1) LE INIZIATIVE
LEGISLATIVE.
Il sentiero dei
tentativi di ritocco e di intervento sulla RAI-TV prima e sull'emittenza
privata poi, è tortuoso e come quello dell'inferno lastricato
con le buone intenzioni, mai approdate a risultati concreti.
Aprì la serie degli apporti parlamentari, il progetto Parri nel
1964, cui seguirono nel 1965 quello di Lajolo, nel 1969 quello del PSIUP,
simili tra loro per disegnare un profilo della RAI-TV sul modello dell'ENI;
nel 1970 le proposte De Maria e Bergamasco-Veronesi tendevano invece
ad allentare i vincoli dello Stato e dei poteri dello Stato sull'Ente
televisivo.
Le discussioni sul tema degenerarono spesso in polemiche roventi che
lasciarono i segni con le successive giubilazioni/dimissioni di Sandulli,
Barnabei, Paolicchi e di Bagi.
Ma l'insorgenza dello scontro tra Ente di Stato ed emittenza privata,
si ebbe nel secondo ministero Andreotti, allorché il Ministro
delle Poste Gioia (l. VI. 1973) emanò un decreto di chiusura
di TeleBiella, con il tacito consenso (va rammentato per l'incoerenza)
del PLI che era al governo. Con il quinto gabinetto Rumor (15.3.1974),
la riforma della RAI-TV entrò nel programma di quel governo,
e poi di quelli successivi, finché fu approvata la legge 103
del 1975 che dispose: la riforma delle strutture interne della RAI;
l'assetto dell'amministrazione dell'Ente; la istituzione della 3a rete
a partire dal 1° gennaio 1978, slittata all'anno successivo; il
riconoscimento di uno snervato pluralismo con l'istituzione dei "programmi
dell'accesso", definiti, in un convegno regionale di Bari (maggio
1978), dal prof. Amendola, un "istituto di tipo fondamentalmente
risarcitorio".
2) LA CORTE COSTITUZIONALE
Il 10 luglio 1974,
la prima sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava la non illegittimità
del monopolio televisivo statale in mancanza di garanzie che consentissero
il pluralismo, apriva una breccia nella muraglia della opposizione alla
iniziativa privata, pur allontanando la minaccia dell'installazione,
in acque extra territoriali, di ripetitori che irradiassero In Italia
programmi di televisioni estere.
Senza ripercorrere le cronache degli intertempi, si arriva alla seconda
e ben più decisiva sentenza della Corte Costituzionale a due
anni dalla prima.
Il 2 luglio 1976 (sent. n. 220) la Corte riconosceva, in base agli artt.
3 e 21 della Costituzione, il diritto ai privati di accedere al mezzo
televisivo per diffondere notizie e programmi in ambito locale.
Non va trascurato che la Corte, forse eccedendo i compiti di istituto,
indicava, in quella sentenza del '76, gli impegni normativi che il governo
avrebbe dovuto fissare per legge:
1) i requisiti del richiedente l'autorizzazione ad un impianto di radio
o telediffusione;
2) le caratteristiche tecniche degli impianti,
3) la delimitazione dell'ambito;
4) i limiti cronologici percentuali della pubblicità;
5) il diritto di interferenza col servizio pubblico;
6) il divieto di concentrazioni mono o oligopolistiche.
Gli infruttuosi proponimenti dei governi dal Rumor cinque a quello Spadolini
(quello di Fanfani non ha compreso nel programma la regolamentazione
della emittenza privata), di dare una norma a questo nuovo spazio riconosciuto
come diritto costituzionale, ha provocato il sorgere tumultuoso e sfrenato
di iniziative che sino allo scorso anno (1982) ammontavano, senza tuttavia
certezza di dati, a più di 3 mila radio e circa 650 stazioni
televisive. L'emergere, in questa selva selvaggia di una imprenditoria
con enormi disponibilità finanziarie, con piani di sviluppo e
di programmazione ben elaborati e con capacità di concorrenza
col monopolio televisivo statale nell'area dell'informazione politica
con un telegiornale alternativo da diffondere In tutto il territorio
nazionale, attraverso una tecnica di collegamenti chiamata "interconnessione",
ha provocato una terza sentenza della Corte Costituzionale. Nel luglio
1981 veniva ribadita, nella vertenza RAI-TV - Rizzoli, la non legittimità
della "interconnessione".
