§ IL SUD E IL SUO FUTURO ECONOMICO

LO SVILUPPO DELL'ECONOMIA MERIDIONALE ALL'INIZIO DEL NUOVO CICLO DELL'INTERVENTO STRAORDINARIO




D.G., L.T.



Ha scritto Pasquale Saraceno che a partire dal 1974 il primo aumento del prezzo del greggio e altri fenomeni importanti hanno profondamente e bruscamente modificato il corso di tutta l'economia mondiale, e soprattutto il sistema di rapporti in cui hanno luogo l'esercizio e l'espansione delle imprese industriali. Sette anni sono ormai trascorsi da quel primo evento, aggiunge Saraceno, e ormai elementi sufficienti sono in nostro possesso per confermarci "che le rilevanti difficoltà che si sono affrontate dopo allora e quelle che sono oggi davanti a noi non sono manifestazioni di una crisi, che, appunto perché crisi, è destinata ad essere superata per dar luogo a corsi di eventi in qualche modo riconducibili alle esperienze del passato".
A questo proposito, va tenuto presente che la rinuncia al termine crisi è un punto rilevante ai fini di una identificazione della politica meridionalistica: in situazione di crisi i problemi di ordine strutturale si possono legittimamente accantonare; tale è stata in passato più volte la sorte della questione meridionale e questo è da temere possa avvenire anche nel momento attuale. La situazione è ben diversa, se ci convinciamo che quanto è accaduto dopo il 1973 non costituisce, pur con le sue gravissime difficoltà, una complicata fase di passaggio verso una situazione definibile di normalità; una nuova normalità è ormai già cominciata, e in essa, il più possibile identificata, va gestito l'intervento straordinario 1982-91.
La presentazione di un disegno di legge che prevede la continuazione dell'intervento straordinario per un decennio costituisce per Saraceno un elemento molto positivo nella situazione, sotto tanti aspetti preoccupante, che presenta oggi l'economia meridionale, "positivo, ci sentiremmo di aggiungere, indipendentemente dalla soluzione che il Parlamento vorrà dare alle questioni, certo non di lieve momento, che sulla proposta di legge sono state sollevate".
Infatti, non ci dovrebbero essere dubbi che sono oggi più che mai validi i motivi che portarono nel 1950 a creare l'istituto dell'intervento straordinario; giova ricordarli: in primo luogo, identificare l'ammontare di risorse da assegnare all'azione nel Mezzogiorno in aggiunta a quelle dell'azione ordinaria e garantire tale afflusso addizionale di risorse per un periodo poliennale; secondo, gestire tali risorse in una sede ad hoc, con procedure più semplici di quelle proprie della Pubblica Amministrazione; terzo, coordinare in programmi azioni che andavano svolte in campi diversi.
Perché mai un tipo di intervento così motivato sarebbe dovuto cessare, come pure è stato proposto? Dopo tutto, rileva il meridionalista, se si considera nel suo complesso l'azione economica svolta nel nostro Paese dopo la fine della guerra e il mai cessato dibattito sul problema della programmazione, non si vede quale altro tipo di azione pubblica abbia perseguito in concreto e tanto a lungo l'idea di programmazione, con possibilità di rendiconto che non erano disponibili altrove; ed è questa una circostanza importante, se è vero che un programma che non prevede rendiconto scende al livello di messaggio (1).
Motivo di compiacimento deve poi essere l'idea di riportare a dieci anni la durata dell'intervento rispetto ai cinque previsti dalle tre ultime leggi di proroga. Interessa al riguardo auspicare che il decennio sia inteso nel suo originale significato di durata del periodo per il quale viene garantito all'azione meridionalistica un determinato afflusso di fondi e non già del periodo al termine del quale le modalità dell'intervento vanno in ogni caso poste in discussione, e, inevitabilmente, mutate, come invece è avvenuto finora. Nella storia delle istituzioni non vi sono, salvo errore, altri esempi di mutamenti radicali tanto frequenti del modo di operare di un Ente, come è avvenuto per la Cassa per il Mezzogiorno; mutamenti che finiscono in qualche modo per essere spesso errati, dato che, avvenendo a scadenza quinquennale ed essendo gli obiettivi dell'Ente a lunghissima scadenza, non è probabile che essi vengano decisi in base a fondate valutazioni politiche ed economiche degli effetti prodotti dalla legislazione adottata quattro anni prima, in occasione della precedente proroga. E si dice quattro anni perché è quanto meno un anno prima della scadenza che si inizia il dibattito e si cominciano ad avanzare proposte di modifica, con l'effetto - di indurre uno stato di grande incertezza nella gestione dell'Ente. Questa incertezza si prolunga poi anche oltre il quinto anno - e in questa situazione si trova oggi il Sud - se la legge di proroga non viene approvata prima della scadenza. E così, l'azione straordinaria, concepita a suo tempo per rendere più rapida e più incisiva la politica meridionalistica, finisce per non possedere neppure le caratteristiche proprie dell'azione ordinaria, caratteristiche che pure sono ancora oggi ritenute insufficienti per condurre in modo coordinato e risoluto le varie azioni che il Sud pressantemente richiede. Non è quindi giusto attribuire solo alla natura dei pur gravi problemi meridionali le insufficienze dell'azione svolta finora.
La lunga esperienza compiuta dovrebbe quindi indurre a ritenere come caratterizzanti dell'intervento straordinario i seguenti punti:
a) l'intervento straordinario ha durata che solo le vicende dell'azione meridionalistica possono determinare;
b) le norme che regolano l'intervento non sono certo immutabili, specie in un mondo come l'attuale, soggetto a frequenti e non prevedibili cambiamenti; i mutamenti, come del resto anche avviene, vengono fatti quando occorre, e quindi tra l'una e l'altra proroga; e non si vede perché a scadenza predeterminata, cioè all'atto della proroga, tutto venga rimesso in discussione. In altre parole: le leggi di proroga vanno riferite alle modalità non dell'intervento straordinario, ma del suo finanziamento, nell'ipotesi plausibile che a regolare le modalità dell'intervento si sia provveduto quando ciò si è reso necessario.
