§ FINANZA PUBBLICA E POLITICA MONETARIA

L'ECONOMIA ITALIANA NELL'INFLAZIONE E NELLA RECESSIONE




Carlo Azeglio Ciampi



In un'economia con forte disoccupazione e bisognosa di mutamenti della struttura produttiva, il bilancio pubblico può essere fattore di ricomposizione degli equilibri e di stimolo all'accumulazione nelle direzioni appropriate. In Italia, questa essenziale funzione è ostacolata dalle dimensioni del disavanzo e dalle caratteristiche assunte nel tempo dalla politica della spesa, che trasmettono all'economia impulsi incompatibili con il vincolo esterno e con la stabilità dei prezzi. Le vicende del 1982 confermano quanto l'esercizio della politica monetaria ne risulti condizionato.
Sull'efficacia e sulla controllabilità della spesa hanno contribuito riforme istituzionali che hanno dissociato le responsabilità tra centri di decisione e centri di finanziamento degli interventi, elevato il grado di indicizzazione delle erogazioni, esteso in modo indiscriminato la prestazione di servizi sociali, trascurato le tendenze demografiche. Il sostegno alle famiglie e alle imprese ha assunto forme e proporzioni che hanno negletto la compatibilità tra risorse e richieste. La spesa ha generato domanda senza apportare significativi miglioramenti alle condizioni dell'offerta. La qualità dei servizi pubblici ha aggravato il divario tra le tendenze del costo del lavoro e quelle della produttività nell'intera economia. La rilevanza di questi fattori di squilibrio fondamentale trova conferma nelle dimensioni del fabbisogno del 1982 e di quello previsto per l'anno in corso, nonostante la portata delle correzioni poste in essere, soprattutto dal lato dell'entrata, con effetti che nel 1983 dovrebbero commisurarsi al 6% del prodotto interno lordo.
La dinamica di molte componenti di spesa porrà problemi ancora maggiori fin dal prossimo futuro. In particolare, l'entrata a regime dei sistemi pensionistici, la tendenza all'estensione e al rincaro delle prestazioni sanitarie e l'evoluzione demografica spingeranno verso l'allargamento dei disavanzi e aumenteranno la pressione sulle risorse finanziarie.
Nel biennio 1981-82, il prodotto interno lordo è rimasto stazionario; il settore pubblico ha aumentato del 14% il suo debito in termini reali; il debito del Paese verso l'estero è aumentato di 9 miliardi di dollari. La pressione fiscale è salita di circa 2,5 punti percentuali nel 1982 e dovrebbe crescere di altri tre punti nel 1983, raggiungendo il 42%; il mantenimento stesso di questo livello, data la temporaneità di parte dei provvedimenti presi, già implica specifici rilevanti interventi. Al fine di evitare nuovi avvitamenti dell'inflazione, il preannunciato ulteriore ricorso all'imposizione indiretta dovrà essere accompagnato da modifiche delle clausole di indicizzazione, secondo le procedure previste nell'accordo sul costo del lavoro.
L'inversione delle tendenze di lungo periodo dei saldi della finanza pubblica non può essere perseguita attraverso continui aumenti della pressione fiscale, anche se azioni più incisive debbono essere intraprese nelle aree di evasione. La correzione deve affrontare il problema della spesa, modificandone l'angolo di rotta. Abbiamo richiamato alcuni aspetti del sistema pensionistico e di quello sanitario, per la loro rilevanza quantitativa e per la caratteristica dei meccanismi che vi operano, ma le scelte che devono essere compiute riguardano tutte le forme di spesa pubblica. I progressi che un più elevato benessere e una più sentita solidarietà hanno permesso di compiere nel campo della funzione sociale potranno essere salvaguardati e resi duraturi solo se saranno posti in una cornice di vera giustizia distributiva, di stabilità monetaria, di efficienza.
Lo scorso anno, l'economia italiana ha diviso con quella internazionale l'amarezza della recessione, ma non il successo di aver piegato l'inflazione. L'ancor forte progressione dei prezzi e il perdurante disavanzo esterno hanno imposto di mantenere un indirizzo restrittivo nella manovra dei tassi d'interesse e del credito all'economia. Il fabbisogno del settore pubblico allargato è stato di 79.600 miliardi, superando di quasi 30 mila miliardi l'importo fissato nella Relazione. L'impegno delle nuove strutture dovrebbe essere rapportato al capitale proprio di ciascun partecipante, così come, sia i possessori azionari sia il ricorso ai prestiti di quelle medesime strutture dovrebbero esserlo al loro patrimonio. E' infine da riprendere in considerazione, nelle tecniche e nei princìpi ispiratori, l'esperienza della legge n. 787 del 1978, con la quale vennero offerti strumenti concreti per la costituzione di consorzi bancari che sovvenissero alle esigenze di capitale di imprese in temporanea difficoltà di natura finanziaria.
