Ha scritto Pasquale
Saraceno che a partire dal 1974 il primo aumento del prezzo del greggio
e altri fenomeni importanti hanno profondamente e bruscamente modificato
il corso di tutta l'economia mondiale, e soprattutto il sistema di rapporti
in cui hanno luogo l'esercizio e l'espansione delle imprese industriali.
Sette anni sono ormai trascorsi da quel primo evento, aggiunge Saraceno,
e ormai elementi sufficienti sono in nostro possesso per confermarci
"che le rilevanti difficoltà che si sono affrontate dopo
allora e quelle che sono oggi davanti a noi non sono manifestazioni
di una crisi, che, appunto perché crisi, è destinata ad
essere superata per dar luogo a corsi di eventi in qualche modo riconducibili
alle esperienze del passato".
A questo proposito, va tenuto presente che la rinuncia al termine crisi
è un punto rilevante ai fini di una identificazione della politica
meridionalistica: in situazione di crisi i problemi di ordine strutturale
si possono legittimamente accantonare; tale è stata in passato
più volte la sorte della questione meridionale e questo è
da temere possa avvenire anche nel momento attuale. La situazione è
ben diversa, se ci convinciamo che quanto è accaduto dopo il
1973 non costituisce, pur con le sue gravissime difficoltà, una
complicata fase di passaggio verso una situazione definibile di normalità;
una nuova normalità è ormai già cominciata, e in
essa, il più possibile identificata, va gestito l'intervento
straordinario 1982-91.
La presentazione di un disegno di legge che prevede la continuazione
dell'intervento straordinario per un decennio costituisce per Saraceno
un elemento molto positivo nella situazione, sotto tanti aspetti preoccupante,
che presenta oggi l'economia meridionale, "positivo, ci sentiremmo
di aggiungere, indipendentemente dalla soluzione che il Parlamento vorrà
dare alle questioni, certo non di lieve momento, che sulla proposta
di legge sono state sollevate".
Infatti, non ci dovrebbero essere dubbi che sono oggi più che
mai validi i motivi che portarono nel 1950 a creare l'istituto dell'intervento
straordinario; giova ricordarli: in primo luogo, identificare l'ammontare
di risorse da assegnare all'azione nel Mezzogiorno in aggiunta a quelle
dell'azione ordinaria e garantire tale afflusso addizionale di risorse
per un periodo poliennale; secondo, gestire tali risorse in una sede
ad hoc, con procedure più semplici di quelle proprie della Pubblica
Amministrazione; terzo, coordinare in programmi azioni che andavano
svolte in campi diversi.
Perché mai un tipo di intervento così motivato sarebbe
dovuto cessare, come pure è stato proposto? Dopo tutto, rileva
il meridionalista, se si considera nel suo complesso l'azione economica
svolta nel nostro Paese dopo la fine della guerra e il mai cessato dibattito
sul problema della programmazione, non si vede quale altro tipo di azione
pubblica abbia perseguito in concreto e tanto a lungo l'idea di programmazione,
con possibilità di rendiconto che non erano disponibili altrove;
ed è questa una circostanza importante, se è vero che
un programma che non prevede rendiconto scende al livello di messaggio
(1).
Motivo di compiacimento deve poi essere l'idea di riportare a dieci
anni la durata dell'intervento rispetto ai cinque previsti dalle tre
ultime leggi di proroga. Interessa al riguardo auspicare che il decennio
sia inteso nel suo originale significato di durata del periodo per il
quale viene garantito all'azione meridionalistica un determinato afflusso
di fondi e non già del periodo al termine del quale le modalità
dell'intervento vanno in ogni caso poste in discussione, e, inevitabilmente,
mutate, come invece è avvenuto finora. Nella storia delle istituzioni
non vi sono, salvo errore, altri esempi di mutamenti radicali tanto
frequenti del modo di operare di un Ente, come è avvenuto per
la Cassa per il Mezzogiorno; mutamenti che finiscono in qualche modo
per essere spesso errati, dato che, avvenendo a scadenza quinquennale
ed essendo gli obiettivi dell'Ente a lunghissima scadenza, non è
probabile che essi vengano decisi in base a fondate valutazioni politiche
ed economiche degli effetti prodotti dalla legislazione adottata quattro
anni prima, in occasione della precedente proroga. E si dice quattro
anni perché è quanto meno un anno prima della scadenza
che si inizia il dibattito e si cominciano ad avanzare proposte di modifica,
con l'effetto - di indurre uno stato di grande incertezza nella gestione
dell'Ente. Questa incertezza si prolunga poi anche oltre il quinto anno
- e in questa situazione si trova oggi il Sud - se la legge di proroga
non viene approvata prima della scadenza. E così, l'azione straordinaria,
concepita a suo tempo per rendere più rapida e più incisiva
la politica meridionalistica, finisce per non possedere neppure le caratteristiche
proprie dell'azione ordinaria, caratteristiche che pure sono ancora
oggi ritenute insufficienti per condurre in modo coordinato e risoluto
le varie azioni che il Sud pressantemente richiede. Non è quindi
giusto attribuire solo alla natura dei pur gravi problemi meridionali
le insufficienze dell'azione svolta finora.
La lunga esperienza compiuta dovrebbe quindi indurre a ritenere come
caratterizzanti dell'intervento straordinario i seguenti punti:
a) l'intervento straordinario ha durata che solo le vicende dell'azione
meridionalistica possono determinare;
b) le norme che regolano l'intervento non sono certo immutabili, specie
in un mondo come l'attuale, soggetto a frequenti e non prevedibili cambiamenti;
i mutamenti, come del resto anche avviene, vengono fatti quando occorre,
e quindi tra l'una e l'altra proroga; e non si vede perché a
scadenza predeterminata, cioè all'atto della proroga, tutto venga
rimesso in discussione. In altre parole: le leggi di proroga vanno riferite
alle modalità non dell'intervento straordinario, ma del suo finanziamento,
nell'ipotesi plausibile che a regolare le modalità dell'intervento
si sia provveduto quando ciò si è reso necessario.