Ora, non vi è dubbio che, attualmente, questa necessità si è manifestata; ciò, sia a motivo del gran cambiamento avvenuto a partire dal 1974 nelle condizioni in cui si svolge lo sviluppo meridionale (e a questo fenomeno direttamente ci colleghiamo in queste pagine), sia di nuovi indirizzi emersi nelle norme che regolano la politica meridionalistica, indirizzi che valgono a dare nuove soluzioni al generale problema della ripartizione dei compiti tra autorità centrale e altre autorità (2).
Ogni ricerca sul futuro economico di un'area non può non partire da un confronto tra sviluppo economico e sviluppo demografico, respingendo il pensiero che, ove esista uno scarto rilevante tra le due previsioni, sia lecito ammettere che esso possa essere solo o anche prevalentemente superato con movimenti di emigrazione, se le forze di lavoro eccedono nell'area le possibilità d'impiego, e di immigrazione se sono ad esse inferiori. Certo, la ricerca da parte delle forze di lavoro delle più convenienti opportunità di impiego determina una certa loro mobilità territoriale; e ciò è indice di equilibrato progresso, non solo economico. Se però la mobilità è a senso unico e costituisce la condizione che più concorre a dare un'occupazione alle forze di lavoro dell'area meno sviluppata, un'azione deve essere intrapresa affinché sia lo sviluppo dell'area e non l'emigrazione a dare le maggiori possibilità di lavoro. Ciò tanto più s'impone nel caso del Mezzogiorno, dato che in quest'area si localizza oltre il 60 per cento dell'aumento della forza di lavoro italiana.
Va notato - sottolinea Saraceno - che fu partendo da questa impostazione che nel 1946 si diede vita alla Svimez, nell'ipotesi, rivelatasi poi infondata, che le aree di immigrazione avrebbero col tempo, nel loro interesse, accolto questa impostazione. Secondo valutazioni Svimez, nel decennio 1982-91 la popolazione del Mezzogiorno passerà da 19,4 a 20,5 milioni, con un aumento di 1,1 milioni. Poiché la popolazione del Nord dovrebbe diminuire da 36,7 a 36,3 milioni, la popolazione del Paese aumenterà nel decennio di poco meno di 700 mila unità, passando da 56,1 a 56,8 milioni. L'incremento della forza di lavoro nel decennio si valuta in 900 mila unità, di cui 650 mila nel Sud e 250 mila nel Nord. Il previsto aumento delle forze di lavoro, superiore a quello della popolazione, si spiega con l'ipotesi di tendenziale innalzamento dei tassi di attività femminili e con la modificazione della struttura per età della popolazione, dato che acquisteranno maggiore peso relativo le classi cui corrispondono tassi di attività più elevati.
Quanto alla domanda di lavoro del decennio, va considerato anzitutto che del milione e 700 mila unità in cui si valuta oggi la disoccupazione italiana, 900 mila si ritiene risiedano nel Nord e 800 mila nel Sud - troppe, queste ultime, date le proporzioni con cui la popolazione italiana si ripartisce tra le due aree -; va poi tenuto conto del fatto che gli occupati in agricoltura sono il 9 per cento del totale nel Nord e il 25 per cento nel Sud; l'esodo dal settore primario continuerà ancora in alcune aree meridionali. Sono poi da considerare altre componenti della domanda di lavoro che si avrà nel Sud nel corso del decennio. Vi è la perdita di posti di lavoro dovuta alla conversione industriale in corso in tutti i Paesi dell'Occidente e non automaticamente compensata da nuove iniziative suscitate dal sistema. Si tratta di un fenomeno ovviamente coinvolgente l'intero Paese. La capacità di sostituzione posseduta dal mercato, però, è - com'è noto - molto minore nel Mezzogiorno. Sono infine da mettere nel conto il fenomeno delle immigrazioni dall'estero, finora poco chiarito nella sua natura e nelle sue dimensioni, e il possibile rientro di emigrati dall'estero, eventualità da tenere presente nei riguardi del solo Sud. D'altro canto, ci sarà in ogni caso una certa migrazione dal Sud al Nord.
Per quanto riguarda l'occupazione, quindi, c'è sempre una notevole differenza tra la situazione del Nord e quella del Mezzogiorno. Mentre nel Nord c'è oggi solo un problema la creazione di posti di lavoro sostitutivi di quelli che possono venire a cessare (al che si può però far fronte anche diminuendo e al limite cessando l'immigrazione, restando sempre al Sud il ruolo di riserva di forza di lavoro a servizio del Nord), nel Mezzogiorno vi è anche una necessità di aumentare il numero dei posti di lavoro, un aumento che può valutarsi, considerando le varie componenti su indicate, nell'ordine di 1.500.000 unità (3). Questo dato consente di sintetizzare il grande mutamento intervenuto nel nostro Paese nel periodo trascorso dopo l'inizio dell'intervento straordinario; nel 1954, allorché, nella fase iniziale dell'intervento, si procedette alla formulazione dello Schema Vanoni, si valutò in quattro milioni il numero dei posti da creare in un decennio, partendo da una base produttiva extra-agricola che dava lavoro a 12,2 milioni di unità (4). Nel 1980, con una base produttiva extra-agricola che dà lavoro a 18 milioni di unità, l'obiettivo in posti di lavoro da creare in un ideale programma nazionale di durata decennale sarebbe, come indicato sopra, di un milione e mezzo di unità.
