§ IL CORSIVO

TELEVISIONE: DALLA PREISTORIA ALLA STORIA




Ennio Bonea



1) LE INIZIATIVE LEGISLATIVE.

Il sentiero dei tentativi di ritocco e di intervento sulla RAI-TV prima e sull'emittenza privata poi, è tortuoso e come quello dell'inferno lastricato con le buone intenzioni, mai approdate a risultati concreti.
Aprì la serie degli apporti parlamentari, il progetto Parri nel 1964, cui seguirono nel 1965 quello di Lajolo, nel 1969 quello del PSIUP, simili tra loro per disegnare un profilo della RAI-TV sul modello dell'ENI; nel 1970 le proposte De Maria e Bergamasco-Veronesi tendevano invece ad allentare i vincoli dello Stato e dei poteri dello Stato sull'Ente televisivo.
Le discussioni sul tema degenerarono spesso in polemiche roventi che lasciarono i segni con le successive giubilazioni/dimissioni di Sandulli, Barnabei, Paolicchi e di Bagi.
Ma l'insorgenza dello scontro tra Ente di Stato ed emittenza privata, si ebbe nel secondo ministero Andreotti, allorché il Ministro delle Poste Gioia (l. VI. 1973) emanò un decreto di chiusura di TeleBiella, con il tacito consenso (va rammentato per l'incoerenza) del PLI che era al governo. Con il quinto gabinetto Rumor (15.3.1974), la riforma della RAI-TV entrò nel programma di quel governo, e poi di quelli successivi, finché fu approvata la legge 103 del 1975 che dispose: la riforma delle strutture interne della RAI; l'assetto dell'amministrazione dell'Ente; la istituzione della 3a rete a partire dal 1° gennaio 1978, slittata all'anno successivo; il riconoscimento di uno snervato pluralismo con l'istituzione dei "programmi dell'accesso", definiti, in un convegno regionale di Bari (maggio 1978), dal prof. Amendola, un "istituto di tipo fondamentalmente risarcitorio".

2) LA CORTE COSTITUZIONALE

Il 10 luglio 1974, la prima sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava la non illegittimità del monopolio televisivo statale in mancanza di garanzie che consentissero il pluralismo, apriva una breccia nella muraglia della opposizione alla iniziativa privata, pur allontanando la minaccia dell'installazione, in acque extra territoriali, di ripetitori che irradiassero In Italia programmi di televisioni estere.
Senza ripercorrere le cronache degli intertempi, si arriva alla seconda e ben più decisiva sentenza della Corte Costituzionale a due anni dalla prima.
Il 2 luglio 1976 (sent. n. 220) la Corte riconosceva, in base agli artt. 3 e 21 della Costituzione, il diritto ai privati di accedere al mezzo televisivo per diffondere notizie e programmi in ambito locale.
Non va trascurato che la Corte, forse eccedendo i compiti di istituto, indicava, in quella sentenza del '76, gli impegni normativi che il governo avrebbe dovuto fissare per legge:
1) i requisiti del richiedente l'autorizzazione ad un impianto di radio o telediffusione;
2) le caratteristiche tecniche degli impianti,
3) la delimitazione dell'ambito;
4) i limiti cronologici percentuali della pubblicità;
5) il diritto di interferenza col servizio pubblico;
6) il divieto di concentrazioni mono o oligopolistiche.
Gli infruttuosi proponimenti dei governi dal Rumor cinque a quello Spadolini (quello di Fanfani non ha compreso nel programma la regolamentazione della emittenza privata), di dare una norma a questo nuovo spazio riconosciuto come diritto costituzionale, ha provocato il sorgere tumultuoso e sfrenato di iniziative che sino allo scorso anno (1982) ammontavano, senza tuttavia certezza di dati, a più di 3 mila radio e circa 650 stazioni televisive. L'emergere, in questa selva selvaggia di una imprenditoria con enormi disponibilità finanziarie, con piani di sviluppo e di programmazione ben elaborati e con capacità di concorrenza col monopolio televisivo statale nell'area dell'informazione politica con un telegiornale alternativo da diffondere In tutto il territorio nazionale, attraverso una tecnica di collegamenti chiamata "interconnessione", ha provocato una terza sentenza della Corte Costituzionale. Nel luglio 1981 veniva ribadita, nella vertenza RAI-TV - Rizzoli, la non legittimità della "interconnessione".

