§ L'INCHIESTA

L'ITALIA DEI SALVADANAI




Dario Giustizieri, Lucio Tartaro, V.A. Stagno



L'interpretazione più convincente della crisi che ha colpito l'economia mondiale nella prima parte degli Anni Settanta, e che tuttora perdura, è quella di una fase di transizione da un vecchio a un nuovo modello di sviluppo. Il vecchio modello si è ormai logorato per molti aspetti: prodotti e modi di produrre obsoleti, rapporti non razionali tra nazioni e tra parti sociali, e, soprattutto, politiche economiche che hanno paurosamente perso la loro efficacia.
E' normale che nelle fasi di transizione, in questo ciclo pluridecennale fatto di innovazioni e di ritardi, emergano gravi difficoltà: perché nella transizione i costi sono molti e devono essere pagati subito, mentre i benefici sono incerti e in larga parte dilazionati. La saldatura tra i costi oggi ed i ricavi domani è, almeno fino ad un certo punto, compito qualificante del sistema finanziario; ma è anche, necessariamente, obiettivo primario della politica economica.
Appare ragionevole, dunque, ritenere che per il resto degli Anni Ottanta la domanda totale di finanziamenti - in Italia e negli altri Paesi ad economia prevalentemente di mercato - si manterrà potenzialmente molto elevata. Sarà una domanda in vista di tre grandi gruppi di destinazioni dei finanziamenti:
a) investimenti presso le imprese;
b) investimenti all'esterno delle imprese;
c) altri impieghi che non lasciano controvalori reali.
Gli investimenti presso le imprese sono: produttivi in senso stretto; solo parzialmente produttivi; legati ad esigenze sociali. Le necessità di investimenti strettamente produttivi (ivi comprese le costruzioni utilizzate nel terziario privato) spazieranno dall'ammodernamento e dalla razionalizzazione degli impianti già esistenti all'ampliamento, o al cambiamento radicale, degli impianti anche con operazioni di rilocalizzazione; dalle spese di ricerca scientifica ed applicata, e per lo sviluppo, agli investimenti nel capitale umano. Questi ultimi, ovviamente, dovranno rientrare pure nell'impegno delle famiglie e del settore pubblico.
Gli investimenti meno direttamente produttivi consisteranno, tra l'altro, in razionalizzazioni amministrative, nel lancio di nuovi prodotti e nella creazione o consolidamento delle reti di vendita e di assistenza, e nell'acquisizione di partecipazioni strategicamente rilevanti in altre imprese. Non dimentichiamo poi l'immobilizzo (crescente a causa dell'inflazione e, talora, di situazioni di mercato difficili) nel magazzino e nei crediti ai clienti: anche se alcune di queste voci (partecipazioni, crediti a clienti) trovano ovviamente compensazione all'interno del sistema delle imprese.
In aggiunta a tutto ciò, le imprese devono investire anche per rispondere ad esigenze sociali: la tutela dell'ambiente, il perfezionamento della sicurezza nelle lavorazioni, il miglioramento dei posti di lavoro.
Infine, imprese con un autofinanziamento ridotto e già fortemente indebitate, in presenza di un costo del denaro gonfiato dall'inflazione e da discutibili politiche economiche e finanziarie, molto spesso devono ricorrere al finanziamento esterno anche per coprire gli interessi dei debiti precedenti. Lo stesso vale, a maggior ragione, per il settore pubblico.
Gli investimenti all'esterno delle imprese rientrano in due categorie. Da un lato, abbiamo il fabbisogno di edilizia residenziale: prime case ad uso del proprietario, varie forme di edilizia pubblica, abitazioni da dare in locazione, seconde case per le vacanze. Dall'altro lato, troviamo le opere pubbliche e di pubblica utilità: le quali vanno dai grandi interventi (ad esempio nelle reti di comunicazione o nell'opera di riassetto idrogeologico del territorio), fino ai non meno importanti investimenti per l'ammodernamento dello strumentarlo delle pubbliche amministrazioni.
Gli impieghi di finanziamenti che non lasciano controvalori reali, infine, sono quelli a copertura dei disavanzi correnti del settore pubblico, e delle perdite di altri operatori, imprese in particolar modo. Può essere discussa l'appartenenza a questa categoria degli acquisti di beni-rifugio non produttivi, che comunque, in dati periodi, possono assorbire quote non trascurabili di disponibilità finanziarie orientate verso l'investimento: ciò, sia se i beni acquistati sono di nuova produzione sia se esistono già, perché in quest'ultimo caso chi compra pensa di investire e chi vende può desiderare un maggiore consumo.
Di fronte ad una probabile, imponente domanda di finanziamenti, è evidente che la prima risposta - da parte del sistema economico, ma anche da parte della politica economica che lo indirizza - deve essere quella di stimolare e sostenere decisamente la formazione del risparmio. La forma di risparmio migliore sarebbe, con ogni probabilità, quella dell'autofinanziamento presso gli utilizzatori finali, imprese ed amministrazioni pubbliche. Ma, se trascuriamo gli ammortamenti (che in prima approssimazione servono per sostituire il capitale fisico, non per aumentarlo), sembra realistico ritenere che per il resto degli Anni Ottanta il risparmio netto proverrà ancora prevalentemente dalle famiglie: è dunque ai comportamenti e alle esigenze dei risparmiatori che sarà necessario dedicare grande attenzione e altrettanto grandi cure.
Sostenere il risparmio, però, non basta. Occorre anche evitare di sprecarlo, e cercare di indirizzarlo verso gli impieghi economicamente e socialmente più produttivi. Per questo, dovrà essere superato il metodo di ricorrere a "sistemazioni" meramente finanziarie di problemi - siano essi aziendali o pubblici - di cui non si vogliono o non si sanno affrontare le cause reali. Proprio questo tipo di deviazione del sistema finanziario si è ormai trasformato da effetto della crisi economica a fattore della sua perpetuazione.
Gli sprechi - lo abbiamo constatato e non dobbiamo dimenticarlo - possono nascondersi pure sotto le etichette degli investimenti aziendali e delle opere pubbliche. La costruzione del nuovo modello di sviluppo impone di scegliere anche tra gli investimenti. Non è più possibile offrire o stanziare finanziamenti massicci, magari a condizioni agevolate, per realizzare investimenti purchessia. Occorre una garanzia di adeguatezza alle necessità di questa fase storica; occorrono prospettive di sufficiente redditività economica o sociale. Occorre, dunque, efficienza produttiva presso chi riceve i finanziamenti, ed efficienza allocativa presso chi decide chi finanziare. La selezione di partenza, appunto, spetta in larga parte al sistema finanziario.
Ecco perché, pur attribuendo la massima importanza all'investimento come strumento per rilanciare durevolmente lo sviluppo, e al risparmio come condizione necessaria per l'investimento, dovremo dedicare molta attenzione ai problemi specifici del sistema finanziario, divenuto un intermediario fondamentale tra risparmiatori ed investitori.
Da diversi anni le banche italiane stanno attraversando una fase complessa, che si caratterizza soprattutto per le pronunciate oscillazioni nella crescita dimensionale, le sensibili modifiche di struttura dell'attivo e del passivo, un intenso processo di innovazione finanziaria, l'erosione del ruolo che un tempo era tipico dell'attività bancaria, e cioè quello di guidare l'allocazione delle risorse.