Appare dai dati ora esposti che il rapporto tra posti di lavoro che ci si propone di creare e posti di lavoro non agricolo posseduti dalla base produttiva esistente è passato dal 36 per cento negli anni dello Schema Vanoni (cioè all'inizio dell'intervento straordinario) a poco meno del 10 per cento di oggi. Ciò significa che con un allargamento relativamente limitato che si potesse ottenere nel prossimo decennio nell'occupazione non agricola, s'intende a livelli moderni di produttività, e supposto che questo allargamento fosse ottenuto nella massima parte nel Sud, si conseguirebbe il duplice risultato, di portata veramente storica, di aver costituito un capitale produttivo sufficiente per conseguire nel Mezzogiorno un tasso di occupazione europeo, normalizzando per di più la produttività del lavoro agricolo rispetto a quella del lavoro extra-agricolo. Se invece la ipotizzabile creazione di posti di lavoro avesse luogo in proporzioni rilevanti nel Nord e riprendessero così i movimenti migratori, si renderebbe necessario pensare all'assetto da dare alle aree che, a seguito dell'esodo, resterebbero prive di forza di lavoro utilizzabile e con un divario sensibile rispetto al resto del Paese. Questo tema sarà ripreso fra poco, trattando delle differenze di livelli di sviluppo rilevabili oggi nel Sud (5). E' fin troppo noto che aumenti nel numero dei posti di lavoro extraagricoli sono oggi più difficili da ottenere che negli anni in cui fu avviato l'intervento straordinario. Vediamo perché.
Che con il 1974 si sia aperta una nuova fase economica è indicato da una considerazione degli elementi che hanno generato e poi sostenuto nell'Occidente europeo l'espansione economica avutasi nel venticinquennio seguìto al termine, intorno al 1950, della ricostruzione postbellica. Quegli elementi sono tutti cessati senza possibilità di ripristino. Elenchiamo i più rilevanti:
1) disponibilità pressoché illimitata di forze di lavoro, grazie a immigrazioni dalle aree non industrializzate; bassa conflittualità e relativamente basso costo del lavoro;
2) formazione del Mec e insorgere di nuove convenienze a investire create dalla caduta delle protezioni doganali tra gli Stati membri della Comunità; 3) espansione del commercio mondiale a condizioni convenienti per i Paesi di antica industrializzazione;
4) progresso tecnologico intenso, che però non ha impedito l'aumento dell'occupazione; a creare le difficoltà del periodo successivo al 1973 hanno concorso soprattutto i seguenti quattro elementi:
a) avvio della questione energetica;
b) aumento rapido delle esportazioni industriali da parte dei Paesi cosiddetti di "nuova industrializzazione", Paesi designati ora con la sigla NIC (Newly industrialised countries) (6); ai nostri fini, a questo gruppo di Paesi può essere associato il Giappone;
c) intensificazione del progresso tecnico in una misura che, in presenza del rallentamento dei ritmi di crescita, determina disoccupazione;
d) inflazione.
Il nuovo corso dell'economia mondiale inizia nel '74 per effetto di quello che doveva poi chiamarsi il "primo choc petrolifero"; ad esso doveva seguirne un secondo, nel '79-80. Ognuno di essi dà luogo a due urti sull'equilibrio esistente, uno sulla bilancia dei pagamenti, l'altro sugli investimenti di vario ordine, che vengono effettuati per contenere la domanda di prodotti petroliferi. Le azioni volte a superare i due squilibri si risolvono in riduzione di consumi, in aumenti della produttività e, nella misura in cui ciò sia insufficiente, in inflazione. Dal primo choc petrolifero i Paesi industrializzati si erano in qualche modo ripresi per quanto riguarda il riequilibrio dei loro rapporti con l'estero; restavano invece aperti tutti i problemi non a breve termine suscitati dalla necessità di adattamento generato per tutte le economie importatrici di petrolio dalla nuova situazione dei prezzi, massimo tra essi quello del finanziamento degli investimenti richiesti dalla costituzione di nuove fonti di energia. Non così per il secondo choc, molto recente, ma secondo alcuni anche molto più duro.
In tema di energia si è però determinata, nel corso del settennio trascorso, una situazione notevolmente diversa da quella che rese possibili le ben note decisioni prese in passato, in fatto di prezzi, dal gruppo dei massimi Paesi petroliferi. Hanno infatti agito e continueranno ad agire tre ordini di fattori riequilibranti: l'aumento, reso conveniente dai maggiori prezzi, della capacità di produzione petrolifera posseduta da altri Paesi; lo sviluppo delle produzioni da fonti alternative; la riduzione di consumi, a parità d'impiego, determinata dalla loro razionalizzazione. Non consideriamo ovviamente le riduzioni temporanee di domanda dovute, come l'attuale, a sfavorevoli congiunture. Vi è poi il fatto che, ai livelli di prezzo raggiunti oggi dal petrolio, vi è non solo la necessità, ma anche la convenienza di agire nelle tre direzioni ricordate: aumento della produzione petrolifera, sviluppo di fonti alternative, razionalizzazione dei consumi. Tale convenienza non deriva solo da confronto di costi, ma anche dalla circostanza che la formazione di fonti alternative si risolve in creazione di posti di lavoro e in miglioramento della bilancia dei pagamenti, due svolgimenti di grande interesse nella fase di sviluppo economico che si è ora aperta. Sembra quindi dover prevalere l'opinione che altri choc, violenti come i due già sofferti, non dovrebbero prodursi tanto presto e che i fattori riequilibranti che continueranno ad agire potrebbero in ogni caso renderli sempre meno probabili. In tal caso la questione energetica perderebbe una buona parte della drammatica incertezza con cui si è presentata a fine '73, ovviamente restando sempre in essere l'impegno da essa suscitato in tema di investimenti; si tratta di un impegno molto rilevante non solo per il suo ammontare, ma anche perché l'energia ottenuta da ciascun Paese dalle varie fonti sostitutive del petrolio, specie l'energia nucleare, può essere prodotta in frequenti casi a costi minori di quella da petrolio. Per di più, il costo medio dell'energia disponibile in ciascun Paese può essere diverso, a parità di altre condizioni, a seconda delle proporzioni con cui le varie fonti concorrono a formare tale disponibilità. Si comprende così come il prezzo dell'energia costituirà un elemento di rilievo della situazione concorrenziale che si stabilirà tra le industrie dei Paesi esportatori.
