porta, ma era sbarrata da assi. Era curioso vedere quella porta
sbarrata dietro la quale non c'era nulla. Noi stavamo per fare il giro,
poi io dissi:
- No, noi non siamo gente da entrare dalla porta di servizio - e a calci
ruppi le assi della porta ed entrammo. Dentro erano già cresciuti
gli sterpi, il cielo era bianchiccio perchè la luce della luna
non riusciva a filtrare pura attraverso la nuvolaglia e i vapori dell'aria.
Scoprimmo sulla sinistra, dove c'era la casa del parroco, una porticina
per il passaggio dalla casa del parroco dietro l'altare. Ci assicurammo
ch'era chiusa, poi prendemmo due grosse pietre e le spingemmo per sederci
vicino all'ingresso della chiesa.
- Se ora da quella porticina uscisse la nipote del parroco! - diss'io.
Non sapevamo mica se il parroco avesse con sè una nipote. Ma
non importa; non ci si può immaginare un parroco che non abbia
una nipote. Questa è per lo più figlia d'una sorella di
campagna. Fin da bambina essa viene cresciuta sola e lontana dai giochi
della sua età. E' predestinata, fin dalla nascita. E a poco a
poco quel destino che essa non si è scelto, e a cui non trova
ragione per ribellarsi, modella la sua anima e persino il suo corpo,
vigoroso ma al tempo stesso piamente mortificato per non far venire
cattivi pensieri alla gente. La madre, per consolarla del vuoto che
si è fatto d'intorno alla sua infanzia e alla sua adolescenza,
non cessa di ricordarle che un giorno andrà a vivere con lo zio
parroco, che mangerà bene e sarà la padrona della casa,
che lo zio è ricco, che tutti i fedeli gli danno qualcosa ecc.,
e di tanto in tanto la porterà in città, dallo zio, che
le offrirà immaginette e dolci avuti in dono dalle parrocchiane.
Lo zio penserà che fra pochi anni altri potrà prendersela
in casa, e la nipote del parroco che avrà fin da allora la mente
ben conformata al proprio destino, osserverà la casa di cui un
giorno sarà la padrona. L'occasione verrà di lì
ad alcuni anni; quando, passati i 23 o i 24 anni, la sua serietà,
la scarsa socievolezza, le pene d'un cuore bene ordinato e alieno da
ogni impulso pericoloso saranno ormai una garanzia che la nipote non
s'allontanerà mai dall'avvenire che zio e madre le destinarono
fin dai primi vagiti. Così un giorno, morrà la vecchia
serva che aveva cura dello zio parroco, o questi s'ammalerà e
non si può lasciarlo alle cure di un'estranea; la nipote varcherà
la soglia della sua casa solo provvisoriamente, finchè lo zio
non si sia rimesso, o non abbia trovato una nuova domestica, e non abbandonerà
mai più la casa.
Mentre passavamo il tempo, mettendo insieme a gara queste ed altre ipotesi
sulle nipoti dei parroci, non perdevamo di vista il viale, ma in tutta
la notte passò pochissima gente, qualche carro, qualche giocatore
che rincasava dal Circolo Cittadino, e un popolano che effuse per lungo
tempo sui viali la sua segreta anima di tenore cantando romanze della
Tosca e dell'Aida (10) e sicuro che nessuno l'ascoltasse non esitava
a "fare il parlato" e le tenorili risate come se realmente
stesse su un palcoscenico. Questa del tenore notturno è del resto
una tradizione nella nostra città: e c'è gente che io
credo esca apposta di casa per andare a cantare opere per i viali, come
chi esce per portare il cane a passeggio. Poi improvvisamente il cielo
diventò verdino verso oriente, d'un verde piatto e stregato;
e la chiesa ebbe un enorme tetto. Era tempo, poichè le nostre
sigarette stavano per finire. Un corvo cominciò a gracchiare
su un cornicione. Poi il cielo si scurì un'altra volta, per diventare
di colpo tutto chiaro.