La cornice istituzionale non può, da sola, modificare le propensioni e i comportamenti. Possono farlo mercati che, con il concorso di un sistema bancario che sappia coglierne il ruolo complementare e non meramente concorrenziale rispetto alla propria attività di intermediazione, facciano prevalere le determinanti di fondo nella formazione dei prezzi di borsa, inducendo così le imprese a emettere e i risparmiatori a sottoscrivere quote di capitale di rischio.
L'economia mondiale sta uscendo dalla più lunga recessione del dopoguerra. Vi sono incertezze sulla durata della ripresa e quindi sull'entità degli effetti che essa avrà sul commercio mondiale. Per l'economia italiana occorre chiedersi in qual misura e a quali condizioni le esportazioni potranno beneficiare e innescare una crescita equilibrata. All'appuntamento con la ripresa internazionale il nostro apparato produttivo si presenta profondamente modificato rispetto all'inizio degli Anni Settanta. Dai risultati del censimento del 1981 appaiono le dimensioni e i contorni di un mutamento anche maggiore di quanto si fosse avvertito; esso ha investito l'assetto territoriale, i rapporti tra settori, l'organizzazione della produzione.
Lo stacco tra il triangolo industriale e il resto del Paese è stato ridotto da una rapida crescita delle regioni orientali del Centro e del Nord e dallo sviluppo di realtà economiche nuove in importanti aree del Mezzogiorno. Il peso dell'agricoltura è diminuito, non tanto per l'abbandono della campagna, quanto perché antiche economie agricole e artigianali si sono aperte ad attività industriali, alla quali hanno trasmesso solidità di tradizione ed equilibrio di rapporti sociali.
L'accresciuta proporzione del settore terziario ha visto, oltre all'espandersi dei servizi resi alle famiglie, l'arricchirsi delle complementarità tra l'industria i servizi e l'apparire di forme nuove di divisione del lavoro. Funzioni in precedenza svolte all'interno dell'impresa, quali il riscontro contabile, la gestione finanziaria, la ricerca, si vanno separando dalla fabbricazione del prodotto. Il tessuto industriale è stato trasformato in parte dalla modifica delle strutture esistenti, in parte dal sorgere di unità rispondenti a nuovi criteri. Anche per sfuggire alle crescenti rigidità derivanti dal contesto normativo e sociale, la sua organizzazione si è allontanata da impianti destinati alla produzione di massa di un numero limitato di beni e si è orientata verso stabilimenti di minore dimensione, specializzati in singole fasi della produzione. Nel settore della meccanica e della costruzione di mezzi di trasporto, dove è concentrato il 40% dell'occupazione manifatturiera, si sono affermate unità produttive medio-piccole; più di recente sono stati rinnovati anche grandi complessi con l'introduzione di macchine polifunzionali e l'automazione di parte dei processi di fabbricazione. Emerge un sistema produttivo capace, in certe sue fasce significative, di adattarsi e di reagire agli impulsi provenienti dal mercato. Ma il dinamismo e l'innovazione si sono manifestati prevalentemente nei settori cosiddetti maturi; meno diffuse sono state le iniziative in quelli che producono beni a tecnologia avanzata. A fianco delle aziende nuove o rinnovatesi nelle strutture e nelle tecniche di produzione, sono rimasti imprese e gruppi, soprattutto nell'area pubblica e in settori di base, ancora lontani dal risanamento.
Nella vicenda ciclica che ha seguito la seconda crisi petrolifera, l'economia italiana è stata caratterizzata dal mantenimento di livelli relativamente elevati della domanda interna. Alla fine del 1982, questa era del 3,3% superiore alla media del 1979; nello stesso arco di tempo, essa era aumentata del 4,7% in Francia e dello 0,5% negli Stati Uniti ed era diminuita dell'1,2% nel Regno Unito e del 4,3% nella Germania Federale. Lo squilibrio dei nostri conti con l'estero è stato, nell'ultimo triennio, il più ampio tra i maggiori Paesi industrializzati.