Passiamo ora al secondo elemento di difficoltà che è insorto in seguito all'aumento delle esportazioni industriali dei NIC e della politica di esportazione seguita dal Giappone. Il modello di sviluppo di questi Paesi - che chiameremo Paesi industrializzati del Terzo Mondo - riflette il fatto che ogni progresso economico si risolve per quei Paesi in aumento di importazioni a saggi che sono il doppio e anche più del saggio del prodotto interno. Sviluppo vuoi dire infatti maggiore domanda di cibo, di materie prime, di beni strumentali, domanda che nei Paesi di nuova industrializzazione solo per una parte, in genere piccola, può essere soddisfatta dalla. produzione interna; piccola è poi anche la parte dei beni da importare, che può essere pagata con il ricavo di prestiti internazionali, quando questi prestiti vengono concessi. Nei modelli di sviluppo dei Paesi in questione si deve quindi dare una priorità assoluta all'acquisizione, con esportazioni, di un ammontare crescente di mezzi di pagamento dall'estero, pena, in caso d'insuccesso, la contrazione brusca e anche l'arresto dei loro programmi. E' nell'esportazione dei prodotti industriali che questi Paesi cercano e ancor più cercheranno la soluzione dei loro problemi con interventi sui costi e sui prezzi non riconducibili a relazioni tra costi e prezzi, quali sono quelle che in complesso ancora regolano i comportamenti di mercato dei Paesi occidentali.
Nei riguardi di esportazioni fatte a prezzi non sopportabili dal livello e dalla struttura dei costi dell'Occidente industrializzato, lo strumento protezionistico non sembra possa essere sistematicamente utilizzato. E non tanto perché sarebbe in contraddizione con il proposito espresso, da anni in tante sedi, dai Paesi ad alto reddito di voler favorire lo sviluppo dei Paesi a minore reddito; vi è anche da considerare che la crescita dei Paesi industrializzati del Terzo mondo, insieme a quella dei Paesi esportatori di petrolio, dovrebbe creare vasti mercati per la produzione manifatturiera dei Paesi che, come il nostro, sono di più antica industrializzazione. Una protezione nei riguardi di quelle produzioni non sarebbe quindi neppure conveniente. Le vie aperte a quei Paesi sono allora altre due: porsi in grado, aumentando la produttività del sistema produttivo esistente, di sostenere la concorrenza dei nuovi venuti; oppure passare a nuove produzioni che, in quanto a più alta tecnologia, non sono soggette a quella concorrenza. Ora, i mutamenti intervenuti nella composizione delle esportazioni dei Paesi di antica industrializzazione sembrano indicare che la seconda strada è percorribile e che per i Paesi a più alto reddito rappresenta anzi l'elemento determinante ai fini del conseguimento di ulteriori progressi rispetto ai livelli di reddito già raggiunti.
Il posto che nei prossimi anni prenderanno i NIC e il Giappone sul mercato internazionale della produzione manifatturiera è peraltro piuttosto controverso: si farà più aggressiva la loro presenza, o avranno essi pure, o parecchi di essi, difficoltà e anche regressi? I NIC si porteranno rapidamente su posizioni tecnologicamente molto avanzate seguendo l'esempio del Giappone, oppure resteranno a lungo su produzioni di livello tecnico non elevato? (7). Al numero oggi non grande di NIC si aggiungeranno altri? Queste incertezze riguardano però solo il breve, e in qualche misura, il medio termine; in una prospettiva decennale, com'è la nostra, sembra di poter prevedere che la presenza sui mercati mondiali dei Paesi in questione sarà nel complesso crescente, specie se farà buoni progressi la riorganizzazione del mercato internazionale dei capitali; e dalla capacità di reazione dei Paesi di antica industrializzazione all'insieme di questi fenomeni dipenderà, a lungo andare, il loro livello di reddito. Questa prospettiva comporta gravi impegni, ma non manca di aspetti positivi; per la prima volta nella storia si va costruendo un mercato veramente mondiale, la cui dimensione apre possibilità di avanzamento, possiamo dire, a tutti i Paesi dotati di un'industria capace di progresso. L'interesse per un simile svolgimento è poi accresciuto dal relativo ristagno delle economie dei Paesi di antica industrializzazione e dall'emergere tra essi di concorrenze e di reciproci protezionismi. Ciò significa che è fuori dall'Europa che vengono oggi i maggiori impulsi allo sviluppo industriale. Ed è in riferimento a questo grande quadro che va considerato anche il problema meridionale.
Quanto alla intensificazione del progresso tecnologico rispetto a quello già rilevante avutosi prima del '74, (terzo dei mutamenti indicati in principio), si riconosce generalmente che su questo terreno il nostro Paese si trova in notevole ritardo: il recupero di quei ritardi si presenta in sostanza come il problema di far conseguire al sistema produttivo esistente una struttura più vicina a quella degli altri Paesi di antica industrializzazione. Non sembra però che sia stato preso in considerazione il fatto che il fenomeno ora in esame comporta anche l'identificazione dei modi con cui, nella nostra situazione, può continuare l'industrializzazione del Sud. Non si può certo pensare che produzioni da abbandonare al Nord, perché non suscettibili di essere rese competitive, possano essere avviate al Sud e, in generale, non si può fare affidamento, per la soluzione della questione meridionale, sullo sviluppo di produzioni tradizionali. Si darebbe così vita a un nuovo tipo di dualismo (8).
Veniamo ora alla quarta, grave difficoltà che incontra il progresso economico dei Paesi dell'Occidente europeo: l'inflazione.
Già negli anni lontani dell'inflazione post-bellica, le ricerche della Svimez misero in rilievo che la società meridionale è, nel nostro Paese, la maggior vittima dell'inflazione. Ciò per due motivi: in primo luogo, vi è il maggior valore che la componente "spesa pubblica" assume nell'economia meridionale; l'ammontare delle risorse destinate a tale spesa non è ovviamente presidiato dalla scala mobile; e in tempo di inflazione il suo valore reale inevitabilmente diminuisce. Vi è, in secondo luogo, li fatto che l'ammontare dei redditi personali fissi (stipendi e pensioni soprattutto) assume nel Sud una proporzione più elevata che nel Nord. Infine, per le aree meno sviluppate la difesa del valore economico dei patrimoni personali è più difficile che nelle aree sviluppate; e quando questa difesa può essere ottenuta, in gran parte essa si risolve in un trasferimento di capitali verso le aree ricche; in queste, invece, sono rilevanti i profitti da inflazione. In conclusione, in tempo d'inflazione si mette in moto un insieme di forze che determinano un aumento del divario; per converso, la diminuzione del saggio di inflazione è fattore che concorre alla sua riduzione.