Io dissi: - Passare una notte svegli dà la sensazione di viaggiare
attraverso una frontiera da un paese all'altro. Guarda, sembra un paese
nuovo in cui siamo giunti viaggiando ininterrottamente da ieri a notte.
Sempre un'avventura, in mancanza di meglio.
- Non c'è mai un'avventura in mancanza di meglio. Forse, per
noi, in attesa di meglio. Ma poi uno ha veramente le avventure che si
merita. L'avventura è sempre alla sua altezza.
- Ma allora uno che la meritasse dovrebbe averla sempre ad ogni momento.
- Così è. Salvo che dentro di noi non ci manteniamo mai
allo stesso livello. C'è epoche in cui s'accresce la nostra capacità
d'avventura e allora anche l'avventura aumenta, e così al contrario.
Intanto non perdevamo d'occhio la strada. Passò un capraio con
le capre dagli uberi gonfi e un'andatura assonnata, passò qualche
carro che veniva dalle cave, carico di pietre squadrate d'un colore
di formaggio. Le rondini strepitavano incrociandosi in tutte le direzioni.
D'un tratto spuntarono sull'angolo due vecchie pizzoche vestite dì
nero. Non vi feci caso, ma Albertino le guardò con interesse.
A me non mi dicevano nulla, le avevo guardate bene, rassomigliavano
a tutte le altre vecchie pizzoche che si vedono a quell'ora dirigersi
a una delle moltissime chiese della nostra città; erano piccole,
incurvate, più infagottate che vestite nei loro abiti, e di una
si vedevano le calze di lana marrone. Poi ne spuntarono delle altre:
sembravano uscite di sotto gli usci come scarafaggi, e si fermarono
in un gruppetto di cinque o sei davanti alla porta della chiesa, non
ancora aperta. Ma non tardarono ad aprire, e a suonare la squilla. Le
beghine entrarono, poi svoltò l'angolo una ragazza. Era ben vestita,
ciò che a quel tempo indicava senza errori una condizione sociale
elevata, ma l'abito le si sciupava addosso, era brutta, aveva dei fianchi
troppo larghi e un viso di quelli che nonostante ogni cura sembrano
di una donna che non si sia ancora nè lavata nè pettinata.
lo non l'avevo mai vista prima. Proprio mentre domandavo ad Albertino
chi fosse, spuntò Ruggero dalla stessa via. Camminava con la
stessa camminatura che imitavamo tutti da Albertino: la spalla destra
leggermente rialzata e il passo sciolto, da giovane lupo; e da Albertino
era imitato il colletto bianco molto alto; indossava un vestito color
nocciola che non gli avevamo mai veduto, e che non doveva esser suo,
perchè la giacca era troppo lunga, ma poteva sembrare un'esagerazione
della moda di quei tempi, Lo seguimmo con gli occhi, passo per passo,
finchè entro nella chiesa.
NOTE
1) Invece non è vero, è un uomo reale ecc. Ma io ho la
fissazione. Mi pare che "dovrebbe".
2) una colonnina
3) cencio
4) nell'interno
5) della mia assenza
6) mi sembrava
7) e non avrei immaginato di saperlo riconoscere con tanta sicurezza.
8) della pietruzza
9) camminava da quella parte, salendo e scendendo, e ad ogni momento
pareva che ci si dovesse licenziare dalla vita.
10) o Rigoletto e Barbiere.
APPENDICE
Dal capitolo
VI
Albertino gli aveva tolto la ragazza di sotto il naso. Andava in motocicletta
per una strada di campagna quando lo incontrò fermo davanti al
muricciuolo con una ragazza che aveva un tabacchino verso San Luigi.
Si fermò e si mise a chiaccherare con loro. La ragazza era dapprima
vergognosa; poi a poco a poco fu sempre più spigliata, scherzava
con Albertino e fingeva di farsi gioco di lui. Pezzettino si sentiva
orgoglioso di avere una ragazza così spiritosa. Quando Albertino,
che si era reso conto di che significavano tante risatine, vide arrivato
il momento, bastò che dicesse:
- Sì, non c'è male, a parole sei abbastanza svelta, ma
ai fatti non oseresti neanche fare un giretto con me in motocicletta.