3) SITUAZIONE ODIERNA
Abbiamo dunque alle
spalle tre sentenze della Corte Costituzionale che, pur in qualche contraddizione
tra loro, sanciscono e riconoscono il diritto costituzionale del cittadino
italiano di disporre di ogni mezzo, anche quello radio- televisivo,
per "manifestare liberamente il proprio pensiero" (art. 21);
tre tentativi di varare un d.d.l. governativo: il primo del ministro
Gullotti (luglio 1975) decaduto per fine anticipata della legislatura,
il secondo del ministro V.no Colombo (febbraio '80), superato da quello
ministro Gaspari ('81) che è il terzo (mentre il ministro Di
Giesi, che è il dicastero tra i due, non riuscì a confezionare
il proprio). Tutti sono orientati a fissare l'ambito locale in chilometri
di raggio, il tetto massimo di pubblicità inseribile nei programmi,
la percentuale minima di produzione originale. Tre proposte di legge
della FIEL (ott. '79), del PCI ('80) e del PDUP ('80), anch'esse sulle
linee di quello governativo: ovviamente quello della FIEL in senso attenuativo
delle restrizioni, ma nella logica governativa.
Abbiamo alle spalle una serie non enumerabile di convegni, dibattiti,
tavole rotonde sull'argomento del rapporto tra Ente statale ed emittenza
privata e basta soltanto far cenno che In Puglia tra il '77 e l' '82
si sono succeduti: gli incontri di Lecce e Martina Franca nel '77, Bari
nel '78, Otranto nell' '80, Ceglie nell' '81, Tricase nell' '82, Casarano
un mese fa. Abbiamo assistito e partecipato a polemiche a volte aspre
e violente, poi via via meno velenose e attenuate sino a tramutarsi
in incontri conciliativi e orientati all'intesa e alla collaborazione.
E' cresciuta una netta demarcazione nel settore privato dove, contrariamente
a quanto con violenza sentenziava il compianto Paolo Grassi e prevedeva
a Bari, nel '78, Michele Campione quando prospettava, dopo la "effimera
stagione della novità", un incontrastato primato della RAI-TV,
si sono costituiti i network (unificazione totale o parziale dei palinsesti
in aree geografiche diverse). Questi network hanno messo in mostra i
limiti della programmazione dell'Ente televisivo di Stato, ma nello
stesso tempo hanno snaturato il profilo "locale" delle emittenti
e anno creato nella folla delle stazioni private la categoria delle
"piccole" emittenti che corrono il rischio, ma forse è
un privilegio, di restare "locali". Siamo arrivati, velocemente,
ad oggi.
4) L'INTERCONNESSIONE.
A Ravenna, il PRI
ha convocato nell'aprile una assise per dibattere il tema del film tra
cinema e TV e per presentare la p.d.l. sulla regolamentazione della
radiotelediffusione. La p.d.l. repubblicana non è ferma alla
sentenza della C.C. del 1976 che ha condizionato il progetto governativo
e le proposte del PCI e del PDUP, sui limiti da assegnare all'emittenza
privata e sugli obblighi e divieti da imporre alla programmazione, ma
parla di concorrenza in un sistema misto, tra pubblico e privato, e
tuttavia fissa "ambiti" e percentuali.
Ma già su "La Voce Repubblicana" del 30 marzo, l'on.