Quanto ai rapporti intercorrenti tra politiche antinflazionistiche e entità del divario, ci imbattiamo di nuovo in un mutamento molto rilevante rispetto alla fase iniziale dell'intervento straordinario. A quel tempo un'azione antinflazionistica si esauriva, se sorretta da una decisa volontà politica entro un breve periodo. Si ricordi l'intervento effettuato nel nostro Paese nel 1947, che in pochi mesi ricondusse il dollaro da oltre 900 a 625 lire, essendosi superata, in quei mesi, anche l'inevitabile crisi di stabilizzazione; altri numerosi casi del genere si potrebbero ricordare in molti Paesi a partire dal primo dopoguerra, cioè dall'inizio stesso di quella tormentata fase dell'economia mondiale che è caratterizzata dal manifestarsi delle inflazioni e in genere dell'incertezza monetaria.
Le politiche antinflazionistiche di oggi devono invece svolgersi in modo diverso; il loro successo può essere ottenuto solo modificando condizioni fondamentali di un tipo di processo di sviluppo che comporta inflazione. Per ottenere tali modifiche occorre operare in tre direzioni: contenere l'aumento della spesa pubblica; ottenere determinati comportamenti della forza sindacale; aumentare la produttività di determinate sezioni del sistema. Oggi, dunque, si deve operare non tanto sul terreno monetario, quanto su quello delle scelte politiche. Contenere la spesa pubblica significa effettuare scelte tra settori cui sì devono chiedere determinati sacrifici: assistenza sanitaria, o istruzione, o difesa, o protezione di determinate categorie di cittadini, eccetera. Si potrebbe forse dire che, paradossalmente, in una fase della storia del pensiero economico che si caratterizza per l'importanza che viene data alla questione monetaria, sembra ci si sia ridotti al punto che operando sulla moneta non si riesce a risanare neppure la moneta. Una simile azione in genere non ha pieno successo in tutte le direzioni in cui viene inizialmente avviata e in ogni caso richiede del tempo. E infatti per conseguire il risanamento monetario, si redigono piani a medio termine che sono denominati "piani antinflazionistici" o "di rientro dell'inflazione", o in altro modo, ma che altro non sono che i particolari piani di sviluppo richiesti dal fatto che è menomata, o addirittura caduta, la condizione prima di un durevole sviluppo: la stabilità monetaria.
Come si colloca in un simile quadro l'azione meridionalistica, e in particolare l'intervento straordinario? Per dare risposta a questo interrogativo occorre partire da un giudizio di ordine politico che l'esperienza ci dice non essere facilmente recepibile nel nostro Paese: si tratta del fatto che la spesa destinata al Sud, e quindi anche quella relativa all'intervento straordinario, dato il tipo di divario esistente a data la necessità di evitare che esso produca tensioni intollerabili, è una spesa che sarà sempre meno governabile dalle autorità di governo, ove il divario non diminuisca in modo deciso, quanto meno nelle aree nelle quali esso è più rilevante (9). La spesa pubblica, anche quella corrente, non potrà quindi essere facilmente diminuita; essa potrà però essere qualificata orientandola allo sviluppo; e se si avrà, poi, riduzione del divario, significherà che la spesa, razionalizzata, si è per una certa quota convertita da spesa per assistenza in spesa che produce gli effetti di un investimento; in tal caso essa si classifica tra le spese dirette ad aumentare la produttività del sistema.
Questa posizione del meridionalismo, secondo la quale la spesa per il Sud, se svolta razionalmente, è investimento e non assistenza, ha oggi maggiori probabilità di essere accolta dal pensiero politico ed economico dei Paesi industrializzati, e quindi anche da noi. Nella situazione che si è delineata nell'economia mondiale dopo il 1973, è andato guadagnando favore il pensiero che è all'offerta e non alla domanda che va dato il sostegno della politica economica. A questo riguardo va osservato che solo nella breve fase seguita alla fine della guerra, quando nei Paesi di antica industrializzazione vi erano molti disoccupati e, insieme, impianti inattivi, si giustificava una politica di sostegno della domanda, così come, tra le due guerre, era giustificata dalla vasta disoccupazione e dalla rilevanza di capitale industriale inutilizzato. Nel dopoguerra, raggiunta una situazione di pieno impiego, il sostegno della domanda, al quale, si badi bene, concorreva anche l'azione sindacale, non poteva che promuovere immigrazioni dalle aree sottosviluppate e quindi aggravare in quelle aree le situazioni appunto di sottosviluppo. Un tale svolgimento è osservabile anche nel nostro Paese, se si considerano l'entità del flusso migratorio che si è svolto dal Sud al Nord" e il permanere della questione meridionale in un periodo in cui il prodotto nazionale si accresceva con una intensità che non aveva precedenti. Il meridionalismo, con la proposta dell'intervento straordinario, con lo Schema Vanoni, con la richiesta di utilizzo dei tre strumenti dell'incentivo a investire, del credito agevolato e dell'impresa a partecipazione statale, si è, dal dopoguerra, mosso sulla linea dell'offerta, assumendo cioè le posizioni prese poi in tutti i Paesi poveri.
Questa confluenza sulla linea dell'offerta, intesa come adeguamento e potenziamento della struttura produttiva, cui i Paesi ad alto reddito sono stati costretti dagli effetti prodotti sull'economia mondiale dagli choc petroliferi e dall'affermarsi dei NIC, potrebbe però risolversi nel nostro Paese in una concorrenza tra Nord e Sud di cui è facile prevedere l'esito. Ciò potrà evitarsi solo se il modello di sviluppo che da oltre un secolo, cioè dall'unificazione politica in poi, governa la nostra economia, verrà modificato nel senso di considerare l'esistenza dei divari come il massimo dei nostri problemi.