CRESCITA DIMENSIONALE.

Fino al 1978, il sistema bancario italiano aveva vissuto una lunga stagione di impetuosa crescita delle dimensioni, con tassi annui di incremento dei depositi ben superiori a quelli del reddito nazionale nominale e dell'insieme delle attività finanziarie dell'economia. I depositi bancari, che rappresentavano circa un quarto delle attività finanziarie delle famiglie all'inizio degli Anni Sessanta, toccavano il 55 per cento a fine 1977. E' poi venuta una fase, anticipata fin dal 1976 da qualche grande banca, caratterizzata dalla "disintermediazione". Le singole banche hanno assegnato maggiore peso agli obiettivi di conto economico rispetto a quelli puramente dimensionali. A loro volta, i vincoli amministrativi sull'attivo, introdotti già nel 1973 e in seguito intensificati, hanno avuto l'effetto di abbassare, a parità di altre condizioni, il rendimento medio effettivo ottenibile dagli incrementi di raccolta, e perciò hanno indotto le banche a moderare la crescita dei depositi, sia mediante la corresponsione di tassi passivi relativamente più bassi, sia mediante una politica della "consulenza allo sportello" più benevola nei confronti di strumenti alternativi, i Bot in primo luogo.
Contrariamente all'aspettativa dei banchieri che avevano per primi promosso la "disintermediazione", il relativo ridimensionamento della "presa" delle banche nel mercato del risparmio (il tasso annuo di crescita dei depositi è sceso fin sotto il 10 per cento a fine 1981) non ha indotto finora le autorità a restituire ad esse maggiori gradi di libertà nell'amministrazione dei fondi raccolti. Il sistema bancario è divenuto meno ingombrante, ma non si è ridotto sopra di esso l'ingombro dei vincoli.
Ma non è per questa pur giustificata delusione - si deve ritenere - che nel 1982 il sistema bancario ha rialzato la testa, dimensionalmente parlando, ed è ritornato verso tassi di crescita dei depositi dell'ordine del 20 per cento. Recenti analisi mostrano che la cosiddetta "reintermediazione" è dovuta prevalentemente al comportamento di portafoglio del pubblico. Considerazioni attinenti al rischio - di insolvenza, di illiquidità, di tassazione - dei titoli di Stato, talora alimentate da non pacate dichiarazioni ufficiali, talaltra spontaneamente indotte negli operatori dalla contemplazione delle statistiche sulla dimensione e sulla struttura per scadenze del debito pubblico, hanno riaccresciuto l'appetibilità del deposito bancario.