Ora, non vi è dubbio che, attualmente, questa necessità
si è manifestata; ciò, sia a motivo del gran cambiamento
avvenuto a partire dal 1974 nelle condizioni in cui si svolge lo sviluppo
meridionale (e a questo fenomeno direttamente ci colleghiamo in queste
pagine), sia di nuovi indirizzi emersi nelle norme che regolano la politica
meridionalistica, indirizzi che valgono a dare nuove soluzioni al generale
problema della ripartizione dei compiti tra autorità centrale
e altre autorità (2).
Ogni ricerca sul futuro economico di un'area non può non partire
da un confronto tra sviluppo economico e sviluppo demografico, respingendo
il pensiero che, ove esista uno scarto rilevante tra le due previsioni,
sia lecito ammettere che esso possa essere solo o anche prevalentemente
superato con movimenti di emigrazione, se le forze di lavoro eccedono
nell'area le possibilità d'impiego, e di immigrazione se sono
ad esse inferiori. Certo, la ricerca da parte delle forze di lavoro
delle più convenienti opportunità di impiego determina
una certa loro mobilità territoriale; e ciò è indice
di equilibrato progresso, non solo economico. Se però la mobilità
è a senso unico e costituisce la condizione che più concorre
a dare un'occupazione alle forze di lavoro dell'area meno sviluppata,
un'azione deve essere intrapresa affinché sia lo sviluppo dell'area
e non l'emigrazione a dare le maggiori possibilità di lavoro.
Ciò tanto più s'impone nel caso del Mezzogiorno, dato
che in quest'area si localizza oltre il 60 per cento dell'aumento della
forza di lavoro italiana.
Va notato - sottolinea Saraceno - che fu partendo da questa impostazione
che nel 1946 si diede vita alla Svimez, nell'ipotesi, rivelatasi poi
infondata, che le aree di immigrazione avrebbero col tempo, nel loro
interesse, accolto questa impostazione. Secondo valutazioni Svimez,
nel decennio 1982-91 la popolazione del Mezzogiorno passerà da
19,4 a 20,5 milioni, con un aumento di 1,1 milioni. Poiché la
popolazione del Nord dovrebbe diminuire da 36,7 a 36,3 milioni, la popolazione
del Paese aumenterà nel decennio di poco meno di 700 mila unità,
passando da 56,1 a 56,8 milioni. L'incremento della forza di lavoro
nel decennio si valuta in 900 mila unità, di cui 650 mila nel
Sud e 250 mila nel Nord. Il previsto aumento delle forze di lavoro,
superiore a quello della popolazione, si spiega con l'ipotesi di tendenziale
innalzamento dei tassi di attività femminili e con la modificazione
della struttura per età della popolazione, dato che acquisteranno
maggiore peso relativo le classi cui corrispondono tassi di attività
più elevati.
Quanto alla domanda di lavoro del decennio, va considerato anzitutto
che del milione e 700 mila unità in cui si valuta oggi la disoccupazione
italiana, 900 mila si ritiene risiedano nel Nord e 800 mila nel Sud
- troppe, queste ultime, date le proporzioni con cui la popolazione
italiana si ripartisce tra le due aree -; va poi tenuto conto del fatto
che gli occupati in agricoltura sono il 9 per cento del totale nel Nord
e il 25 per cento nel Sud; l'esodo dal settore primario continuerà
ancora in alcune aree meridionali. Sono poi da considerare altre componenti
della domanda di lavoro che si avrà nel Sud nel corso del decennio.
Vi è la perdita di posti di lavoro dovuta alla conversione industriale
in corso in tutti i Paesi dell'Occidente e non automaticamente compensata
da nuove iniziative suscitate dal sistema. Si tratta di un fenomeno
ovviamente coinvolgente l'intero Paese. La capacità di sostituzione
posseduta dal mercato, però, è - com'è noto - molto
minore nel Mezzogiorno. Sono infine da mettere nel conto il fenomeno
delle immigrazioni dall'estero, finora poco chiarito nella sua natura
e nelle sue dimensioni, e il possibile rientro di emigrati dall'estero,
eventualità da tenere presente nei riguardi del solo Sud. D'altro
canto, ci sarà in ogni caso una certa migrazione dal Sud al Nord.
Per quanto riguarda l'occupazione, quindi, c'è sempre una notevole
differenza tra la situazione del Nord e quella del Mezzogiorno. Mentre
nel Nord c'è oggi solo un problema la creazione di posti di lavoro
sostitutivi di quelli che possono venire a cessare (al che si può
però far fronte anche diminuendo e al limite cessando l'immigrazione,
restando sempre al Sud il ruolo di riserva di forza di lavoro a servizio
del Nord), nel Mezzogiorno vi è anche una necessità di
aumentare il numero dei posti di lavoro, un aumento che può valutarsi,
considerando le varie componenti su indicate, nell'ordine di 1.500.000
unità (3). Questo dato consente di sintetizzare il grande mutamento
intervenuto nel nostro Paese nel periodo trascorso dopo l'inizio dell'intervento
straordinario; nel 1954, allorché, nella fase iniziale dell'intervento,
si procedette alla formulazione dello Schema Vanoni, si valutò
in quattro milioni il numero dei posti da creare in un decennio, partendo
da una base produttiva extra-agricola che dava lavoro a 12,2 milioni
di unità (4). Nel 1980, con una base produttiva extra-agricola
che dà lavoro a 18 milioni di unità, l'obiettivo in posti
di lavoro da creare in un ideale programma nazionale di durata decennale
sarebbe, come indicato sopra, di un milione e mezzo di unità.
Appare dai dati ora esposti che il rapporto tra posti di lavoro che
ci si propone di creare e posti di lavoro non agricolo posseduti dalla
base produttiva esistente è passato dal 36 per cento negli anni
dello Schema Vanoni (cioè all'inizio dell'intervento straordinario)
a poco meno del 10 per cento di oggi. Ciò significa che con un
allargamento relativamente limitato che si potesse ottenere nel prossimo
decennio nell'occupazione non agricola, s'intende a livelli moderni
di produttività, e supposto che questo allargamento fosse ottenuto
nella massima parte nel Sud, si conseguirebbe il duplice risultato,
di portata veramente storica, di aver costituito un capitale produttivo
sufficiente per conseguire nel Mezzogiorno un tasso di occupazione europeo,
normalizzando per di più la produttività del lavoro agricolo
rispetto a quella del lavoro extra-agricolo. Se invece la ipotizzabile
creazione di posti di lavoro avesse luogo in proporzioni rilevanti nel
Nord e riprendessero così i movimenti migratori, si renderebbe
necessario pensare all'assetto da dare alle aree che, a seguito dell'esodo,
resterebbero prive di forza di lavoro utilizzabile e con un divario
sensibile rispetto al resto del Paese. Questo tema sarà ripreso
fra poco, trattando delle differenze di livelli di sviluppo rilevabili
oggi nel Sud (5). E' fin troppo noto che aumenti nel numero dei posti
di lavoro extraagricoli sono oggi più difficili da ottenere che
negli anni in cui fu avviato l'intervento straordinario. Vediamo perché.