Dopo la fine dell'ultimo conflitto, determinati aumenti del prodotto nazionale sono stati a lungo, anche nei programmi di governo, punti di partenza di ogni discorso in tema di sviluppo. Ancora una volta, a tale proposito, lo Schema Vanoni può essere utilmente ricordato. Si ritenne allora che per il decennio 1955-64 si poteva ipotizzare con fondamento un saggio annuo di aumento del prodotto del 5 per cento. Giova ora precisare che una simile previsione né fu il risultato di complesse elaborazioni, né sollevò grandi incertezze o apprezzabili divergenze in coloro che la effettuarono. Eppure, non vi erano precedenti, anche fuori del nostro Paese, di un progresso tanto intenso per un periodo così lungo. Va aggiunto che non si ebbero in quel decennio particolari politiche ispirate al conseguimento del saggio annuo indicato nello Schema; eppure, al termine del decennio risultò che, nel periodo, il saggio medio di aumento del prodotto era stato del 5,5 per cento.
Tutto ciò indica che un saggio medio annuo del 5 per cento era senza molte difficoltà deducibile da una attenta osservazione della situazione di quel periodo. Lo Schema, che nasce nell'ambiente meridionalistico della Svimez, era in sostanza un avvertimento, che le circostanze successive dovevano mostrare molto fondato, inteso a far presente che per la nostra economia si era iniziato un periodo eccezionalmente favorevole e che, di conseguenza, opportunità senza precedenti si sarebbero offerte per avviare e portare decisamente avanti la riduzione del divario Nord/Sud. Un alto ritmo di aumento del reddito si produsse del resto anche in altre economie industrializzate; non vi fu quindi miracolo economico; un miracolo si sarebbe avuto se, in quello slancio dell'economia di cui beneficiavano tutti i Paesi industrializzati, si fosse inserita nel nostro Paese una decisa e conseguente politica meridionalistica (11).
La riconsiderazione dell'esperienza dello Schema Vanoni, che risale ai primi anni dell'intervento straordinario, mostra quanto grande sia il mutamento intervenuto rispetto a quel tempo. Adottare schemi di ragionamento quale quello ora esposto è impensabile nella situazione attuale. Nella nuova normalità, che si è delineata dopo il 1973, tutto quanto le politiche economiche possono cercare di ottenere nel perseguimento dei loro programmi è di trarre il maggior beneficio possibile, ovvero di ridurre il più possibile i danni, di accadimenti esterni che profondamente incidono sull'economia del Paese, ma che non sono né prevedibili, né influenzabili, operando nello stesso tempo per il contenimento dell'inflazione. La massimizzazione del prodotto continuerà, ovviamente, a orientare tutte queste azioni con un risultato, in termini appunto di prodotto, che è quello, non prevedibile, che è consentito dal sovrapporsi di diverse azioni. Previsioni sull'andamento del prodotto non sono dunque possibili neppure a breve termine. Vi è però un procedimento che è applicabile nei processi decisionali che si svolgono nelle condizioni ora descritte; esso consiste nella valutazione degli estremi entro i quali l'aumento del prodotto può ragionevolmente collocarsi e nel considerare i diversi sviluppi che, tra questi estremi, possono aver luogo.
Quanto ai valori che nell'arco decennale possono essere attribuiti ai due estremi, va considerato che i due grandi cambiamenti - aumenti del prezzo del petrolio e intensità del progresso industriale di alcuni Paesi extra-europei (12) - che hanno tanto sconvolto l'economia mondiale, dovrebbero dar luogo a una rilevante e durevole espansione della domanda di importazione di prodotti industriali. Come abbiamo già detto (13), i mercati dei Paesi dell'Occidente europeo, che a suo tempo fornirono impulsi tanto rilevanti alla nostra espansione industriale, possono invece offrire solo uno sbocco di proporzioni minori rispetto a quelle del passato. In Europa la nostra Industria troverà protezionismi, più che ulteriori integrazioni. Per di più, i Paesi europei saranno tra i nostri più temibili concorrenti sui mercati extra-europei nell'offerta di prodotti di alta tecnologia, che per un volume crescente saranno richiesti, presumibilmente, nei prossimi anni.
Comunque, pur nel declino del mercato europeo, il volume complessivo del commercio internazionale dei prodotti industriali dovrebbe accrescersi - anche se, è da ritenere, ad un ritmo meno intenso di quello degli anni precedenti il '74 - soprattutto dopo superate le conseguenze del secondo choc petrolifero; crisi nei singoli Paesi esportatori di prodotti industriali saranno quindi conseguenze non tanto di mancanza di sbocchi, quanto di insufficiente capacità di acquisizione di quote di un mercato che sarà in espansione.
Ciò premesso, quanto al futuro aumento del nostro prodotto interno, sia l'esperienza compiuta nei sette anni trascorsi dal primo choc petrolifero, sia la natura dei problemi che più impegnano oggi l'Occidente europeo fanno ritenere plausibile l'ipotesi che tale saggio non possa aumentare, nel decennio 1982-91, a un saggio in media superiore al 4 per cento. Esso, però, non dovrebbe neppure diminuire rispetto ai livelli attuali. Quali aumenti di occupazione si possono attendere da svolgimenti compresi tra questi due estremi? Data la situazione di concorrenza in cui sarà posto il nostro Paese, per rispondere a questo interrogativo dobbiamo considerare prima i vincoli che ci sono posti dalle questioni di produttività.
Nel settennio 1974-80 la produttività del sistema è aumentata nel nostro Paese al saggio medio del 2 per cento. L'aumento fu lievemente inferiore (1,8 per cento) nel Sud. Questo saggio è rilevabile, in media, anche nel complesso degli altri Paesi Cee. Per la Francia il saggio fu del 2,5 per cento, e per la Germania Federale del 3 per cento. Poiché nel complesso dei Paesi Cee. Per la Francia il saggio fu del 2,5 per cento, e per la Germania Federale del 3 per cento. Poiché nel complesso Cee l'occupazione non è certo aumentata, si può in prima approssimazione ritenere che il che efficienti, il divario, anziché diminuire, aumenti. Il fatto che vi siano ora, all'interno del Sud, divari tanto rilevanti, legittima il timore che in tale eventualità il ritardo non si presenterà diffuso in tutto il Mezzogiorno, ma si concentrerà nelle aree, che, secondo i dati su indicati, più devono progredire. E va anche detto che oggi, come a111nizio dell'intervento straordinario, è solo l'occupazione industriale che può portare a soluzione il problema di quelle aree (16). Il resto conta poco.