MODIFICHE Di STRUTTURA.

Sottese alle fasi alterne della crescita dimensionale, si sono manifestate in questi anni importanti modifiche di struttura nell'attivo e nel passivo delle banche. Nei limiti di spazio di questa inchiesta, sarà sufficiente richiamare: il crescente ruolo di "intermediario nell'importazione di valuta" (con la crescita della raccolta all'estero sul totale della raccolta e degli impieghi in valuta sull'interno sul totale degli impieghi); il peso crescente, sul totale dell'attivo, delle attività detenute in virtù di vincoli diretti (riserva obbligatoria e vincolo di portafoglio) e indiretti, dato il massimale sugli impieghi (titoli, soprattutto di Stato); la destinazione di quote sempre maggiori, nell'ambito degli impieghi totali pur in relativa flessione, alle imprese private di medie e piccole dimensioni, con la correlativa diminuzione di quota delle imprese pubbliche e delle maggiori imprese private; l'aumento percentuale, malgrado la ricomposizione descritta, delle sofferenze sul totale degli impieghi.

INNOVAZIONE FINANZIARIA.

Come negli altri Paesi, anche se forse in misura inferiore ad alcuni di essi, si è sviluppato un significativo processo di innovazione finanziaria, nel duplice senso dei processi produttivi (impiego di tecnologie più avanzate) e dei prodotti (salita di quota, e diversificazione, dei servizi bancari rispetto alla tradizionale intermediazione o "gestione denaro"; sviluppo, anche da parte delle banche, dei cosiddetti servizi parabancari). Si può probabilmente affermare che il sistema dei vincoli amministrativi ha concorso a rendere meno veloce la innovazione dei processi, contenendo l'impulso concorrenziale; è più veloce invece l'innovazione dei prodotti, sommando ad una componente fisiologica di innovazione dei servizi una certa componente ulteriore di ricerca di forme e di circuiti nuovi di finanziamento come elusione dei vincoli gravanti sui circuiti più tradizionali.

ALLOCAZIONE DELLE RISORSE.

Nel complesso, come sopra accennato e come argomentato in più sedi, si è in qualche modo ridotto il ruolo delle banche come soggetti delle decisioni circa l'allocazione delle risorse finanziarie. In termini icastici, ma non troppo irrealistici, si potrebbe dire che vi è stata, probabilmente senza un disegno preordinato, una qualche inversione di ruoli. Lo Stato, con l'espansione dei trasferimenti alle imprese, svolge di fatto sempre più il ruolo di "banchiere occulto". Il sistema bancario, soggetto ai vincoli amministrativi, svolge di fatto sempre più le funzioni di "esattore occulto", (l'"imposta essendo costituita, com'è ormai noto, dalla minore remunerazione del risparmio e dal maggiore costo del denaro alle imprese, che conseguono dai vincoli). E' un'inversione dei ruoli che genera benefici in termini di consenso alla classe politica, poiché gran parte dei trasferimenti alle imprese permette il mantenimento delle imprese e di posti di lavoro fuori mercato e il mantenimento di prezzi politici; il che espone il sistema bancario al biasimo della pubblica opinione, la quale spesso "valuta" il costo dell'intermediazione bancaria come se delle imposte occulte le banche fossero non esattori, ma percettori finali.
Se quelli sopra accennati sono alcuni tratti essenziali che hanno caratterizzato il divenire del sistema bancario italiano negli ultimi anni, da quali elementi dipenderà la sua ulteriore evoluzione negli anni prossimi?
Certo, l'andamento complessivo dell'economia internazionale e di quella italiana, con particolare riguardo alla dinamica della finanza pubblica, e alle condizioni delle imprese, finiranno per essere le determinanti di fondo dello stato di salute e della stessa fisionomia del sistema bancario. Motivi di spazio ci suggeriscono di limitarci alle determinanti più prossime all'operare del sistema bancario. Tra queste, sembrano poter assumere un ruolo preminente: le modalità di conduzione della politica monetaria, i controlli "strutturali", i modi di prevenzione e gestione della situazione di crisi, la definizione dei compiti delle singole banche e delle loro associazioni nella formazione dei tassi di interesse.