Altrove, la lunga recessione è stata occasione e stimolo di correzione dei costi interni e di riduzione della quota di risparmio assorbita dal settore pubblico. Nel triennio 1980-82, secondo elaborazioni dell'Ocse, i saldi dei conti pubblici, misurati in rapporto al prodotto interno lordo e depurati degli effetti ciclici, hanno registrato una riduzione dei disavanzi o un aumento degli avanzi in tutti i principali Paesi industriali, fuorché negli Stati Uniti e in Italia, Paese nel quale lo squilibrio era già il più ampio. Nello stesso arco di tempo, le retribuzioni nominali in Italia hanno mantenuto una dinamica incompatibile con il ritorno dell'inflazione su tassi prossimi a quelli degli altri Paesi industriali; inoltre, il restringimento dei differenziali salariali ha accentuato queste dinamica e generato squilibri allocativi. I guadagni orari reali nell'industria sono aumentati dell'1,8% all'anno in Italia e in Francia, mentre sono diminuiti dell'1,4% negli Stati Uniti, dell'1,3% nel Regno Unito e sono rimasti stabili nella Germania Federale.
Le informazioni più recenti mostrano un'economia ancora in recessione; una finanza pubblica profondamente squilibrata; un sistema di costi e prezzi percorso da non sopite tensioni. Nel primo trimestre del 1983 la produzione industriale è diminuita ancora rispetto allo scorcio del 1982 e il tasso di disoccupazione ha raggiunto in gennaio il 9,8%. Analisi previsive e inchieste condotte presso gli operatori indicano un miglioramento delle prospettive di produzione per i prossimi mesi, determinato, oltre che dalle esportazioni, dalla domanda di beni di consumo non durevoli. La conclusione dei contratti di lavoro pubblici e privati, altre erogazioni della Pubblica Amministrazione e gli sgravi fiscali eserciteranno effetti espansivi sul reddito disponibile delle famiglie.
Nella finanza pubblica, soprattutto per il rinvio dell'introduzione di alcuni provvedimenti correttivi e per la mancata approvazione di altri, il fabbisogno rischia di superare, per il terzo anno consecutivo, gli obiettivi fissati nel programma di governo. Per il 1984, pur se si realizzerà il proposito di mantenere invariata la pressione fiscale, la spesa tenderà a innalzare il rapporto fra il fabbisogno statale e il prodotto interno lordo rispetto al valore programmato per il 1983. E' una tendenza che allontana, anziché avvicinare, il riequilibrio dell'economia; per correggerla, sono necessari altri interventi.
Raddoppiandosi in due anni, il fabbisogno statale ha determinato una rapida formazione di attività finanziarie. In rapporto al prodotto interno lordo, esse sono passate dal 108% alla fine del 1980 al 113% alla fine del 1982, e si prevede possano salire di altrettanto nel 1983, raggiungendo li valore più elevato dell'ultimo decennio.
Nei primi tre mesi dell'anno, mostrando una forte decelerazione, i prezzi all'ingrosso sono cresciuti a un tasso medio mensile dello 0,4%; quelli al consumo sono aumentati a un tasso medio dell'1,1% nei primi cinque mesi. Come è avvenuto nel 1982, il rallentamento dei prezzi alla produzione previsto per la media del 1983 trae origine dalla decelerazione delle componenti esterne dei costi, quali l'energia e le materie prime, che la ripresa mondiale potrebbe far venire meno; la crescita delle componenti interne resta elevata: gli elementi che possono essere desunti dai contratti finora conclusi, l'attuazione delle modifiche legislative all'indennità di anzianità, gli effetti della scala mobile non configurano per il 1983 una significativa riduzione del tasso di aumento del costo del lavoro per occupato.
In una fase delicata delle relazioni industriali, l'accordo del 22 gennaio ne ha evitato il deterioramento; perché segni una svolta, esso non deve rimanere un avvenimento isolato. Nell'accordo, le parti sociali hanno ridotto il grado di copertura della scala mobile e hanno stabilito il principio di far valere come vincolo alle loro decisioni e ai loro comportamenti tassi di incremento dei prezzi al consumo predeterminati. Questo principio deve essere applicato con rigore ai fini di un rapido rientro dell'inflazione.