In conclusione, è solo in un intenso aumento di produttività che va comunque ricercato - in una prospettiva certo non di breve e medio periodo - quell'aumento dei posti di lavoro che, se gestito in modo diverso da quello degli anni del miracolo, può portare a soluzione la questione meridionale. Se ben si riflette, questo obiettivo si impone ancor più che in passato. Non si può infatti pensare a un futuro della nostra società nel quale la parte più estesa del Paese continui a progredire ai ritmi elevati dell'industria europea, mentre una parte minore non sia neppure in grado di progredire su posizioni verso cui si muovono in questi anni Paesi che noi oggi giudichiamo arretrati. Nella situazione odierna, il permanere indefinito del dualismo, come è avvenuto fino a questo momento, si deve ritenere politicamente impossibile.
Vediamo ora come si presenta l'economia del Sud di fronte a simili prospettive.
Per effetto dei profondi mutamenti intervenuti nell'area meridionale nel corso del trentennio di intervento straordinario, si sono determinati all'interno dell'area divari interregionali più rilevanti di quelli esistenti all'inizio dell'intervento. Basti dire che il prodotto delle province meridionali a più alto reddito è del 50 per cento circa più alto di quello delle provincie più povere. Trattare in termini generali un problema del Sud è oggi molto meno giustificato che nella prima fase dell'intervento.
Un'indagine è stata svolta al riguardo dalla Svimez in riferimento alla situazione delle singole province, essendo la provincia risultata la più piccola entità territoriale suscettibile di una giustificativa rilevazione (14). L'indagine ha consentito in primo luogo di costruire una tipologia delle aree componenti il Sud, che ci sembra una buona base di partenza per ulteriori approfondimenti; si sono così identificate sette categorie di aree, riunibili in tre grandi gruppi. Le province meridionali sono state poi ripartite tra le sette categorie. E' risultato questo quadro:

Il primo gruppo comprende tre categorie: la prima include le province il cui prodotto lordo è più elevato e il cui progresso industriale è, nel complesso, continuato anche dopo il primo choc petrolifero; le aree della seconda categoria si caratterizzano per la presenza di unità produttive di maggiore dimensione e quindi per un certo rallentamento che negli scorsi anni si è prodotto in un tipo di progresso che era stato incentivato dagli investimenti appunto in grandi impianti. Nella terza categoria, infine, figurano province il cui prodotto è inferiore a quello delle province incluse nelle prime due categorie, ma nelle quali in epoca più recente si è delineato un vivace processo di sviluppo. Queste tre categorie possono formare il gruppo di province nelle quali il cosiddetto "decollo" si può dire avvenuto; se ulteriori indagini dovessero confermare questo giudizio, noi ci troveremmo in presenza di un'area nella quale vive il 23 per cento della popolazione meridionale e nei cui riguardi hanno perso gran parte della loro validità i discorsi fin qui fatti in riferimento a una generica "realtà Sud". Basti dire che il prodotto pro-capite vi ha raggiunto livelli mediamente superiori all'80 per cento di quelli delle province non meridionali confinanti con il Mezzogiorno, le quali non vengono certo incluse tra le aree da sviluppare. Si tratta pur sempre di aree in corso di sviluppo e che richiedono quindi di essere ancora oggetto della politica meridionalistica; tale politica dovrà però avere connotazioni vicine a quelle tipiche delle aree industrializzate.
Il secondo gruppo, costituito dalle aree metropolitane, ha un quinto della popolazione meridionale nella sola Napoli, con problemi di fondo aggravati dal sisma del novembre '80. Nel terzo gruppo, le province con il 44 per cento della popolazione del Sud, e nelle quali i divari sono marcatamente accentuati. La Calabria, com'è noto, fa storia a sé.
In questo quadro, colpisce anzitutto la grande varietà delle situazioni nei cui confronti deve ora svolgersi l'intervento straordinario, varietà che l'ulteriore sviluppo economico tenderà ad accentuare, in mancanza di adeguate azioni riequilibratrici. Le aree del primo gruppo possiedono le condizioni necessarie per ulteriori progressi. Basti pensare che alcune di esse sono diventate aree di immigrazione. Per le aree del terzo gruppo è da temere che una simile prospettiva non esista. Poi, il futuro delle aree caratterizzate dalla presenza di grandi impianti - quelle per le quali venne coniata l'immagine della "cattedrale nel deserto" (15) - dipende in notevole misura dall'evolversi della crisi delle produzioni svolte da quegli impianti e dai criteri con cui la crisi sarà gestita in sede comunitaria e in sede nazionale.
Occorre però sottolineare che la estesa differenziazione che oggi è possibile fare tra le aree componenti l'economia meridionale è pur sempre un indice di rilevanti progressi compiuti in trent'anni di intervento straordinario. Il progresso è stato tuttavia determinato più dall'impeto dello sviluppo avvenuto nel periodo che dalle politiche che si sono svolte. Se a saggi di crescita così intensi si fosse unita una più decisa opzione meridionalista, il divario Nord/Sud oggi sarebbe minore e soprattutto minori sarebbero gli squilibri interni all'area meridionale. L'epoca dello sviluppo spontaneamente impetuoso sembra però tramontata. Nella nuova fase, apertasi dal '74, il progredire economico è divenuto più lento e al tempo stesso più difficile da gestire. Vi è quindi il rischio che, in assenza di politiche efficienti, il divario, anziché diminuire, aumenti. Il fatto che vi siano ora, all'interno del Sud, divari tanto rilevanti, legittima il timore che in tale eventualità il ritardo non si presenterà diffuso in tutto il Mezzogiorno, ma si concentrerà nelle aree, che, secondo i dati su indicati, più devono progredire. E va anche detto che oggi, come all'inizio dell'intervento straordinario, è solo l'occupazione industriale che può portare a soluzione il problema di quelle aree 16. Il resto conta poco.