Che con il 1974 si sia aperta una nuova fase economica è indicato
da una considerazione degli elementi che hanno generato e poi sostenuto
nell'Occidente europeo l'espansione economica avutasi nel venticinquennio
seguìto al termine, intorno al 1950, della ricostruzione postbellica.
Quegli elementi sono tutti cessati senza possibilità di ripristino.
Elenchiamo i più rilevanti:
1) disponibilità pressoché illimitata di forze di lavoro,
grazie a immigrazioni dalle aree non industrializzate; bassa conflittualità
e relativamente basso costo del lavoro;
2) formazione del Mec e insorgere di nuove convenienze a investire create
dalla caduta delle protezioni doganali tra gli Stati membri della Comunità;
3) espansione del commercio mondiale a condizioni convenienti per i
Paesi di antica industrializzazione;
4) progresso tecnologico intenso, che però non ha impedito l'aumento
dell'occupazione; a creare le difficoltà del periodo successivo
al 1973 hanno concorso soprattutto i seguenti quattro elementi:
a) avvio della questione energetica;
b) aumento rapido delle esportazioni industriali da parte dei Paesi
cosiddetti di "nuova industrializzazione", Paesi designati
ora con la sigla NIC (Newly industrialised countries) (6); ai nostri
fini, a questo gruppo di Paesi può essere associato il Giappone;
c) intensificazione del progresso tecnico in una misura che, in presenza
del rallentamento dei ritmi di crescita, determina disoccupazione;
d) inflazione.
Il nuovo corso dell'economia mondiale inizia nel '74 per effetto di
quello che doveva poi chiamarsi il "primo choc petrolifero";
ad esso doveva seguirne un secondo, nel '79-80. Ognuno di essi dà
luogo a due urti sull'equilibrio esistente, uno sulla bilancia dei pagamenti,
l'altro sugli investimenti di vario ordine, che vengono effettuati per
contenere la domanda di prodotti petroliferi. Le azioni volte a superare
i due squilibri si risolvono in riduzione di consumi, in aumenti della
produttività e, nella misura in cui ciò sia insufficiente,
in inflazione. Dal primo choc petrolifero i Paesi industrializzati si
erano in qualche modo ripresi per quanto riguarda il riequilibrio dei
loro rapporti con l'estero; restavano invece aperti tutti i problemi
non a breve termine suscitati dalla necessità di adattamento
generato per tutte le economie importatrici di petrolio dalla nuova
situazione dei prezzi, massimo tra essi quello del finanziamento degli
investimenti richiesti dalla costituzione di nuove fonti di energia.
Non così per il secondo choc, molto recente, ma secondo alcuni
anche molto più duro.
In tema di energia si è però determinata, nel corso del
settennio trascorso, una situazione notevolmente diversa da quella che
rese possibili le ben note decisioni prese in passato, in fatto di prezzi,
dal gruppo dei massimi Paesi petroliferi. Hanno infatti agito e continueranno
ad agire tre ordini di fattori riequilibranti: l'aumento, reso conveniente
dai maggiori prezzi, della capacità di produzione petrolifera
posseduta da altri Paesi; lo sviluppo delle produzioni da fonti alternative;
la riduzione di consumi, a parità d'impiego, determinata dalla
loro razionalizzazione. Non consideriamo ovviamente le riduzioni temporanee
di domanda dovute, come l'attuale, a sfavorevoli congiunture. Vi è
poi il fatto che, ai livelli di prezzo raggiunti oggi dal petrolio,
vi è non solo la necessità, ma anche la convenienza di
agire nelle tre direzioni ricordate: aumento della produzione petrolifera,
sviluppo di fonti alternative, razionalizzazione dei consumi. Tale convenienza
non deriva solo da confronto di costi, ma anche dalla circostanza che
la formazione di fonti alternative si risolve in creazione di posti
di lavoro e in miglioramento della bilancia dei pagamenti, due svolgimenti
di grande interesse nella fase di sviluppo economico che si è
ora aperta. Sembra quindi dover prevalere l'opinione che altri choc,
violenti come i due già sofferti, non dovrebbero prodursi tanto
presto e che i fattori riequilibranti che continueranno ad agire potrebbero
in ogni caso renderli sempre meno probabili. In tal caso la questione
energetica perderebbe una buona parte della drammatica incertezza con
cui si è presentata a fine '73, ovviamente restando sempre in
essere l'impegno da essa suscitato in tema di investimenti; si tratta
di un impegno molto rilevante non solo per il suo ammontare, ma anche
perché l'energia ottenuta da ciascun Paese dalle varie fonti
sostitutive del petrolio, specie l'energia nucleare, può essere
prodotta in frequenti casi a costi minori di quella da petrolio. Per
di più, il costo medio dell'energia disponibile in ciascun Paese
può essere diverso, a parità di altre condizioni, a seconda
delle proporzioni con cui le varie fonti concorrono a formare tale disponibilità.
Si comprende così come il prezzo dell'energia costituirà
un elemento di rilievo della situazione concorrenziale che si stabilirà
tra le industrie dei Paesi esportatori.