- e la ragazza montò subito. Pezzettino la vide sparire e udì
per un po' nel silenzio della campagna lo scoppiettio del motore. Aspettò
lì tre ore, fino a sera. Poi la notte, quando fu tornato in città,
Albertino lo prese sottobraccio e, fingendo di non volersi fare sentire
dagli amici, ma in realtà parlando in tono abbastanza alto perchè
lo sentissero, gli disse:
- Spero che mi sarai grato. Quella donna non era degna di te.
Più tardi, non mi mancò di conoscere l'eroina di questa
storia. Quando eravamo senza sigarette, Albertino mi diceva:
- Andiamo a fare un giro. - E andavamo al tabacchino dov'era lei e,
se non c'era sua madre, Albertino entrava e lo restavo fuori a guardare
le sdolcinate cartoline per fidanzati che erano esposte in uno studiato
ordine dentro una piccola vetrina appesa alla porta. Mi giungevano all'orecchio
qua e là parole della conversazione; quasi sempre parole di lei,
che come la maggior parte delle ragazze del nostro paese, forse per
dissimulare il disagio che hanno di fronte ad un uomo, alzava spesso
il tono della voce. Udivo: "diventare un giovane serio... una buona
posizione... perchè no?... la vita non è ... ". La
solita fastidiosa cantilena che già conoscevo.
Dopo un po' Albertino usciva con un pacchetto di sigarette. Le fumavamo
in silenzio, tornando verso la piazza, con una finta gravità,
come gettando un manto di silenzio sull'episodio, ma in realtà
non importandocene nulla. Se tacevamo era specialmente per assaporare
meglio il fumo della sigaretta, di cui eravamo stati privi per un po'
dì tempo.
Ma Pezzettino non gliene fu grato. Davanti a tutti gli amici giurò
sulle ossa di sua madre che si sarebbe vendicato. Questo aveva fatto
ridere tutti, perchè non poteva certo esser lui quello che avrebbe
potuto farla al Albertino. Ciò nonostante.
Storia dello
zio Giovanni
Lo zio Giovanni fu l'unico uomo capace di far perdere le proprie tracce
ai suoi concittadini, quando era ancora in vita e abitava a due passi
dal centro, in una casa dalla facciata vagamente rosea, con un balcone
da cui pendevano, scoloriti dalla vecchiaia e dalla polvere degli anni,
due lunghi steli di geranio, come se al balcone fosse cresciuta la barba.
Nei minuziosi registri della memoria dei vecchi, che sanno per filo
e per segno la storia di ogni famiglia, risultava ormai morto da molti
anni, e alcuni di essi coi quali mi trovai a parlare, e a cui dicevo
che era ancora vivo, mi gettavano un'occhiata di biasimo, pensando che
un giovane non deve burlarsi di certe cose. Quanto alla successiva generazione,
non avendolo mai conosciuto, non potevano neanche sapere che fosse esistito.
Ma mio zio fu anche l'unico che abbia creduto veramente a miti a cui
non è consentito credere nella nostra città, dove un bambino
ne sa della vita molto di più di quanto egli abbia dato prova
di saperne. In quella casa dal balcone peloso, a due passi dalla piazza
e dalla colonna del Santo, mio zio Giovanni visse murato vivo per più
di trent'anni. Era un uomo di complessione minuta, o forse lo diventò
con gli anni, non lo so, e con gli occhi chiari a palla, e doveva essere
stato biondo, o forse mi sbaglio, forse era il colore lasciato dalla
nicotina sui baffi. Era l'unico fratello di mio padre e di parecchi
anni maggiore.