Spadolini aveva scritto che il progetto punta a riconoscere per legge
l'interconnessione fra varie emittenti come garanzia effettiva delle
condizioni di pluralismo nel settore dei notiziari televisivi (secondo
una direttrice fissata dal primo governo Spadolini), ribadendo in una
dichiarazione diffusa dai quotidiani che il progetto punta a realizzare
"una nuova forma di convivenza tra un monopolio Rai, da ricondurre
nei suoi giusti limiti, e un complesso di televisioni nel quale si rispecchia
il pluralismo della società".
Una presa di posizione a favore della "interconnessione" si
trova nelle lettere che i segretari del PLI e del PSDI hanno inviato
il 30 marzo a "Il Giornale Nuovo".
L'on. Zanone esprime il suo convincimento che una credibile informazione
alternativa, per attuarsi, abbia bisogno dell'interconnessione tra varie
emittenti, interconnessione definita per legge con garanzie a tutela
di tutte le espressioni di pluralismo.
L'on. Longo, in sintonia, dichiara: "Ritengo pertanto anacronistica,
sotto il profilo politico e tecnico, la battaglia contro i collegamenti
nazionali delle reti private e lavorerò perché si arrivi
ad una legislazione nella quale, accanto al sistema pubblico dell'informazione
e dello spettacolo, sia consentita la diffusione su tutto il territorio
nazionale di reti private che rappresentano momenti fondamentali della
nostra vita democratica e pluralista".
Qualche giorno prima, su "l'Avanti!" del 23 marzo, Francesco
Tempestini aveva ampiamente illustrato e sistemato la Regola del gioco
per la radiotelevisione, nella visuale socialista. A parte qualche fumosità
verbale, che tuttavia non nasconde alcuna ambiguità, Tempestini
sosteneva che "gli equilibri di mercato si realizzano in cornici
normative condivise e valide per tutti[..] norme di garanzia contro
eccessivi accentramenti di potere".
Ma il rappresentante socialista è decisamente chiaro allorché
affronta i temi "caldi": è contro il protezionismo,
quando afferma che lo Stato "non può continuare a mantenere
la sua industria culturale dello spettacolo e della informazione completamente
sottratta e protetta rispetto alle leggi del mercato". Raccomanda
di non perdere il senso della realtà; nella normativa da approntare,
perla "dimensione paranazionale" e per la "quota consistente
dell'ascolto e maggioritaria del mercato pubblicitario" del network,
per i quali prevede il sorpasso del messaggio pubblicitario televisivo
su quello giornalistico e il raddoppio sulla quota della RAI-TV, nel
1983.
"Non è dunque pensabile - avverte Tempestini - che si vada
ad una disciplina di tipo reversivo rispetto all'assetto attuale";
pertanto sulla questione nodale dell'interconnessione, egli ritiene
"che la normativa debba consentire ai network la trasmissione di
programmi per una quota consistente di ore giornaliere mentre deve essere
in pari tempo consentita ed anzi incoraggiata la possibilità
di diffondere informazioni su scala locale e regionale". Insomma,
conclude: "La legge deve, secondo noi, contenere non solo vincoli,
quanto soprattutto incentivi".
I democristiani, in un convegno romano dell'8 marzo, avevano affrontato
il problema della disciplina dell'emittenza privata, non riuscendo a
trovare un'intesa sull'interconnessione, ma neanche escludendola. Sono
rimasti dunque su posizioni di intransigenza nell'ambito locale, e perciò
contro la interconnessione, soltanto il PC/ e il PDUP. La Camera dei
Deputati, infine, nella seduta del 14 aprile, con una votazione contraddittoria
e inconcludente, su varie mozioni, ha lasciato le cose come stavano.
5) I MALI DELLA
RAI.