Passiamo ora al secondo elemento di difficoltà che è insorto
in seguito all'aumento delle esportazioni industriali dei NIC e della
politica di esportazione seguita dal Giappone. Il modello di sviluppo
di questi Paesi - che chiameremo Paesi industrializzati del Terzo Mondo
- riflette il fatto che ogni progresso economico si risolve per quei
Paesi in aumento di importazioni a saggi che sono il doppio e anche
più del saggio del prodotto interno. Sviluppo vuoi dire infatti
maggiore domanda di cibo, di materie prime, di beni strumentali, domanda
che nei Paesi di nuova industrializzazione solo per una parte, in genere
piccola, può essere soddisfatta dalla. produzione interna; piccola
è poi anche la parte dei beni da importare, che può essere
pagata con il ricavo di prestiti internazionali, quando questi prestiti
vengono concessi. Nei modelli di sviluppo dei Paesi in questione si
deve quindi dare una priorità assoluta all'acquisizione, con
esportazioni, di un ammontare crescente di mezzi di pagamento dall'estero,
pena, in caso d'insuccesso, la contrazione brusca e anche l'arresto
dei loro programmi. E' nell'esportazione dei prodotti industriali che
questi Paesi cercano e ancor più cercheranno la soluzione dei
loro problemi con interventi sui costi e sui prezzi non riconducibili
a relazioni tra costi e prezzi, quali sono quelle che in complesso ancora
regolano i comportamenti di mercato dei Paesi occidentali.
Nei riguardi di esportazioni fatte a prezzi non sopportabili dal livello
e dalla struttura dei costi dell'Occidente industrializzato, lo strumento
protezionistico non sembra possa essere sistematicamente utilizzato.
E non tanto perché sarebbe in contraddizione con il proposito
espresso, da anni in tante sedi, dai Paesi ad alto reddito di voler
favorire lo sviluppo dei Paesi a minore reddito; vi è anche da
considerare che la crescita dei Paesi industrializzati del Terzo mondo,
insieme a quella dei Paesi esportatori di petrolio, dovrebbe creare
vasti mercati per la produzione manifatturiera dei Paesi che, come il
nostro, sono di più antica industrializzazione. Una protezione
nei riguardi di quelle produzioni non sarebbe quindi neppure conveniente.
Le vie aperte a quei Paesi sono allora altre due: porsi in grado, aumentando
la produttività del sistema produttivo esistente, di sostenere
la concorrenza dei nuovi venuti; oppure passare a nuove produzioni che,
in quanto a più alta tecnologia, non sono soggette a quella concorrenza.
Ora, i mutamenti intervenuti nella composizione delle esportazioni dei
Paesi di antica industrializzazione sembrano indicare che la seconda
strada è percorribile e che per i Paesi a più alto reddito
rappresenta anzi l'elemento determinante ai fini del conseguimento di
ulteriori progressi rispetto ai livelli di reddito già raggiunti.
Il posto che nei prossimi anni prenderanno i NIC e il Giappone sul mercato
internazionale della produzione manifatturiera è peraltro piuttosto
controverso: si farà più aggressiva la loro presenza,
o avranno essi pure, o parecchi di essi, difficoltà e anche regressi?
I NIC si porteranno rapidamente su posizioni tecnologicamente molto
avanzate seguendo l'esempio del Giappone, oppure resteranno a lungo
su produzioni di livello tecnico non elevato? (7). Al numero oggi non
grande di NIC si aggiungeranno altri? Queste incertezze riguardano però
solo il breve, e in qualche misura, il medio termine; in una prospettiva
decennale, com'è la nostra, sembra di poter prevedere che la
presenza sui mercati mondiali dei Paesi in questione sarà nel
complesso crescente, specie se farà buoni progressi la riorganizzazione
del mercato internazionale dei capitali; e dalla capacità di
reazione dei Paesi di antica industrializzazione all'insieme di questi
fenomeni dipenderà, a lungo andare, il loro livello di reddito.
Questa prospettiva comporta gravi impegni, ma non manca di aspetti positivi;
per la prima volta nella storia si va costruendo un mercato veramente
mondiale, la cui dimensione apre possibilità di avanzamento,
possiamo dire, a tutti i Paesi dotati di un'industria capace di progresso.
L'interesse per un simile svolgimento è poi accresciuto dal relativo
ristagno delle economie dei Paesi di antica industrializzazione e dall'emergere
tra essi di concorrenze e di reciproci protezionismi. Ciò significa
che è fuori dall'Europa che vengono oggi i maggiori impulsi allo
sviluppo industriale. Ed è in riferimento a questo grande quadro
che va considerato anche il problema meridionale.
Quanto alla intensificazione del progresso tecnologico rispetto a quello
già rilevante avutosi prima del '74, (terzo dei mutamenti indicati
in principio), si riconosce generalmente che su questo terreno il nostro
Paese si trova in notevole ritardo: il recupero di quei ritardi si presenta
in sostanza come il problema di far conseguire al sistema produttivo
esistente una struttura più vicina a quella degli altri Paesi
di antica industrializzazione. Non sembra però che sia stato
preso in considerazione il fatto che il fenomeno ora in esame comporta
anche l'identificazione dei modi con cui, nella nostra situazione, può
continuare l'industrializzazione del Sud. Non si può certo pensare
che produzioni da abbandonare al Nord, perché non suscettibili
di essere rese competitive, possano essere avviate al Sud e, in generale,
non si può fare affidamento, per la soluzione della questione
meridionale, sullo sviluppo di produzioni tradizionali. Si darebbe così
vita a un nuovo tipo di dualismo (8).
Veniamo ora alla quarta, grave difficoltà che incontra il progresso
economico dei Paesi dell'Occidente europeo: l'inflazione.
Già negli anni lontani dell'inflazione post-bellica, le ricerche
della Svimez misero in rilievo che la società meridionale è,
nel nostro Paese, la maggior vittima dell'inflazione. Ciò per
due motivi: in primo luogo, vi è il maggior valore che la componente
"spesa pubblica" assume nell'economia meridionale; l'ammontare
delle risorse destinate a tale spesa non è ovviamente presidiato
dalla scala mobile; e in tempo di inflazione il suo valore reale inevitabilmente
diminuisce. Vi è, in secondo luogo, li fatto che l'ammontare
dei redditi personali fissi (stipendi e pensioni soprattutto) assume
nel Sud una proporzione più elevata che nel Nord. Infine, per
le aree meno sviluppate la difesa del valore economico dei patrimoni
personali è più difficile che nelle aree sviluppate; e
quando questa difesa può essere ottenuta, in gran parte essa
si risolve in un trasferimento di capitali verso le aree ricche; in
queste, invece, sono rilevanti i profitti da inflazione. In conclusione,
in tempo d'inflazione si mette in moto un insieme di forze che determinano
un aumento del divario; per converso, la diminuzione del saggio di inflazione
è fattore che concorre alla sua riduzione.