NOTE:
1) Un tentativo di rendiconto è in atto presso la Svimez con l'indagine sul tema "Trent'anni di intervento straordinario attraverso i bilanci della Cassa per il Mezzogiorno". I trenta bilanci sono stati classificati secondo un unico schema e i valori così determinati sono stati convertiti in lire 1980; viene ora iniziato l'esame della gestione dell'insieme del trentennio, cui seguirà una ricerca più approfondita su ciascuno dei quattro periodi delimitati dalle scadenze delle leggi di proroga dell'intervento.
2) Emblematica della "necessaria" mutevolezza delle norme che regolano l'intervento è la recente vicenda legislativa, relativa a una disciplina organica degli interventi in favore dei territori colpiti dal sisma del novembre '80. In sede di conversione in legge del DL 1981, n. 75, recante ulteriori interventi pubblici per le zone terremotate, il Parlamento ha proceduto infatti a una radicale trasformazione di tutto l'assetto, normativo e istituzionale, delle misure adottate in precedenza. Di rilevante importanza, sotto tale profilo, le norme (80-84 della legge 14 maggio 1981, n. 219) relative all'intervento statale per l'edilizia a Napoli. Si tratta di un complesso di norme radicalmente innovatrici, che, sotto il profilo dell'unificazione delle competenze e della semplificazione delle procedure, nonché sotto quello della celerità di esecuzione, fanno assumere ad un programma straordinario di edilizia residenziale per la costruzione nell'area metropolitana di Napoli di 20.000 alloggi, e delle relative opere di urbanizzazione, di cui è prevista la realizzazione, la natura di "progetto sociale". Basti richiamare, al riguardo, l'attribuzione al sindaco di Napoli e al Presidente della Regione della qualità di "commissari straordinari di governo", i quali, nell'agire in tale veste, "sono soggetti soltanto alle norme di cui al presente Titolo, della Costituzione e dei principi generali dell'ordinamento".
3) A formare il numero 1.500.000 unità indicato nel testo concorre tra le altre, l'ipotesi che il tasso di disoccupazione del Sud si riduca da oltre l'11% del 1980 al 6% alla fine del decennio, tasso pari a quello rilevabile in media oggi nella Cee. Il tasso adottato è ben più alto di quello del 3-4% generalmente accettato in passato quale indice della disoccupazione frizionale; questa variazione è consigliata dalle difficoltà che presenteranno i processi di razionalizzazione che potranno svolgersi nei prossimi anni nei Paesi Cee. Il tasso del 6% corrisponde però ad una valutazione ottimistica delle prospettive di occupazione, diverse fonti indicano, infatti, la possibilità nei prossimi anni di una disoccupazione superiore.
4) Gli addetti all'agricoltura, nel 1954, erano 8 milioni, di cui 3,4 milioni nel Sud, e 4,6 nel Centro-Nord. Nel 1980 erano 2,8 milioni, di cui 1,5 nel Sud e 1,3 nel Centro-Nord. La diminuzione è stata di 5,2 milioni, di cui 1,9 nel Sud e 3,3 nel Centro e nel Nord.
5) Vedi par. 5
6) Nel gruppo dei NIC extra-europei si includono qui Brasile, Messico e Paesi del Sud-Est asiatico. Ad essi sono comunemente aggiunti Spagna, Portogallo, Jugoslavia, Grecia. Ai nostri fini è preferibile considerar solo il complesso dei Paesi extra-europei.
7) Si noti, riguardo a questa alternativa, che sono gli stessi Paesi di antica industrializzazione che, esportando macchinario, favoriscono il sorgere di nuove concorrenze da parte dei Paesi emergenti.
8) Va respinta la categoria di Paesi o di aree "in ritardo" per i quali si renderebbe necessario seguire vie di sviluppo specifiche, in relazione alla loro condizione di aree meno progredite. Ciò che importa è distinguere tra aree, anche a basso reddito, che progrediscono perché stanno appropriandosi tecniche del mondo contemporaneo e Paesi e aree che, pur definibili progrediti fino a ieri, oggi non vi riescono. E la storia contemporanea mostra che Paesi della prima categoria possono essere tutt'altro che in ritardo nell'accogliere le nuove tecniche; in particolare non ritengono, per il fatto di essere agli inizi dello sviluppo, di limitarsi all'agricoltura, all'artigianato e altro, trascurando l'industria. Che senso avrebbe avuto, del resto, chiamare "in ritardo" l'economia giapponese degli inizi del secolo?
9) Vedi par. 6
10) Nel trentennio 1951-80 di intervento straordinario sono emigrati dal Sud 4,7 milioni di persone, di cui 2,9 milioni nel Nord.
11) In base alle considerazioni svolte nel testo, si può quindi dire che il vero obiettivo dello Schema fu l'aumento dell'occupazione e l'avvio deciso dell'industrializzazione del Mezzogiorno; più precisamente, si previde la possibilità di creare quattro milioni di posti lavoro extra-agricoli da localizzarsi nel Centro-Nord, e 0,7 (proporzione inferiore alla popolazione meridionale) nel Sud. Dal Mezzogiorno emigrarono nel decennio 2,4 milioni di persone, di cui 1,3 milioni nel Centro-Nord e 1,1 milioni all'estero. Il divario, anziché diminuire, aumentò, sia pure lievemente. Il saggio di aumento annuo del prodotto che fu, com'è detto, del 5,5%, si ripartì infatti così: nel Centro-Nord 5,8%; nel Sud, 4,8%. Gli investimenti, dovuti in buona parte a reinvestimenti di profitti, si accrebbero in misura rilevante; ma furono destinati ad aumento della produttività degli occupati e non, come richiesto, alla creazione di posti di lavoro per i disoccupati, che in gran parte anche allora risiedevano nel Sud.


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