Qualora una ripresa dei consumi sospinta dal disavanzo pubblico e dalla crescita dei redditi nominali si aggiungesse anzitempo all'atteso stimolo proveniente dalle esportazioni, il contenimento dell'inflazione diverrebbe arduo. Le importazioni di beni finali e di materie prime riprenderebbero con forza, annullando l'effetto positivo delle esportazioni e del turismo; il saldo dei pagamenti correnti, che sta avvicinandosi all'equilibrio, tornerebbe in forte passivo. Gli aggravi dei costi derivanti dai contratti si cumulerebbero a minori remore nel riadeguare i margini di profitto attraverso aumenti dei prezzi. Il breve tratto del cammino verso la stabilità, faticosamente compiuto dopo la seconda crisi petrolifera, rischierebbe di essere velocemente percorso a ritroso.
L'onere di tenere l'inflazione sotto controllo ricadrebbe ancora una volta unicamente sulla politica monetaria; l'incipiente ripresa ne risulterebbe soffocata.
La capacità di risparmio, la disponibilità di lavoro, l'esistenza di bisogni sociali e privati non soddisfatti rivelano un'economia che ha i presupposti fondamentali per avviarsi su un sentiero di sviluppo, lungo il quale migliorare il benessere delle famiglie e le prospettive di occupazione per i giovani. Ma questa economia, che pure dà continue conferme di vitalità, soffre di rigidità e di segmentazioni, di utilizzi del risparmio, di una struttura dei costi che impediscono alla crescita virtuale di attuarsi. L'elevata inflazione, non la scarsità di risorse, è il vero ostacolo a uno sviluppo duraturo.
Se, contrariamente a quanto è avvenuto nelle più importanti economie industriali, da noi l'inflazione non è stata piegata, è perché nella società è mancata una vera determinazione nell'affrontarla. Ovunque il successo, che ora apre a quelle economie prospettive di ripresa, ha richiesto scelte coraggiose, politiche tenaci, ha comportato costi e rinunce. Da noi, orizzonti temporali limitati hanno impedito l'impostazione stessa di una politica antinflazionistica di ampio respiro. Ancor più, ha prevalso il convincimento che l'inflazione sia un male minore, ininfluente sullo sviluppo e sull'occupazione, o perfino ad essi complementare; che si tratti di fiammate destinate a spegnersi quasi spontaneamente, anche se poi si è costretti a constatare che il fuoco arde da oltre un decennio. E' mancata una sufficiente intelligenza delle cause e dei danni dell'inflazione. Non ci si è resi pienamente conto di come fattori esterni, dal costo delle fonti di energia all'abbandono dei cambi fissi e al venir meno di un metro monetario internazionale, e fattori interni, quali le indicizzazioni e l'assistenzialismo generalizzato, l'abbiano radicata e l'alimentino. 0 addirittura ha preso piede l'idea che con l'inflazione si possa convivere, apprestando occasionali ripari per contenerla, o che, come gruppi e individui, da essa ci si possa difendere scaricandone il danno sugli altri. Non si spiega altrimenti la difesa a oltranza di meccanismi e comportamenti capaci solo di far crescere insieme redditi nominali e prezzi, quando gli stessi redditi reali si sarebbero potuti ottenere con politiche consensuali volte a contenere insieme inflazione e redditi nominali. Né si spiega la facilità con la quale sono stati introdotti sistemi di intervento pubblico che comportano nel presente, e ancor più nel futuro, spese incompatibili con le più ottimistiche previsioni di crescita, promettendo la distribuzione di un reddito non prodotto e non producibile almeno in tempi brevi.
La società italiana deve dunque scegliere: ristabilire il dominio della ragione nel processo di riequilibrio dell'economia, facendosi artefice del proprio risanamento, o continuare a subire i costi crescenti di un aggiustamento operato nei fatti attraverso ridistribuzioni inique di ricchezza e sprechi di risorse. Non si danno vie intermedie. Occorrono atti di volontà. Il ripristino di una moneta stabile richiede una modifica di comportamenti e di meccanismi istituzionali sui due fronti del disavanzo pubblico e della dinamica dei redditi. La finanza pubblica deve reintrodurre a tutti i livelli il rispetto del vincolo di bilancio. La dialettica fra le parti sociali è condizione di vita del sistema democratico. Accordi volti a spezzare la spirale prezzi-salari non sono affatto incompatibili con il confronto fra lavoratori e imprenditori; sono anzi dimostrazione della validità di quel confronto. Sono questi i presupposti perché la politica monetaria possa volgersi a sostenere una linea di sviluppo dell'economia che ne realizzi le capacità potenziali. Sono queste le condizioni perchè l'Italia rimanga congiunta, nella stabilità monetaria, ai Paesi che le sono affini per assetti economici, cultura, istituzioni civili.

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