Quanto ai rapporti intercorrenti tra politiche antinflazionistiche e
entità del divario, ci imbattiamo di nuovo in un mutamento molto
rilevante rispetto alla fase iniziale dell'intervento straordinario.
A quel tempo un'azione antinflazionistica si esauriva, se sorretta da
una decisa volontà politica entro un breve periodo. Si ricordi
l'intervento effettuato nel nostro Paese nel 1947, che in pochi mesi
ricondusse il dollaro da oltre 900 a 625 lire, essendosi superata, in
quei mesi, anche l'inevitabile crisi di stabilizzazione; altri numerosi
casi del genere si potrebbero ricordare in molti Paesi a partire dal
primo dopoguerra, cioè dall'inizio stesso di quella tormentata
fase dell'economia mondiale che è caratterizzata dal manifestarsi
delle inflazioni e in genere dell'incertezza monetaria.
Le politiche antinflazionistiche di oggi devono invece svolgersi in
modo diverso; il loro successo può essere ottenuto solo modificando
condizioni fondamentali di un tipo di processo di sviluppo che comporta
inflazione. Per ottenere tali modifiche occorre operare in tre direzioni:
contenere l'aumento della spesa pubblica; ottenere determinati comportamenti
della forza sindacale; aumentare la produttività di determinate
sezioni del sistema. Oggi, dunque, si deve operare non tanto sul terreno
monetario, quanto su quello delle scelte politiche. Contenere la spesa
pubblica significa effettuare scelte tra settori cui sì devono
chiedere determinati sacrifici: assistenza sanitaria, o istruzione,
o difesa, o protezione di determinate categorie di cittadini, eccetera.
Si potrebbe forse dire che, paradossalmente, in una fase della storia
del pensiero economico che si caratterizza per l'importanza che viene
data alla questione monetaria, sembra ci si sia ridotti al punto che
operando sulla moneta non si riesce a risanare neppure la moneta. Una
simile azione in genere non ha pieno successo in tutte le direzioni
in cui viene inizialmente avviata e in ogni caso richiede del tempo.
E infatti per conseguire il risanamento monetario, si redigono piani
a medio termine che sono denominati "piani antinflazionistici"
o "di rientro dell'inflazione", o in altro modo, ma che altro
non sono che i particolari piani di sviluppo richiesti dal fatto che
è menomata, o addirittura caduta, la condizione prima di un durevole
sviluppo: la stabilità monetaria.
Come si colloca in un simile quadro l'azione meridionalistica, e in
particolare l'intervento straordinario? Per dare risposta a questo interrogativo
occorre partire da un giudizio di ordine politico che l'esperienza ci
dice non essere facilmente recepibile nel nostro Paese: si tratta del
fatto che la spesa destinata al Sud, e quindi anche quella relativa
all'intervento straordinario, dato il tipo di divario esistente a data
la necessità di evitare che esso produca tensioni intollerabili,
è una spesa che sarà sempre meno governabile dalle autorità
di governo, ove il divario non diminuisca in modo deciso, quanto meno
nelle aree nelle quali esso è più rilevante (9). La spesa
pubblica, anche quella corrente, non potrà quindi essere facilmente
diminuita; essa potrà però essere qualificata orientandola
allo sviluppo; e se si avrà, poi, riduzione del divario, significherà
che la spesa, razionalizzata, si è per una certa quota convertita
da spesa per assistenza in spesa che produce gli effetti di un investimento;
in tal caso essa si classifica tra le spese dirette ad aumentare la
produttività del sistema.
Questa posizione del meridionalismo, secondo la quale la spesa per il
Sud, se svolta razionalmente, è investimento e non assistenza,
ha oggi maggiori probabilità di essere accolta dal pensiero politico
ed economico dei Paesi industrializzati, e quindi anche da noi. Nella
situazione che si è delineata nell'economia mondiale dopo il
1973, è andato guadagnando favore il pensiero che è all'offerta
e non alla domanda che va dato il sostegno della politica economica.
A questo riguardo va osservato che solo nella breve fase seguita alla
fine della guerra, quando nei Paesi di antica industrializzazione vi
erano molti disoccupati e, insieme, impianti inattivi, si giustificava
una politica di sostegno della domanda, così come, tra le due
guerre, era giustificata dalla vasta disoccupazione e dalla rilevanza
di capitale industriale inutilizzato. Nel dopoguerra, raggiunta una
situazione di pieno impiego, il sostegno della domanda, al quale, si
badi bene, concorreva anche l'azione sindacale, non poteva che promuovere
immigrazioni dalle aree sottosviluppate e quindi aggravare in quelle
aree le situazioni appunto di sottosviluppo. Un tale svolgimento è
osservabile anche nel nostro Paese, se si considerano l'entità
del flusso migratorio che si è svolto dal Sud al Nord" e
il permanere della questione meridionale in un periodo in cui il prodotto
nazionale si accresceva con una intensità che non aveva precedenti.
Il meridionalismo, con la proposta dell'intervento straordinario, con
lo Schema Vanoni, con la richiesta di utilizzo dei tre strumenti dell'incentivo
a investire, del credito agevolato e dell'impresa a partecipazione statale,
si è, dal dopoguerra, mosso sulla linea dell'offerta, assumendo
cioè le posizioni prese poi in tutti i Paesi poveri.
Questa confluenza sulla linea dell'offerta, intesa come adeguamento
e potenziamento della struttura produttiva, cui i Paesi ad alto reddito
sono stati costretti dagli effetti prodotti sull'economia mondiale dagli
choc petroliferi e dall'affermarsi dei NIC, potrebbe però risolversi
nel nostro Paese in una concorrenza tra Nord e Sud di cui è facile
prevedere l'esito. Ciò potrà evitarsi solo se il modello
di sviluppo che da oltre un secolo, cioè dall'unificazione politica
in poi, governa la nostra economia, verrà modificato nel senso
di considerare l'esistenza dei divari come il massimo dei nostri problemi.