3) SITUAZIONE ODIERNA

Abbiamo dunque alle spalle tre sentenze della Corte Costituzionale che, pur in qualche contraddizione tra loro, sanciscono e riconoscono il diritto costituzionale del cittadino italiano di disporre di ogni mezzo, anche quello radio- televisivo, per "manifestare liberamente il proprio pensiero" (art. 21); tre tentativi di varare un d.d.l. governativo: il primo del ministro Gullotti (luglio 1975) decaduto per fine anticipata della legislatura, il secondo del ministro V.no Colombo (febbraio '80), superato da quello ministro Gaspari ('81) che è il terzo (mentre il ministro Di Giesi, che è il dicastero tra i due, non riuscì a confezionare il proprio). Tutti sono orientati a fissare l'ambito locale in chilometri di raggio, il tetto massimo di pubblicità inseribile nei programmi, la percentuale minima di produzione originale. Tre proposte di legge della FIEL (ott. '79), del PCI ('80) e del PDUP ('80), anch'esse sulle linee di quello governativo: ovviamente quello della FIEL in senso attenuativo delle restrizioni, ma nella logica governativa.
Abbiamo alle spalle una serie non enumerabile di convegni, dibattiti, tavole rotonde sull'argomento del rapporto tra Ente statale ed emittenza privata e basta soltanto far cenno che In Puglia tra il '77 e l' '82 si sono succeduti: gli incontri di Lecce e Martina Franca nel '77, Bari nel '78, Otranto nell' '80, Ceglie nell' '81, Tricase nell' '82, Casarano un mese fa. Abbiamo assistito e partecipato a polemiche a volte aspre e violente, poi via via meno velenose e attenuate sino a tramutarsi in incontri conciliativi e orientati all'intesa e alla collaborazione.
E' cresciuta una netta demarcazione nel settore privato dove, contrariamente a quanto con violenza sentenziava il compianto Paolo Grassi e prevedeva a Bari, nel '78, Michele Campione quando prospettava, dopo la "effimera stagione della novità", un incontrastato primato della RAI-TV, si sono costituiti i network (unificazione totale o parziale dei palinsesti in aree geografiche diverse). Questi network hanno messo in mostra i limiti della programmazione dell'Ente televisivo di Stato, ma nello stesso tempo hanno snaturato il profilo "locale" delle emittenti e anno creato nella folla delle stazioni private la categoria delle "piccole" emittenti che corrono il rischio, ma forse è un privilegio, di restare "locali". Siamo arrivati, velocemente, ad oggi.

4) L'INTERCONNESSIONE.