Giovannino iniziava o s'accingeva a iniziare la carriera di avvocato,
col suo lungo soprabito nero dai risvolti di pelliccia fulva che doveva
essere una sorta di divisa professionale ai suoi tempi, quando s'innamorò
follemente d'una ragazza dei popolo che lavorava da pasticcera in una
pasticceria ritenuta allora la migliore della città. Esisteva
ancora quando io ero ragazzo, presso il Largo dei Teatini, dove c'é
ora un negozio di articoli casalinghi. Com'era mia zia Carolina quando
potè suscitare nell'animo timido e grave di mio zio, del piccolo
avvocato quasi imberbe e di buona famiglia, una così implacabile
passione? Non riesco a immaginarmela. Fatto sta che egli decise di sposarla
a tutti i costi, non potendo vivere senza di lei. Forse ciò che
gli nocque fu la mancanza d'ostacoli al suo proposito. Era orfano di
padre già da molti anni; la madre, una nobile napoletana distratta
e fatalista, in cui malamente i dolciumi e le sacrestie cercavano di
compensare i mondi nostalgici della giovinezza trascorsa alla corte
borbonica, considerò il male irrimediabile quando forse non lo
era ancora. "Era scritto così", disse nel dialetto
che continuava ad essere per lei la lingua ufficiale del regno perduto,
in cui viveva la sua memoria al punto da sembrarle privo di senso quanto
avveniva attorno a lei: "Era scritto così", e il figlio
che s'aspettava di dover sostenere una lotta e forse, possiamo supporre,
prevedeva la possibilità d'una sconfitta, vide caduti di colpo
tutti gli ostacoli che lo dividevano dall'oggetto amato e non gli restò
più da fare altro che sposarla. Fu forse questa mancata opposizione
che lo rovinò. Se fosse stato vivo suo padre, se sua madre avesse
avuto la forza di opporsi a questa passione, ammettiamo pure ch'egli
riuscisse a trionfare, questa contrastata vittoria avrebbe dato forza
al suo proposito e gli avrebbe permesso di affrontare l'ostacolo davanti
a cui egli cadde, quello dell'opinione pubblica.
Consumato uno sposalizio senza inviti, con i soli testimoni e i più
stretti parenti dei fidanzati, con mia nonna che piangeva dolcemente
ripetendo fra i singhiozzi: "Era scritto così!", mio
zio Giovanni, forse per paura di ciò che avrebbe detto vedendolo
la gente di questa città intrigante e maligna, o forse per punirsi
di aver macchiato il nome d'una famiglia che aveva dato sindaci e assessori
alla città, si decretò la morte civile. Mandò le
dimissioni dal Circolo dei Nobili, e non mise mai più piede fuori
di casa, e neanche sua moglie. I rapporti con l'esterno erano affidati
a una vecchia serva sordomuta e si riducevano esclusivamente a fare
la spesa al mercato. Ebbero un figlio che ebbe nome Clodomiro. La zia
Carolina incominciò a ingrassare mostruosamente: già dal
tempo da cui io posso cominciare a ricordarla era una montagna di grasso,
sormontata da capelli grigi e crespi, che non diventavano mai completamente
bianchi. Era di una bontà e di una tenerezza pari soltanto al
suo volume, ma non poteva dire due parole di fila senza che una delle
due fosse una parolaccia delle più sboccate che carrettiere o
pescivendolo abbia mai pronunziato. Passava il suo tempo davanti ai
fornelli, brontolando contro la serva e tempestandola di parolacce.
Ma faceva per scherzo. C'era una strana ma affettuosa gelosia fra serva
e padrona riguardo alla cucina: la serva con cenni e mugolii diceva
che la cucina spettava a lei, che avrebbe saputo cucinare altrettanto
bene quanto la padrona. Questa le rispondeva schernendola nel suo linguaggio.