Dopo la fine dell'ultimo conflitto, determinati aumenti del prodotto
nazionale sono stati a lungo, anche nei programmi di governo, punti
di partenza di ogni discorso in tema di sviluppo. Ancora una volta,
a tale proposito, lo Schema Vanoni può essere utilmente ricordato.
Si ritenne allora che per il decennio 1955-64 si poteva ipotizzare con
fondamento un saggio annuo di aumento del prodotto del 5 per cento.
Giova ora precisare che una simile previsione né fu il risultato
di complesse elaborazioni, né sollevò grandi incertezze
o apprezzabili divergenze in coloro che la effettuarono. Eppure, non
vi erano precedenti, anche fuori del nostro Paese, di un progresso tanto
intenso per un periodo così lungo. Va aggiunto che non si ebbero
in quel decennio particolari politiche ispirate al conseguimento del
saggio annuo indicato nello Schema; eppure, al termine del decennio
risultò che, nel periodo, il saggio medio di aumento del prodotto
era stato del 5,5 per cento.
Tutto ciò indica che un saggio medio annuo del 5 per cento era
senza molte difficoltà deducibile da una attenta osservazione
della situazione di quel periodo. Lo Schema, che nasce nell'ambiente
meridionalistico della Svimez, era in sostanza un avvertimento, che
le circostanze successive dovevano mostrare molto fondato, inteso a
far presente che per la nostra economia si era iniziato un periodo eccezionalmente
favorevole e che, di conseguenza, opportunità senza precedenti
si sarebbero offerte per avviare e portare decisamente avanti la riduzione
del divario Nord/Sud. Un alto ritmo di aumento del reddito si produsse
del resto anche in altre economie industrializzate; non vi fu quindi
miracolo economico; un miracolo si sarebbe avuto se, in quello slancio
dell'economia di cui beneficiavano tutti i Paesi industrializzati, si
fosse inserita nel nostro Paese una decisa e conseguente politica meridionalistica
(11).
La riconsiderazione dell'esperienza dello Schema Vanoni, che risale
ai primi anni dell'intervento straordinario, mostra quanto grande sia
il mutamento intervenuto rispetto a quel tempo. Adottare schemi di ragionamento
quale quello ora esposto è impensabile nella situazione attuale.
Nella nuova normalità, che si è delineata dopo il 1973,
tutto quanto le politiche economiche possono cercare di ottenere nel
perseguimento dei loro programmi è di trarre il maggior beneficio
possibile, ovvero di ridurre il più possibile i danni, di accadimenti
esterni che profondamente incidono sull'economia del Paese, ma che non
sono né prevedibili, né influenzabili, operando nello
stesso tempo per il contenimento dell'inflazione. La massimizzazione
del prodotto continuerà, ovviamente, a orientare tutte queste
azioni con un risultato, in termini appunto di prodotto, che è
quello, non prevedibile, che è consentito dal sovrapporsi di
diverse azioni. Previsioni sull'andamento del prodotto non sono dunque
possibili neppure a breve termine. Vi è però un procedimento
che è applicabile nei processi decisionali che si svolgono nelle
condizioni ora descritte; esso consiste nella valutazione degli estremi
entro i quali l'aumento del prodotto può ragionevolmente collocarsi
e nel considerare i diversi sviluppi che, tra questi estremi, possono
aver luogo.
Quanto ai valori che nell'arco decennale possono essere attribuiti ai
due estremi, va considerato che i due grandi cambiamenti - aumenti del
prezzo del petrolio e intensità del progresso industriale di
alcuni Paesi extra-europei (12) - che hanno tanto sconvolto l'economia
mondiale, dovrebbero dar luogo a una rilevante e durevole espansione
della domanda di importazione di prodotti industriali. Come abbiamo
già detto (13), i mercati dei Paesi dell'Occidente europeo, che
a suo tempo fornirono impulsi tanto rilevanti alla nostra espansione
industriale, possono invece offrire solo uno sbocco di proporzioni minori
rispetto a quelle del passato. In Europa la nostra Industria troverà
protezionismi, più che ulteriori integrazioni. Per di più,
i Paesi europei saranno tra i nostri più temibili concorrenti
sui mercati extra-europei nell'offerta di prodotti di alta tecnologia,
che per un volume crescente saranno richiesti, presumibilmente, nei
prossimi anni.
Comunque, pur nel declino del mercato europeo, il volume complessivo
del commercio internazionale dei prodotti industriali dovrebbe accrescersi
- anche se, è da ritenere, ad un ritmo meno intenso di quello
degli anni precedenti il '74 - soprattutto dopo superate le conseguenze
del secondo choc petrolifero; crisi nei singoli Paesi esportatori di
prodotti industriali saranno quindi conseguenze non tanto di mancanza
di sbocchi, quanto di insufficiente capacità di acquisizione
di quote di un mercato che sarà in espansione.
Ciò premesso, quanto al futuro aumento del nostro prodotto interno,
sia l'esperienza compiuta nei sette anni trascorsi dal primo choc petrolifero,
sia la natura dei problemi che più impegnano oggi l'Occidente
europeo fanno ritenere plausibile l'ipotesi che tale saggio non possa
aumentare, nel decennio 1982-91, a un saggio in media superiore al 4
per cento. Esso, però, non dovrebbe neppure diminuire rispetto
ai livelli attuali. Quali aumenti di occupazione si possono attendere
da svolgimenti compresi tra questi due estremi? Data la situazione di
concorrenza in cui sarà posto il nostro Paese, per rispondere
a questo interrogativo dobbiamo considerare prima i vincoli che ci sono
posti dalle questioni di produttività.
Nel settennio 1974-80 la produttività del sistema è aumentata
nel nostro Paese al saggio medio del 2 per cento. L'aumento fu lievemente
inferiore (1,8 per cento) nel Sud. Questo saggio è rilevabile,
in media, anche nel complesso degli altri Paesi Cee. Per la Francia
il saggio fu del 2,5 per cento, e per la Germania Federale del 3 per
cento. Poiché nel complesso dei Paesi Cee. Per la Francia il
saggio fu del 2,5 per cento, e per la Germania Federale del 3 per cento.