A Ravenna, il PRI ha convocato nell'aprile una assise per dibattere il tema del film tra cinema e TV e per presentare la p.d.l. sulla regolamentazione della radiotelediffusione. La p.d.l. repubblicana non è ferma alla sentenza della C.C. del 1976 che ha condizionato il progetto governativo e le proposte del PCI e del PDUP, sui limiti da assegnare all'emittenza privata e sugli obblighi e divieti da imporre alla programmazione, ma parla di concorrenza in un sistema misto, tra pubblico e privato, e tuttavia fissa "ambiti" e percentuali.
Ma già su "La Voce Repubblicana" del 30 marzo, l'on. Spadolini aveva scritto che il progetto punta a riconoscere per legge l'interconnessione fra varie emittenti come garanzia effettiva delle condizioni di pluralismo nel settore dei notiziari televisivi (secondo una direttrice fissata dal primo governo Spadolini), ribadendo in una dichiarazione diffusa dai quotidiani che il progetto punta a realizzare "una nuova forma di convivenza tra un monopolio Rai, da ricondurre nei suoi giusti limiti, e un complesso di televisioni nel quale si rispecchia il pluralismo della società".
Una presa di posizione a favore della "interconnessione" si trova nelle lettere che i segretari del PLI e del PSDI hanno inviato il 30 marzo a "Il Giornale Nuovo".
L'on. Zanone esprime il suo convincimento che una credibile informazione alternativa, per attuarsi, abbia bisogno dell'interconnessione tra varie emittenti, interconnessione definita per legge con garanzie a tutela di tutte le espressioni di pluralismo.
L'on. Longo, in sintonia, dichiara: "Ritengo pertanto anacronistica, sotto il profilo politico e tecnico, la battaglia contro i collegamenti nazionali delle reti private e lavorerò perché si arrivi ad una legislazione nella quale, accanto al sistema pubblico dell'informazione e dello spettacolo, sia consentita la diffusione su tutto il territorio nazionale di reti private che rappresentano momenti fondamentali della nostra vita democratica e pluralista".
Qualche giorno prima, su "l'Avanti!" del 23 marzo, Francesco Tempestini aveva ampiamente illustrato e sistemato la Regola del gioco per la radiotelevisione, nella visuale socialista. A parte qualche fumosità verbale, che tuttavia non nasconde alcuna ambiguità, Tempestini sosteneva che "gli equilibri di mercato si realizzano in cornici normative condivise e valide per tutti[..] norme di garanzia contro eccessivi accentramenti di potere".
Ma il rappresentante socialista è decisamente chiaro allorché affronta i temi "caldi": è contro il protezionismo, quando afferma che lo Stato "non può continuare a mantenere la sua industria culturale dello spettacolo e della informazione completamente sottratta e protetta rispetto alle leggi del mercato". Raccomanda di non perdere il senso della realtà; nella normativa da approntare, perla "dimensione paranazionale" e per la "quota consistente dell'ascolto e maggioritaria del mercato pubblicitario" del network, per i quali prevede il sorpasso del messaggio pubblicitario televisivo su quello giornalistico e il raddoppio sulla quota della RAI-TV, nel 1983.
"Non è dunque pensabile - avverte Tempestini - che si vada ad una disciplina di tipo reversivo rispetto all'assetto attuale"; pertanto sulla questione nodale dell'interconnessione, egli ritiene "che la normativa debba consentire ai network la trasmissione di programmi per una quota consistente di ore giornaliere mentre deve essere in pari tempo consentita ed anzi incoraggiata la possibilità di diffondere informazioni su scala locale e regionale". Insomma, conclude: "La legge deve, secondo noi, contenere non solo vincoli, quanto soprattutto incentivi".
I democristiani, in un convegno romano dell'8 marzo, avevano affrontato il problema della disciplina dell'emittenza privata, non riuscendo a trovare un'intesa sull'interconnessione, ma neanche escludendola. Sono rimasti dunque su posizioni di intransigenza nell'ambito locale, e perciò contro la interconnessione, soltanto il PC/ e il PDUP. La Camera dei Deputati, infine, nella seduta del 14 aprile, con una votazione contraddittoria e inconcludente, su varie mozioni, ha lasciato le cose come stavano.

5) I MALI DELLA RAI.

La discussione sulla normativa da emanare si è dilatata all'esame della situazione di malessere e di crisi dell'Ente di Stato; e mentre Tempestini, nel citato articolo, si limitava a sollecitare la RAI ad abbandonare le nostalgie di un "santuario", dissacrato ormai, e "a fare gli esami ogni giorno, a uscire in mare aperto affrontando la concorrenza del mercato", il prof. Giuseppe Vacca, consigliere d'amministrazione RAI per il PCI, in una nota su "l'Unità" del 27 marzo 1983, stesa per contestare la proposta dell'on. Piccoli di differenziare il budget tre le tre reti in proporzioni all'indice di ascolto e proporre a sua volta la gestione unitaria per eliminare la concorrenza interna (tesi contrastata da Tempestini), punta coraggiosamente, e con ammirevole onestà intellettuale, il suo obiettivo radiografico per "schermare" i mali della RAI.
Essi, ritiene Vacca, non dipendono dagli attacchi concorrenziali portati dagli "oligopoli privati" e dal "mercato Internazionale dell'industria culturale", ma "dalle lotte politiche interne all'azienda, poiché essa è 'lottizzata' tra i partiti di governo sia nelle reti e nelle testate, sia nelle strutture di servizio".
Senza insistere sulla patologia dell'Ente pubblico, ma rilevandola dalla analisi di un addetto ai lavori per passare poi a considerare lo "stato di salute" dell'altro versante, si deve dedurre, da quel che Vacca ritiene, non rinviabile "sottrarre le attività produttive dell'azienda sia alla scomposizione attuale imposta dalla spartizione partitica della RAI, sia ad un'ottica miope, che finalizza iI prodotto RAI sostanzialmente ad un solo mercato (se così si può dire): quello determinato dalle sue stesse reti", che l'ostacolo fondamentale che l'Ente pubblico deve superare è inerente al rapporto: produzione - acquisti. La RAI-TV, con i suoi 13.500 dipendenti, con i circa 25 mila collaboratori, con i 1.200 miliardi di entrate annue, è, in potenza il più forte centro editoriale esistente in Italia, la più grande centrale di cultura e di informazione che deve misurarsi, confrontarsi e competere non tanto, e non solo, con le ormai grandi concentrazioni private interne, ma con quelle Internazionali.