La discussione sulla
normativa da emanare si è dilatata all'esame della situazione
di malessere e di crisi dell'Ente di Stato; e mentre Tempestini, nel
citato articolo, si limitava a sollecitare la RAI ad abbandonare le
nostalgie di un "santuario", dissacrato ormai, e "a fare
gli esami ogni giorno, a uscire in mare aperto affrontando la concorrenza
del mercato", il prof. Giuseppe Vacca, consigliere d'amministrazione
RAI per il PCI, in una nota su "l'Unità" del 27 marzo
1983, stesa per contestare la proposta dell'on. Piccoli di differenziare
il budget tre le tre reti in proporzioni all'indice di ascolto e proporre
a sua volta la gestione unitaria per eliminare la concorrenza interna
(tesi contrastata da Tempestini), punta coraggiosamente, e con ammirevole
onestà intellettuale, il suo obiettivo radiografico per "schermare"
i mali della RAI.
Essi, ritiene Vacca, non dipendono dagli attacchi concorrenziali portati
dagli "oligopoli privati" e dal "mercato Internazionale
dell'industria culturale", ma "dalle lotte politiche interne
all'azienda, poiché essa è 'lottizzata' tra i partiti
di governo sia nelle reti e nelle testate, sia nelle strutture di servizio".
Senza insistere sulla patologia dell'Ente pubblico, ma rilevandola dalla
analisi di un addetto ai lavori per passare poi a considerare lo "stato
di salute" dell'altro versante, si deve dedurre, da quel che Vacca
ritiene, non rinviabile "sottrarre le attività produttive
dell'azienda sia alla scomposizione attuale imposta dalla spartizione
partitica della RAI, sia ad un'ottica miope, che finalizza iI prodotto
RAI sostanzialmente ad un solo mercato (se così si può
dire): quello determinato dalle sue stesse reti", che l'ostacolo
fondamentale che l'Ente pubblico deve superare è inerente al
rapporto: produzione - acquisti. La RAI-TV, con i suoi 13.500 dipendenti,
con i circa 25 mila collaboratori, con i 1.200 miliardi di entrate annue,
è, in potenza il più forte centro editoriale esistente
in Italia, la più grande centrale di cultura e di informazione
che deve misurarsi, confrontarsi e competere non tanto, e non solo,
con le ormai grandi concentrazioni private interne, ma con quelle Internazionali.
6) PATOLOGIA DELL'EMITTENZA
PRIVATA
Sinora, riferendomi
alle iniziative germogliate impetuosamente a partire dal 1977, ho usato
indifferentemente gli aggettivi "private", "libere",
"locali", adeguando il significato allo specifico contesto
dell'argomentazione; in realtà oggi, dopo vicissitudini di taglio
giudiziario, di natura finanziaria, di ordine strutturale e professionale,
l'unica qualifica pertinente per le centrali radiotelevisive dovrebbe
essere "private" per distinguerle da quella pubblica. Marginalmente,
cioè nella zona ristretta di vera autonomia, poche sono ancora
le "libere" e forse meno ancora sono quelle "locali".
C'è dunque una patologia diffusa anche nell'emittenza privata.
Queste emittenti nacquero per affermare delle connotazioni che non si
riscontravano nell'Ente televisivo di Stato: il legame con la comunità
locale; la libertà di analisi e di critica; l'azione di registrazione
e di recupero di tradizioni, di costume, di linguaggio; il dibattito
su temi locali e regionali non affrontabili a livello nazionale. Ebbero,
al foro inizio, il favore e la simpatia degli utenti locali, ma soffrirono
l'irrisione e il dileggio dei professionisti televisivi e dei conformisti
ideologici, il disprezzo di quanti avevano legami diretti ed indiretti
con l'Ente di Stato. Non hanno mai avuto, e non hanno ancora, un rapporto
critico-costruttivo con la stampa quotidiana o periodica regionale o
provinciale che ha ripreso, e riprende, le note d'agenzia sui programmi
televisivi nazionali, ma non ha mai speso un rigo per sottolineare o
Incoraggiare una rubrica, un programma, una produzione o una registrazione
locale e con l'arcigno disgusto del critico prevenuto, ha trinciato
condanne su "robaccia ignobile", su "incapacità
tecniche e professionali": mai un suggerimento o una critica puntuale
e costruttiva.