Poiché nel complesso Cee l'occupazione non è certo aumentata,
si può in prima approssimazione ritenere che il che efficienti,
il divario, anziché diminuire, aumenti. Il fatto che vi siano
ora, all'interno del Sud, divari tanto rilevanti, legittima il timore
che in tale eventualità il ritardo non si presenterà diffuso
in tutto il Mezzogiorno, ma si concentrerà nelle aree, che, secondo
i dati su indicati, più devono progredire. E va anche detto che
oggi, come a111nizio dell'intervento straordinario, è solo l'occupazione
industriale che può portare a soluzione il problema di quelle
aree (16). Il resto conta poco.
In conclusione, è solo in un intenso aumento di produttività
che va comunque ricercato - in una prospettiva certo non di breve e
medio periodo - quell'aumento dei posti di lavoro che, se gestito in
modo diverso da quello degli anni del miracolo, può portare a
soluzione la questione meridionale. Se ben si riflette, questo obiettivo
si impone ancor più che in passato. Non si può infatti
pensare a un futuro della nostra società nel quale la parte più
estesa del Paese continui a progredire ai ritmi elevati dell'industria
europea, mentre una parte minore non sia neppure in grado di progredire
su posizioni verso cui si muovono in questi anni Paesi che noi oggi
giudichiamo arretrati. Nella situazione odierna, il permanere indefinito
del dualismo, come è avvenuto fino a questo momento, si deve
ritenere politicamente impossibile.
Vediamo ora come si presenta l'economia del Sud di fronte a simili prospettive.
Per effetto dei profondi mutamenti intervenuti nell'area meridionale
nel corso del trentennio di intervento straordinario, si sono determinati
all'interno dell'area divari interregionali più rilevanti di
quelli esistenti all'inizio dell'intervento. Basti dire che il prodotto
delle province meridionali a più alto reddito è del 50
per cento circa più alto di quello delle provincie più
povere. Trattare in termini generali un problema del Sud è oggi
molto meno giustificato che nella prima fase dell'intervento.
Un'indagine è stata svolta al riguardo dalla Svimez in riferimento
alla situazione delle singole province, essendo la provincia risultata
la più piccola entità territoriale suscettibile di una
giustificativa rilevazione (14). L'indagine ha consentito in primo luogo
di costruire una tipologia delle aree componenti il Sud, che ci sembra
una buona base di partenza per ulteriori approfondimenti; si sono così
identificate sette categorie di aree, riunibili in tre grandi gruppi.
Le province meridionali sono state poi ripartite tra le sette categorie.
E' risultato questo quadro:

Il primo gruppo
comprende tre categorie: la prima include le province il cui prodotto
lordo è più elevato e il cui progresso industriale è,
nel complesso, continuato anche dopo il primo choc petrolifero; le aree
della seconda categoria si caratterizzano per la presenza di unità
produttive di maggiore dimensione e quindi per un certo rallentamento
che negli scorsi anni si è prodotto in un tipo di progresso che
era stato incentivato dagli investimenti appunto in grandi impianti.
Nella terza categoria, infine, figurano province il cui prodotto è
inferiore a quello delle province incluse nelle prime due categorie,
ma nelle quali in epoca più recente si è delineato un
vivace processo di sviluppo. Queste tre categorie possono formare il
gruppo di province nelle quali il cosiddetto "decollo" si
può dire avvenuto; se ulteriori indagini dovessero confermare
questo giudizio, noi ci troveremmo in presenza di un'area nella quale
vive il 23 per cento della popolazione meridionale e nei cui riguardi
hanno perso gran parte della loro validità i discorsi fin qui
fatti in riferimento a una generica "realtà Sud". Basti
dire che il prodotto pro-capite vi ha raggiunto livelli mediamente superiori
all'80 per cento di quelli delle province non meridionali confinanti
con il Mezzogiorno, le quali non vengono certo incluse tra le aree da
sviluppare. Si tratta pur sempre di aree in corso di sviluppo e che
richiedono quindi di essere ancora oggetto della politica meridionalistica;
tale politica dovrà però avere connotazioni vicine a quelle
tipiche delle aree industrializzate.
Il secondo gruppo, costituito dalle aree metropolitane, ha un quinto
della popolazione meridionale nella sola Napoli, con problemi di fondo
aggravati dal sisma del novembre '80. Nel terzo gruppo, le province
con il 44 per cento della popolazione del Sud, e nelle quali i divari
sono marcatamente accentuati. La Calabria, com'è noto, fa storia
a sé.
In questo quadro, colpisce anzitutto la grande varietà delle
situazioni nei cui confronti deve ora svolgersi l'intervento straordinario,
varietà che l'ulteriore sviluppo economico tenderà ad
accentuare, in mancanza di adeguate azioni riequilibratrici. Le aree
del primo gruppo possiedono le condizioni necessarie per ulteriori progressi.
Basti pensare che alcune di esse sono diventate aree di immigrazione.
Per le aree del terzo gruppo è da temere che una simile prospettiva
non esista. Poi, il futuro delle aree caratterizzate dalla presenza
di grandi impianti - quelle per le quali venne coniata l'immagine della
"cattedrale nel deserto" (15) - dipende in notevole misura
dall'evolversi della crisi delle produzioni svolte da quegli impianti
e dai criteri con cui la crisi sarà gestita in sede comunitaria
e in sede nazionale.
Occorre però sottolineare che la estesa differenziazione che
oggi è possibile fare tra le aree componenti l'economia meridionale
è pur sempre un indice di rilevanti progressi compiuti in trent'anni
di intervento straordinario. Il progresso è stato tuttavia determinato
più dall'impeto dello sviluppo avvenuto nel periodo che dalle
politiche che si sono svolte. Se a saggi di crescita così intensi
si fosse unita una più decisa opzione meridionalista, il divario
Nord/Sud oggi sarebbe minore e soprattutto minori sarebbero gli squilibri
interni all'area meridionale. L'epoca dello sviluppo spontaneamente
impetuoso sembra però tramontata. Nella nuova fase, apertasi
dal '74, il progredire economico è divenuto più lento
e al tempo stesso più difficile da gestire. Vi è quindi
il rischio che, in assenza di politiche efficienti, il divario, anziché
diminuire, aumenti. Il fatto che vi siano ora, all'interno del Sud,
divari tanto rilevanti, legittima il timore che in tale eventualità
il ritardo non si presenterà diffuso in tutto il Mezzogiorno,
ma si concentrerà nelle aree, che, secondo i dati su indicati,
più devono progredire. E va anche detto che oggi, come all'inizio
dell'intervento straordinario, è solo l'occupazione industriale
che può portare a soluzione il problema di quelle aree 16. Il
resto conta poco.