MODALITA' DI CONDUZIONE DELLA POLITICA MONETARIA.

Dopo dieci anni di politica monetaria condotta prevalentemente mediante i vincoli amministrativi, la speranza delle banche di riacquisire un maggior ruolo nell'allocazione delle risorse e la speranza dell'economia di vedere il sistema bancario sottoposto ad una maggiore concorrenza, e perciò costretto ad una maggiore efficienza tecnico-operativa, sono legate alla piena attuazione della manovra iniziata dal Comitato Interministeriale del Credito e del Risparmio il 23 dicembre scorso. Maggiori pressioni per il controllo della finanza pubblica e maggiori probabilità di vedere lo sviluppo di un sistema creditizio più efficiente discenderanno dall'effettiva eliminazione del massimale sugli impieghi, sull'aumento del rendimento della riserva obbligatoria, dall'eliminazione del vincolo di portafoglio.

CONTROLLI "STRUTTURALI".

Rilevante sarà anche l'evoluzione che assumeranno i controlli sulla struttura del sistema bancario. Per quanto riguarda i "controlli all'entrata", riguardanti l'apertura di sportelli, la costituzione di nuove aziende di credito, lo stabilimento in Italia di aziende di credito estere, non sembra che sarà possibile evitare ancora a lungo l'applicazione delle direttive della CEE.

PREVENZIONE E GESTIONE DELLE SITUAZIONI Di CRISI.

Certamente, un sistema bancario reso più concorrenziale dall'eliminazione dei vincoli amministrativi e da una maggiore apertura tenderà ad essere più efficiente, ma potrebbe essere più esposto sul piano della stabilità (sebbene casi di crisi non siano mancati negli ultimi anni, pur in regime più vincolistico, di quello qui ipotizzato). Ma il potenziale rischio di maggiore instabilità si può ovviare in vari modi: evitando di muovere verso un regime nel quale le banche siano autorizzate ad acquisire capitale proprio delle imprese; disciplinando in funzione della raccolta a termine le eventuali possibilità di impiego al di là del breve termine; favorendo gli accantonamenti a fronte dei rischi interni e internazionali; considerando attivamente l'ipotesi di istituire un sistema di assicurazione dei depositi bancari (esplicito, limitato e a carico degli interessati), in sostituzione degli interventi di salvataggio finora effettuati (che equivalgono di fatto ad un sistema di assicurazione non esplicito, illimitato e a carico della collettività).

TASSI DI INTERESSE.