Poi sono venuti i network e le emittenti locali non sono state più
libere di disporre di propri palinsesti, di propri spazi pubblicitari,
di programmi realmente locali. Non starò a fare anagrafi di emittenti
pugliesi, né indicazioni di quelle che conservano un proprio
"video o telegiornale"; ma dirò che in una regione
dove la percentuale dei lettori di un quotidiano si mantiene ancora
ai livelli di quaranta anni fa, cioè quattro lettori su cento
abitanti, i "tele o videogiornali" delle TV locali riescono
ad avvicinare alla realtà politica e sociale uomini che nel duemila
vivono ancora separati dal mondo come fossero in età feudale.
Ora i rischi delle televisioni private, che alla loro origine consistevano
nel pericolo della involuzione, della deviazione, della degenerazione
servile, si condensano in quello di scomparire come entità, per
assumere il compito di prestanome; l'impegno della professionalità
e della obiettività richiesto dalla deontologia del giornalismo
per immagini e parole, viene meno per mancanza di addetti. In tale situazione,
lo scontro tra il monopolio riconosciuto come privilegio e la libertà
di una informazione non controllata dalle centrali politiche, si vorrebbe
fosse risolto da una legge che si configura come un bavaglio. E c'è
chi pretende di "regolamentare subito" una impresa autonoma,
quasi non esistessero le leggi generali. Se mai, c'è da affermare
che bisogna fare cadere ogni divieto e impedimento che limita la libertà
di creare una informazione alternativa.
Devo confessare che fino a questa ondata di neo-protezionismo verso
la RAI-TV, ero convinto della opportunità di una legge che desse
una caratterizzazione "locale" alle nuove emittenti. L'esperienza
mi ha persuaso che anche questa caratterizzazione è una scelta
che deve essere lasciata alla libertà di chi la voglia, anche
se è ormai chiaro che non sarà l'imposizione di un parametro
di produzione originale a consentire ai più deboli di resistere
all'azione di risucchio messa in essere dai gruppi più solidi
economicamente.
Non si può imporre ad un imprenditore che intenda dar vita ad
una fabbrica di automobili che le sue auto siano a tre ruote o di cilindrata
non superiore ai 300 cc.
Ma se questa diatriba sulla regolamentazione si palesa in contrasto
con il principio costituzionale e con le leggi empiriche del mercato,
essa si qualifica come anacronistica e miope fino a rasentare la cecità,
se si rapporta alla previsioni immediate dello sviluppo tecnologico
della telematica e dell'elettronica, che hanno fatto timidamente parlare,
qualche tempo fa, di "legge pronta" in attesa degli eventi.
7) IL FUTURO PROSSIMO
Sappiamo tutti quel
che sta avvenendo negli USA. Dal satelliti "di comunicazione",
chiamati "da punto a punto", che hanno consentito e consentono
le "dirette" degli spettacoli sportivi, attraverso stazioni
riceventi e ripetitori, che si sono accoppiati con il "cavo"
per trasmettere le immagini senza le distorsioni e i disturbi della
"via etere", si è passati ai satelliti "a diffusione
diretta" che, con un'antenna individuale, diametro non più
grande di un metro, la cosiddetta "antenna da giardino", consentono
di raggiungere, senza stazioni e ripetitori, il cento per cento degli
abitanti di una determinata area.
Non ho specifica preparazione tecnica per illustrare i traguardi di
sofisticati congegni raggiunti dalla tecnologia giapponese, ma siamo
informati che la perfezione delle immagini trasmesse è dovuta
al raddoppio delle linee dei video (da 5251625 a l. 125), pari a quelle
delle pellicole cinematografiche a 35 mm. Tra qualche anno, sarà
solo questione di acquisto di antenne ancora più perfezionate
di quelle paraboliche che, attualmente, consentono agli sceicchi arabi
e agli abitanti di regioni desertiche dell'Alaska, privi di strutture
ed impianti riceventi, di vedere immagini da tutto il mondo, al costo
corrente tra i tre e i diecimila dollari (dai 4,5 ai 10 milioni circa).