Quando il piccolo Clodomiro piangeva nella culla, essa andava a prenderlo
e lo cullava coi vezzi e gli accenti d'una madre amorosissima, ma gli
diceva per esempio: "Dormi, figlio di puttana, dormi!", e
così via, non proprio così, ma con le parole più
colorite che gli offriva il nostro dialetto. Lo zio Giovanni se ne stava
tutto il giorno rinchiuso nel suo studio; studiava vecchie carte di
processi che aveva dovuto abbandonare; leggeva, e un giorno scrisse
un romanzo, un romanzo che ha fatto ridere tutta la città. Descriveva
un amore complicatissimo con una creatura dall'animo delicato e perverso,
e dalla figura esile e flessuosa. Invece lo stile era rigido come un
mattone, e a questo s'aggiungeva una curiosa riforma che egli escogitò
per dare più nobiltà e sostenutezza alla lingua, abolendo
ogni articolo a simiglianza del latino.
Quest'idea non poteva venire se non a un uomo che, come lui, avesse
perduto da parecchi anni l'uso naturale del linguaggio. Ma i nostri
concittadini non potevano saperlo e non sospettavano mai quale autentico
romanzo si nascondesse dietro quella prova infelice; gli bastava d'esser
maligni e, siccome il libro gliene offriva larghissimi spunti con quelle
frasi da telegramma e gli equivoci che ne derivavano ad ogni rigo, non
chiedevano di più, e molte frasi sciagurate di quel libro, come
"Egli prese cappello sorridendo e salutò signora",
oppure "Sembrava donna russa imbacuccata", fanno ormai parte
del patrimonio proverbiale della nostra società e non è
raro sentirle ripetere da gente che ormai non sa più nulla intorno
alla loro origine e alla parentela che mi lega all'autore, trapassato
ormai, nei tempi in cui scriviamo.
Da allora egli continuò a scrivere, ma non diede più nulla
alle stampe. lo l'andavo a trovare, salutato con mugolii dalla serva,
con affettuose parolacce dalla zia, ed entravo nello studio dove tutto
era come trent'anni avanti, le lunghe cortine di damasco che fu verde
ed ora era avana, le vecchie carte ormai ingiallite negli scaffali,
il posacarte raffigurante una lucertola sul tavolo, il quadro con la
scena campestre: la contadina che viene dal pozzo con l'orciolo di rame,
e la camicetta rosa un po' sbottonata, e il contadino con un camiciotto
blu e i baffi rapaci. Lo trovavo seduto a scrivere, con addosso, se
era d'inverno, l'antico soprabito nero dai risvolti di pelliccia, che
ormai aveva assunto una nuova funzione equivoca fra toga e veste da
camera. S'interrompeva e chiaccheravamo un poco.
- Come sta tua madre? E la sorellina? - parlava ancora col tono grave
e pacato dell'uomo di legge.
Passava a domandare dei miei studi. lo calcolavo minuto per minuto la
durata della visita. Era ogni tanti giorni e durava sempre lo stesso
tempo: non molto perchè quelle cortine stinte, il tessuto ormai
trasparente della tappezzeria delle poltrone mi mettevano addosso l'insofferenza,
ma non così poco che sembrasse proprio che andassi soltanto per
le cinque lire.
Quando arrivava il momento, dicevo: "Ci siamo, conto fino a tre
e lo saluto", contavo fino a nove, poi avevo scrupolo che fosse
troppo presto. Gettavo un'occhiata piena di antipatia al contadino dal
camiciotto blu, passavo le dita sul dorso della lucertola di bronzo,
ricontavo fino a nove: - Arrivederci, zio. Mi dispiace di non aver potuto
salutare Clodomiro.
- Clodomiro è dovuto andare in ufficio.
- Si, me lo ha detto la zia. - dicevo, sogghignando dentro di me, perchè
sapevo quale era l'ufficio di Clodomiro a quell'ora. - Arrivederci.
- Te ne vai? Aspetta un momento - Metteva due dita nel taschino del
panciotto e brillavano le cinque lire.
- Per il cinema - diceva, oppure: "Prenditi un caffè",
non diceva mai: "Per le sigarette", sebbene ho idea che se
lo immaginasse.
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