Vi è infine un comparto, sottoposto all'attenzione ormai quotidiana, che forse richiede da parte della comunità dei banchieri qualche maggiore riflessione. Qual'è il ruolo delle singole banche e quale quello delle associazioni, e in particolare dell'Abi, nella formazione, nella motivazione e nell'annuncio dei tassi di interesse bancari? Si è registrato in proposito, negli ultimi tempi, un dinamismo di per sé interessante; ma che lascia qualche incertezza sia in ordine alla distribuzione dei ruoli tra le "singole aziende" e l'"associazione" (la seconda ha un compito di ratifica o anche di decisione?), sia in ordine alla distribuzione dei ruoli tra le "autorità monetarie" e il "mondo bancario" (quest'ultimo, per singole aziende o associativamente, deve stabilire esso qual è il livello dei tassi coerente con valutazioni squisitamente di politica monetaria -tasso di inflazione, equilibrio esterno, ecc. - oppure deve recepire i segnali che in proposito le autorità devono trasmettere nelle forme palesi e, condizionato anche da questi, deve decidere i tassi, per singole aziende o associativamente, ma in un'ottica aziendale, facendo cioè strettamente la propria parte?).
Non è agevole attribuire un significato univoco all'affermazione che la supremazia dei banchieri termina con il "crack" del 1929. In effetti, gli anni successivi, con il crollo finanziario che innesca e propaga la grande depressione delle economie capitalistiche occidentali, vedono il rapido deteriorarsi dell'istituzione bancaria e dell'intero circuito monetario, sia nazionale che internazionale, cui la banca sovrintendeva. Così ad esempio, può essere sviluppata la tesi della sostanziale trasformazione delle banche da istituzioni a imprese.
In prospettiva non troppo lontana, del resto, questa tesi, sostenuta vivamente da Deaglio ("Come cambia il capitalismo", Mondadori 1982), porta direttamente all'interrogativo circa l'avvento di un'"era post-bancaria". In altri termini, all'idea avveniristica, ma non troppo, secondo alcuni, di una società in cui la concessione del credito non è prerogativa del solo sistema bancario. Si può dire, in un certo senso, che questa tendenza è già in atto e che, come espressione di una "multipolarizzazione" della società, essa non sarebbe che un riflesso o una conferma di tendenze che effettivamente si riscontrano nella sfera della produzione e, soprattutto, nelle sue condizioni tecnologiche ed organizzative.
D'altra parte, quando si parla di istituzione bancaria, del suo ruolo tradizionale, della sua supremazia nei confronti dell'imprenditorialità industriale manifatturiera e, soprattutto, della sua centralità autonoma nel circuito monetario e finanziario dominante per economie capitalistiche in fase di costituzione e di crescita, si vuoi dire che la comunità bancaria costituisce un sistema. La coscienza di questo e la consapevolezza di svolgere un ruolo istituzionale toccano l'espressione più completa con la formazione delle banche centrali: evidentemente, fino a quando esse rappresentano il culmine di un auto-ordinamento praticamente sovrano nella propria sfera. Esso implica non soltanto l'autonomia del mondo bancario e del credito da quello politico, se non dal potere statuale, ma la prevalenza del primo sul secondo. E ciò, quanto meno, attraverso l'accettazione da parte dei governi di un sistema di regole, di consuetudini, di prassi, proprie delle istituzioni creditizie e della comunità che esse costituiscono a livello sia nazionale che internazionale e mondiale.
Non si tratta tanto della natura giuridica, privata o pubblica, delle banche centrali - banche delle banche, appunto - sebbene lo "status" di queste istituzioni travalichi a lungo i cambiamenti radicali gradualmente subìti dal sistema, a cominciare proprio dagli istituti centrali, nei confronti degli ordinamenti statuali e del potere politico.
Lo si può vedere tuttora in residui storici di grande significato, come l'assetto della Banca per eccellenza, quella d'Inghilterra, o addirittura la configurazione dell'Assemblea dei Partecipanti al capitale della Banca d'Italia. Ma si tratta, piuttosto, specificamente, del rapporto fra l'autorità dei banchieri e del sistema da essi creato, il quale costituisce un insieme di vincoli per i governi fin quasi a tutto l'Ottocento, e i vari possibili destinatari del credito, sottratti a loro volta al predominio, se non all'interferenza, del potere politico, per non parlare della pubblica amministrazione nel senso odierno del termine.