L'Europa è in sensibile ritardo nel settore hardware (produzione
di macchinari) che negli Anni Ottanta ha una previsione di movimento
finanziario di circa 25 mila miliardi, passibile di Incremento per la
richiesta dei Paesi in via di sviluppo. La preminenza delle industrie
elettroniche americane e giapponesi sono senza competitori, vista la
crisi dell'accordo franco-tedesco, un sintomo del quale sono le difficoltà
della AEG-Telefunken. Accordo che nel 1979 fece fallire il progetto
di satellite televisivo Haevysat da realizzarsi con la creazione di
una Agenzia Spaziale Europea. La cooperazione continentale venne sopraffatta
da ragioni di carattere economico e industriale interne e di egoismo
nazionalistico che fecero pensare a Francia e Germania di appropriarsi
del mercato dei satelliti televisivi, degli strumenti per orbitarli,
con lo sviluppo delle proprie industrie elettroniche e spaziali.
Ma l'Europa comunitaria è in difficoltà e in ritardo anche
nel settore software (confezione dei programmi), per incapacità
di utilizzazione delle attrezzature di cui dispone. Chi sta approfittando
della situazione, sono Lussemburgo e Svizzera, che hanno approntato
progetti di programmi rivolti ad una area di circa 100 milioni di potenziali
utenti, mentre ambiziose programmazioni sono in cantiere a Montecarlo,
in Liechtenstein e Andorra. Tutto questo, si dice da parte degli esperti,
perché Gran Bretagna, Germania Federale e Francia si basano su
Enti pubblici nazionali. L'Italia non è neppure in condizione
di competere con le tre nazioni "imputate", tuttavia si estenua
nel cercare di "legare" con lacci giuridici un fenomeno di
esplosione industriale e commerciale che sfugge ad ogni tentativo di
imbrigliamento.
Il lancio del satellite TDRS della missione Challenger del 5 marzo,
capace, come hanno scritto i giornali, "di digerire l'equivalente
di 140 volumi di un'enciclopedia nel breve sussulto di un secondo",
non solo mi fa pensare che noi ci troviamo nella preistoria a combattere
con clave ed asce amigdalari per la primazia in un campo che ci è
stato espropriato, e che abusiamo del potere poliziesco per impedire
a radio radicale di trasmettere in diretta, per chi voglia ascoltare
e giudicare in perfetta rispondenza dei metodi democratici che non vengono
praticati dalla RAI-TV, le sedute parlamentari.
8) LE EMITTENTI
"LOCALI", DOMANI.
In tale situazione,
dovere ed interesse di ogni iniziativa televisiva, pubblica o privata
che sia, è di tener l'occhio puntato sullo sviluppo tecnologico,
fare attentamente i conti aziendali per sapere i limiti dell'impegno
e della capacità finanziaria, cercare di distinguersi in modo
originale dalla produzione che verrà diffusa dai satelliti.
Su questo piano, l'azienda pubblica e quella privata hanno un percorso
obbligato e parallelo: devono imporsi un obiettivo di programmazione
"locale" a livelli differenziati.
La RAI-TV, e il network che con lei vorrà misurarsi, dovranno
mirare a connotare In senso nazionale la programmazione da diffondere
nel circuito italiano, per distinguerla da quella che perverrà
dal "sistema televisivo planetario" e, se vorranno conquistare
spazi extranazionali, dovranno curare ogni particolare di fattura tematica,
artistica, estetica.
Le imprese private minori, le piccole emittenti - ecco trovata un'altra
tipologia -quelle che non saranno o non vorranno essere assorbite dai
network, tanto più potranno acquisire spazi di ascolto e solidarietà
di interessi quanto più si caratterizzeranno come "locali".