NOTE:
1) Un tentativo di rendiconto è in atto presso la Svimez con
l'indagine sul tema "Trent'anni di intervento straordinario attraverso
i bilanci della Cassa per il Mezzogiorno". I trenta bilanci sono
stati classificati secondo un unico schema e i valori così determinati
sono stati convertiti in lire 1980; viene ora iniziato l'esame della
gestione dell'insieme del trentennio, cui seguirà una ricerca
più approfondita su ciascuno dei quattro periodi delimitati dalle
scadenze delle leggi di proroga dell'intervento.
2) Emblematica della "necessaria" mutevolezza delle norme
che regolano l'intervento è la recente vicenda legislativa, relativa
a una disciplina organica degli interventi in favore dei territori colpiti
dal sisma del novembre '80. In sede di conversione in legge del DL 1981,
n. 75, recante ulteriori interventi pubblici per le zone terremotate,
il Parlamento ha proceduto infatti a una radicale trasformazione di
tutto l'assetto, normativo e istituzionale, delle misure adottate in
precedenza. Di rilevante importanza, sotto tale profilo, le norme (80-84
della legge 14 maggio 1981, n. 219) relative all'intervento statale
per l'edilizia a Napoli. Si tratta di un complesso di norme radicalmente
innovatrici, che, sotto il profilo dell'unificazione delle competenze
e della semplificazione delle procedure, nonché sotto quello
della celerità di esecuzione, fanno assumere ad un programma
straordinario di edilizia residenziale per la costruzione nell'area
metropolitana di Napoli di 20.000 alloggi, e delle relative opere di
urbanizzazione, di cui è prevista la realizzazione, la natura
di "progetto sociale". Basti richiamare, al riguardo, l'attribuzione
al sindaco di Napoli e al Presidente della Regione della qualità
di "commissari straordinari di governo", i quali, nell'agire
in tale veste, "sono soggetti soltanto alle norme di cui al presente
Titolo, della Costituzione e dei principi generali dell'ordinamento".
3) A formare il numero 1.500.000 unità indicato nel testo concorre
tra le altre, l'ipotesi che il tasso di disoccupazione del Sud si riduca
da oltre l'11% del 1980 al 6% alla fine del decennio, tasso pari a quello
rilevabile in media oggi nella Cee. Il tasso adottato è ben più
alto di quello del 3-4% generalmente accettato in passato quale indice
della disoccupazione frizionale; questa variazione è consigliata
dalle difficoltà che presenteranno i processi di razionalizzazione
che potranno svolgersi nei prossimi anni nei Paesi Cee. Il tasso del
6% corrisponde però ad una valutazione ottimistica delle prospettive
di occupazione, diverse fonti indicano, infatti, la possibilità
nei prossimi anni di una disoccupazione superiore.
4) Gli addetti all'agricoltura, nel 1954, erano 8 milioni, di cui 3,4
milioni nel Sud, e 4,6 nel Centro-Nord. Nel 1980 erano 2,8 milioni,
di cui 1,5 nel Sud e 1,3 nel Centro-Nord. La diminuzione è stata
di 5,2 milioni, di cui 1,9 nel Sud e 3,3 nel Centro e nel Nord.
5) Vedi par. 5
6) Nel gruppo dei NIC extra-europei si includono qui Brasile, Messico
e Paesi del Sud-Est asiatico. Ad essi sono comunemente aggiunti Spagna,
Portogallo, Jugoslavia, Grecia. Ai nostri fini è preferibile
considerar solo il complesso dei Paesi extra-europei.
7) Si noti, riguardo a questa alternativa, che sono gli stessi Paesi
di antica industrializzazione che, esportando macchinario, favoriscono
il sorgere di nuove concorrenze da parte dei Paesi emergenti.
8) Va respinta la categoria di Paesi o di aree "in ritardo"
per i quali si renderebbe necessario seguire vie di sviluppo specifiche,
in relazione alla loro condizione di aree meno progredite. Ciò
che importa è distinguere tra aree, anche a basso reddito, che
progrediscono perché stanno appropriandosi tecniche del mondo
contemporaneo e Paesi e aree che, pur definibili progrediti fino a ieri,
oggi non vi riescono. E la storia contemporanea mostra che Paesi della
prima categoria possono essere tutt'altro che in ritardo nell'accogliere
le nuove tecniche; in particolare non ritengono, per il fatto di essere
agli inizi dello sviluppo, di limitarsi all'agricoltura, all'artigianato
e altro, trascurando l'industria. Che senso avrebbe avuto, del resto,
chiamare "in ritardo" l'economia giapponese degli inizi del
secolo?
9) Vedi par. 6
10) Nel trentennio 1951-80 di intervento straordinario sono emigrati
dal Sud 4,7 milioni di persone, di cui 2,9 milioni nel Nord.
11) In base alle considerazioni svolte nel testo, si può quindi
dire che il vero obiettivo dello Schema fu l'aumento dell'occupazione
e l'avvio deciso dell'industrializzazione del Mezzogiorno; più
precisamente, si previde la possibilità di creare quattro milioni
di posti lavoro extra-agricoli da localizzarsi nel Centro-Nord, e 0,7
(proporzione inferiore alla popolazione meridionale) nel Sud. Dal Mezzogiorno
emigrarono nel decennio 2,4 milioni di persone, di cui 1,3 milioni nel
Centro-Nord e 1,1 milioni all'estero. Il divario, anziché diminuire,
aumentò, sia pure lievemente. Il saggio di aumento annuo del
prodotto che fu, com'è detto, del 5,5%, si ripartì infatti
così: nel Centro-Nord 5,8%; nel Sud, 4,8%. Gli investimenti,
dovuti in buona parte a reinvestimenti di profitti, si accrebbero in
misura rilevante; ma furono destinati ad aumento della produttività
degli occupati e non, come richiesto, alla creazione di posti di lavoro
per i disoccupati, che in gran parte anche allora risiedevano nel Sud.
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