Non c'è dubbio che, definito con queste connotazioni, il sistema bancario classico appartiene ad un "mondo di ieri", già intaccato e travolto dallo scoppio della prima guerra mondiale del 1914. La cui inarrestabile deflagrazione rappresenta, in un certo senso, un fallimento drammatico ed irreversibile per la comunità bancaria internazionale, paradossalmente simmetrico a quello che coinvolge, nello stesso momento, sulla sponda opposta, il movimento socialista internazionale dei lavoratori nei diversi Paesi capitalistici. Da questo punto di vista si potrebbe forse dire che Rothschild e Juarès sono, metaforicamente, figure entrambe emblematiche del tramonto di un'epoca.
Ma è ugualmente vero che il tramonto del potere bancario si manifesta, da un lato, attraverso la progressiva riduzione dell'autonomia delle Banche centrali, come supreme e indipendenti magistrature monetarie, nei confronti dei governi e del potere politico, in corrispondenza dell'avvento di politiche pubbliche monetarie specifiche e della regolazione delle macrograndezze monetarie e creditizie come strumenti di politica economica e sociale, abbandonato il "gold standard" e infine persino il "gold-echange standard". Dall'altro, quel tramonto si manifesta altresì nei confronti dell'industria e, più in generale, rispetto al mondo imprenditoriale, proprio in funzione diretta del graduale ma inarrestabile cambiamento del ruolo del banchiere da ufficio istituzionale nell'intermediazione finanziaria dei capitali - dal risparmio all'investimento produttivo dell'economia - in attività anch'essa sempre più contrassegnata da caratteristiche aziendali più o meno completamente imprenditoriali.
Un cambiamento e una trasformazione, peraltro, tuttora incompiuti e certamente in ritardo rispetto al modello che, abbastanza ironicamente dal punto di vista storico, le banche medesime hanno finito per mutuare proprio dalle forme organizzative e gestionali emerse dallo sviluppo di quel mondo industriale che, come istituzioni, avevano promosso, selezionato, guidato, e non di rado, attraverso il conferimento del capitale finanziario, sostanzialmente "pianificato" nello sviluppo, nella struttura e nelle dimensioni. E' di oggi, ad esempio, l'aspirazione a vedere realizzato il passaggio "da istituzioni ad imprese" per un segmento importante del sistema creditizio, come quello rappresentato dalle Casse di Risparmio e, in Italia, dalle Banche del Monte.
E' vero che non si tratta, in questi casi, di istituzioni tipiche del grande capitalismo moderno, bensì di espressioni tradizionali della società civile e delle comunità locali, legate agli albori dell'intervento pubblico (caritativo e in difesa dei poveri) nel settore del credito - com'è appunto il caso del movimento dei Monti di Pietà alla fine del XV secolo - oppure di strumenti associativi per la raccolta del piccolo risparmio.
Ma è ugualmente significativo che in nessun caso, neppure in quello della classica azienda di credito ordinario, l'istituzione abbia ceduto completamente il posto all'impresa.
Così come non è certo per caso che il problema istituzionale fondamentale del sistema bancario si ritrovi - di fronte alle esperienze iperinflazionistiche dell'ultimo decennio - nella riaffermata esigenza di autonomia della Banca centrale rispetto al potere politico, governativo e parlamentare. Problema che la situazione italiana ha riproposto in termini apparentemente tecnici, ad esempio, nella questione del "divorzio" fra Tesoro e Banca d'Italia, ma che il Governatore Ciampi ha più volte indicato in maniera sintetica nella necessità vitale, per il Paese, di darsi una rinnovata e salda "costituzione monetaria". L'istituzione, qui, rimasta ben salda, se non altro per l'autorità dei suoi massimi esponenti, da Einaudi a Menichella, da Baffi a Ciampi, parla con l'accento di una magistratura e di questa - nel disordine e nell'ingovernabilità di un'economia confusamente "mista", corrosa dall'assistenzialismo, non ancorata abbastanza alle regole sia del mercato che della programmazione (al contrario, sempre più dominata dall'inefficienza sociale del metodo della negoziazione che ne fa una società prevalentemente contrattuale) - rivendica il ruolo insostituibile.