La cancellazione della propria immagine locale ha già molti esempi
qui, nella nostra regione; molte emittenti hanno rinunciato a trasmettere
il proprio "videogiornale" o "telegiornale" o "notiziario"
- come si voglia chiamare - bollato spesso, dalla stampa preconcettualmente
ostile, come "festival della verbosità"; hanno smesso
di produrre cortometraggi incentrati sui nostri costumi, sulle tradizioni
regionali e provinciali, hanno rinunciato a riprendere e trasmettere
sagre, rappresentazioni teatrali, concerti di gruppi folkloristici o
spontanei, che magari si servono dei dialetti locali. Hanno ambito conformarsi
ad un modello allotrio, come fanno i quotidiani provinciali che vogliono
scimmiottare il "Corriere della Sera" o la "Repubblica"
o, per risolvere i problemi della sopravvivenza e seguire la logica
del profitto, hanno rinunziato alla propria identità "locale",
e questa volta il significato del termine è pregnante ed esclusivo.
Ma sono convinto che, in tal modo, esse hanno perduto le ragioni e la
possibilità di esistere nella "storia" televisiva,
quella delle trasmittenti planetarie irradianti, ingenuamente o pretestuosamente
regolate per legge in ambiti numerici di abitanti o di Kmq!
E' vero che l'utente medio corre verso il programma di evasione, al
film porno, al telequiz, alla telenovela, ai telefilm ciclici tipo Dallas,
Dinasty, Flamingo Road, ma è rivelato dalle statistiche delle
rilevazioni di audience, oltre che dall'esperienza della sazietà
del "nuovo", che c'è un lento, irrefrenabile calo,
via via più sensibile, dell'attrazione che aveva calamitato milioni
di spettatori, palesemente o nascostamente, verso i films dell'ora zero.
Il telespettatore diventerà, col tempo, un lettore di immagini
più maturo, smaliziato ed esigente, più interessato a
conoscere e ad essere informato, pur non disdegnando l'evasione e il
fantastico: ma non più come ora, in attesa solo di questo.
La riprova viene sempre dagli USA, dove cominciano a prosperare le emittenti
"specializzate". In tal modo, scrive Carlo Sartori si è
creata "la fortuna della 'tv a pagamento' (guidata dalla Home Box
Office, con ormai otto milioni di case collegate: paghi un canone mensile
e ricevi programmi speciali) e delle sempre più numerose stazioni
'specializzate', come quelle religiose, o come il Cable News Network,
che trasmette solo notizie per 24 ore (quasi dieci milioni di utenti)
o il più recente Spanish International Network (tre milioni di
utenti) che trasmette solo programmi in spagnolo per le comunità
'chicane'".
Anche con queste tendenze di orientamento selettivo da parte del teleutente,
che matureranno sincronicamente all'espansione dei satelliti, dovranno
confrontarsi i responsabili delle imprese di trasmissione; e i coraggiosi
inventori di stazioni veramente "locali" avranno un compito
più impegnativo, ma alla fine più appagante e remunerativo
anche in rapporto al peso che avrà la pubblicità, la quale
non potrà non avere un'area sempre più presente in sede
locale. Si veda l'enorme crescita delle inserzioni locali negli ultimi
due anni e si rammenti la difficoltà di procurarsi gli spots
in tempi precedenti.
Ci sarà indubbiamente una crisi di Incertezza e un periodo di
assestamento, ma chi saprà fare scelte insistite e terrà
conto che il primo arbitro della vita e della morte di queste iniziative
è l'utente armato dell'infernale mannaia del telecomando, deve
guardare all'audience locale come ad un serbatoio sicuro di utenza e
di clientela.
Quel che Françoise Giraud preconizzava per il futuro dei giornali,
che cioè quelli veramente regionali hanno un certezza di esistenza
(e da noi l'esperienza negativa de "L'Occhio" e de "Il
Globo" conferma la previsione), così si può prevedere
un futuro per le televisioni che, col rispetto di una pulizia tecnica
e professionale, sapranno essere veramente "locali".
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