 

D'altro canto, alla radice stessa della funzione creditizia, nella raccolta e nella canalizzazione di capitali per l'investimento, li ruolo istituzionale svolto dalle banche nei processi di industrializzazione di molti Paesi europei - ritardati rispetto all'esperienza inglese della seconda metà del XVIII secolo, in Francia, ma soprattutto in Germania, nell'impero Austro Ungarico ed infine in Italia, fra gli ultimi due decenni dell'Ottocento e la guerra mondiale - è evidente. Esso fu in realtà esaltato, nei diversi casi, dalle banche d'affari e dalle banche "miste" di tipo tedesco, che adempirono a compiti di autentica pianificazione dello sviluppo economico al sorgere della grande industria moderna. Basti pensare, per l'Italia, all'azione della Banca Commerciale Italiana e del Credito Italiano, fondati rispettivamente a Milano e a Genova nel 1894 e nel 1895, entrambe creazioni di banche tedesche, e in generale al profondo coinvolgimento delle grandi banche nel decollo economico-industriale dell'Italia. A questo coinvolgimento, alle crisi bancarie che ne hanno segnato le tappe, agli effetti sconvolgenti del "crack" e della grande depressione mondiale, si ricollegano direttamente, in Italia, la costituzione dell'Iri e i salvataggi degli Anni Trenta, e finalmente la legge bancaria del 1936. Quest'Ultima conclude una serie di interventi legislativi a tutela del risparmio, ma soprattutto a presidio di un controllo che le autorità monetarie centrali avrebbero esercitato come strumenti e depositari, ad un tempo, di un potere politico-economico affidato alla responsabilità pubblica e gestito per scopi di politica pubblica.
Ma nei nostri tipi di sistemi, nelle economie occidentali, il paradosso storico continua e si manifesta in molte attuali contraddizioni. Da una parte si chiede alle banche un apporto più valido e rigoroso all'efficienza allocativa, attraverso più autonome ed istituzionali valutazioni dei rischi della ripartizione del credito; dall'altra, lo scioglimento dei "lacci e lacciuoli" che le imbrigliano come imprese economiche è ritardato o impedito proprio dal fatto che queste aziende - divenute e rese sempre meno "istituzionali" - non possono che essere a loro volta strumenti di politiche monetarie e creditizie eteronome, subordinate alle scelte e al potere della politica.
Dopo tutto, a parte quello dell'Ambrosiano, il pericolo di un "crack" bancario internazionale è oggi tutt'altro che lieve, mentre la bancarotta dei Paesi in via di sviluppo si fa sempre più minacciosa. Soltanto negli Stati Uniti le banche fallite nel 1982 sono state ben 43, oltre a 46 Casse di Risparmio incorporate a scopo di salvataggio. Come si conviene ad imprese, più che ad istituzioni.
Pochi concetti, in economia, sono stati, e sono ancora in molte circostanze, oggetto di interpretazioni contrastanti come quello del risparmio. Chi non ricorda, tra le reminiscenze scolastiche, l'enfasi solenne con cui veniva dettato in classe il tema sul risparmio? Con enfasi non minore, d'altro canto, avviene di solito il primo approccio con la nozione keynesiana di vuoto deflazionistico causato da un eccesso di risparmio sull'investimento. Il risultato è che i due messaggi - il risparmio fonte di progresso, il risparmio sorgente di crisi - convivono nella mentalità del pubblico, in una sintesi non sempre felice in termini di chiarezza.
La stessa legge bancaria del 1936 non sfugge a un ampio margine di ambiguità di interpretazione nel momento in cui indica nella tutela del risparmio lo spirito al quale dovrebbe essere orientato l'ordinamento istituzionale dell'attività di intermediazione. Non è possibile, infatti, pur tenendo conto dello stato pre-keynesiano del pensiero economico in cui la legge bancaria matura, non porsi un quesito fondamentale: la difesa del risparmio attiene al rapporto microeconomico tra risparmiatore e istituzioni finanziarie, o passa essenzialmente attraverso la stabilità del processo di formazione del reddito a livello macroeconomico?
La teoria economica, è per molti versi la giurisprudenza più illuminata, hanno in realtà dato una risposta a tale quesito, ponendo l'accento sullo stretto legame esistente tra formazione del reddito e formazione del risparmio, e, al tempo stesso, chiarendo la connessione tra solvibilità del singolo istituto di credito e stabilità del sistema finanziario nel suo insieme.
Sotto il primo profilo, una corretta interpretazione dello spirito della legge bancaria è alla base degli obiettivi di stabilizzazione dei prezzi e dell'attività produttiva che caratterizzano le finalità della politica monetaria e la prassi della Banca centrale. Se, infatti, la fiducia nel potere d'acquisto della moneta e la regolarità nella crescita del reddito nazionale sono i due presupposti su cui si fonda la psicologia della propensione al risparmio, è attraverso il controllo di tali variabili strategiche che può di fatto realizzarsi la tutela del risparmio.
Sull'altro versante, la connessione tra solidità della singola banca e stabilità del sistema bancario è una delle realtà da cui trae alimento l'indirizzo teorico e pratico cui si ispira in tutti i Paesi industriali l'attività di supervisione svolta dall'autorità monetaria. Si tratta di una connessione drammaticamente posta in evidenza, nel nostro Paese, dalle vicende degli Anni Venti e Trenta, allorché il coinvolgimento di importanti istituti di credito nelle vicissitudini dell'industria sfociò in vere e proprie crisi finanziarie, mettendo a repentaglio i sacrifici dei risparmiatori.

 

L'abbandono del modello di banca mista, ovvero la separazione istituzionale tra credito a breve e credito a media e lunga scadenza, non è che un aspetto della nuova disciplina dell'intermediazione dettata dalla negativa esperienza di quel periodo. Un altro aspetto - sul piano sostanziale certamente non meno importante - è l'acquisita consapevolezza che il rischio di instabilità del sistema finanziario nel suo insieme non è semplicemente la somma dei rischi di insolvibilità dei singoli istituti. Semmai ce ne fosse stato bisogno, tale consapevolezza ha trovato un puntuale riscontro nelle difficoltà dell'ultimo decennio, quando in Paesi di provata solidità delle strutture finanziarie il fallimento di banche non ha potuto essere evitato, e solo l'attenta vigilanza delle autorità monetarie ha potuto scongiurare l'innescarsi di "effetti domino".
In un contesto di accresciuta incertezza e instabilità, quale quello in cui operano imprese e famiglie dall'inizio degli Anni Settanta, l'importanza dell'intermediazione finanziaria è esaltata da una sempre più elevata dissociazione tra decisioni di risparmio e decisioni di intervento che caratterizza in modo particolare il nostro Paese.
La tradizionale debolezza dei mercati dei capitali in Italia ha da molto tempo fatto sì che il deposito bancario, nelle sue varie forme, divenisse il principale canale attraverso cui i risparmiatori pongono i propri fondi a disposizione dei centri di spesa in cerca di risorse finanziarie. La concorrenza dei Bot ha dirottato, soprattutto nel corso del 1981, le preferenze del pubblico verso questa attività finanziaria particolarmente liquida ma - come del resto i dati più recenti testimoniano - non ha inciso in modo sostanziale sull'orientamento di fondo dei risparmiatori verso i depositi.
In realtà, il dato sul quale occorre riflettere è l'aumento della preferenza per la liquidità del pubblico verificatosi proprio come riflesso del clima di grande incertezza che domina in Italia ormai da parecchi anni. La difficoltà nel riportare sotto controllo l'inflazione, come pure le ricorrenti crisi di bilancia dei pagamenti, sono senza dubbio tra i fattori più importanti che alimentano tale clima. Sta di fatto che, sia che si tratti di orientare i propri fondi verso i depositi, sia verso i Bot, i risparmiatori chiedono tassi molto elevati: in senso genuinamente keynesiano, molto elevato è, ormai da tempo, il compenso che essi esigono per la "rinuncia" alla liquidità.
Se è ragionevole pensare che negli investimenti finanziari a lungo termine il radicarsi dell'inflazione abbia ormai insegnato a valutare il rendimento in termini reali, meno logico è abbandonare l'idea che negli investimenti a breve e brevissimo termine il tasso nominale rivesta un carattere convenzionale, e sia quindi legato in qualche modo a fattori istituzionali e alle caratteristiche dei titoli. L'esempio delle "voci" -che dovrebbero essere assurde - di consolidamento dei Bot sono un esempio paradossale ma significativo a questo riguardo.
Il principio generale secondo cui l'investitore accetta un rendimento nominale tanto più basso quanto più appropriate alle proprie esigenze, oggettive e soggettive, di liquidità sono le caratteristiche del titolo (ovvero quanto minore è il rischio in cui egli incorre effettuando l'investimento), rimane sostanzialmente valido anche nel clima poco favorevole agli impegni finanziari in cui viviamo. Per questo, sono particolarmente importanti le iniziative di innovazione finanziaria miranti a dotare il sistema di strumenti che, senza suscitare aspettative destabilizzanti o rincorse nel tempo tra diverse generazioni, riescano a ridurre la preferenza per la liquidità, e quindi il tasso di interesse chiesto per una rinuncia alla disponibilità di fondi liquidi.
Anche se sono ancora premature valutazioni quantitative a riguardo, appaiono pertanto interessanti le recenti istituzioni nel nostro Paese dei certificati di deposito e dei fondi di investimento. I primi, per le loro caratteristiche di negoziabilità, cercano di coniugare insieme le due esigenze di un più duraturo impegno - rispetto al deposito a vista - del depositante nei confronti della banca e della possibilità di disporre dei fondi in caso di necessità prima della scadenza. I secondi, mentre da un lato colmano una lacuna esistente nel "menu" delle nostre attività finanziarie, dall'altro si candidano, almeno potenzialmente, come strumento in grado di rendere "meno sottile" il mercato dei capitali, ovvero di rafforzare il canale di trasferimento diretto dei fondi dai centri di risparmio ai centri di investimento.
La più elevata remunerazione della riserva obbligatoria a fronte dei certificati di deposito indica chiaramente l'intento delle autorità monetarie di incoraggiare le banche a selezionare la raccolta in funzione della scadenza. L'avvenuta emissione di certificati da parte di importanti istituti di credito testimonia l'interesse del sistema bancario per questo canale di afflusso dei fondi. Il pubblico, d'altro canto, ha ormai acquisito un grado di sofisticatezza finanziaria tale da essere in grado di apprezzare innovazioni significative, all'interno di un quadro normativo-istituzionale definito. Non appare anzi azzardato sostenere che, come accaduto del resto in questi ultimi anni in altri Paesi, sia proprio il processo di "apprendimento per esperienza" del pubblico in materia finanziaria a sfidare il sistema bancario sul terreno della sua capacità propositiva in tema di nuovi strumenti di canalizzazione del risparmio. E le banche sapranno certamente vincere anche questa scommessa.


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