6) PATOLOGIA DELL'EMITTENZA PRIVATA

Sinora, riferendomi alle iniziative germogliate impetuosamente a partire dal 1977, ho usato indifferentemente gli aggettivi "private", "libere", "locali", adeguando il significato allo specifico contesto dell'argomentazione; in realtà oggi, dopo vicissitudini di taglio giudiziario, di natura finanziaria, di ordine strutturale e professionale, l'unica qualifica pertinente per le centrali radiotelevisive dovrebbe essere "private" per distinguerle da quella pubblica. Marginalmente, cioè nella zona ristretta di vera autonomia, poche sono ancora le "libere" e forse meno ancora sono quelle "locali".
C'è dunque una patologia diffusa anche nell'emittenza privata. Queste emittenti nacquero per affermare delle connotazioni che non si riscontravano nell'Ente televisivo di Stato: il legame con la comunità locale; la libertà di analisi e di critica; l'azione di registrazione e di recupero di tradizioni, di costume, di linguaggio; il dibattito su temi locali e regionali non affrontabili a livello nazionale. Ebbero, al foro inizio, il favore e la simpatia degli utenti locali, ma soffrirono l'irrisione e il dileggio dei professionisti televisivi e dei conformisti ideologici, il disprezzo di quanti avevano legami diretti ed indiretti con l'Ente di Stato. Non hanno mai avuto, e non hanno ancora, un rapporto critico-costruttivo con la stampa quotidiana o periodica regionale o provinciale che ha ripreso, e riprende, le note d'agenzia sui programmi televisivi nazionali, ma non ha mai speso un rigo per sottolineare o Incoraggiare una rubrica, un programma, una produzione o una registrazione locale e con l'arcigno disgusto del critico prevenuto, ha trinciato condanne su "robaccia ignobile", su "incapacità tecniche e professionali": mai un suggerimento o una critica puntuale e costruttiva.
Poi sono venuti i network e le emittenti locali non sono state più libere di disporre di propri palinsesti, di propri spazi pubblicitari, di programmi realmente locali. Non starò a fare anagrafi di emittenti pugliesi, né indicazioni di quelle che conservano un proprio "video o telegiornale"; ma dirò che in una regione dove la percentuale dei lettori di un quotidiano si mantiene ancora ai livelli di quaranta anni fa, cioè quattro lettori su cento abitanti, i "tele o videogiornali" delle TV locali riescono ad avvicinare alla realtà politica e sociale uomini che nel duemila vivono ancora separati dal mondo come fossero in età feudale.
Ora i rischi delle televisioni private, che alla loro origine consistevano nel pericolo della involuzione, della deviazione, della degenerazione servile, si condensano in quello di scomparire come entità, per assumere il compito di prestanome; l'impegno della professionalità e della obiettività richiesto dalla deontologia del giornalismo per immagini e parole, viene meno per mancanza di addetti. In tale situazione, lo scontro tra il monopolio riconosciuto come privilegio e la libertà di una informazione non controllata dalle centrali politiche, si vorrebbe fosse risolto da una legge che si configura come un bavaglio. E c'è chi pretende di "regolamentare subito" una impresa autonoma, quasi non esistessero le leggi generali. Se mai, c'è da affermare che bisogna fare cadere ogni divieto e impedimento che limita la libertà di creare una informazione alternativa.
Devo confessare che fino a questa ondata di neo-protezionismo verso la RAI-TV, ero convinto della opportunità di una legge che desse una caratterizzazione "locale" alle nuove emittenti. L'esperienza mi ha persuaso che anche questa caratterizzazione è una scelta che deve essere lasciata alla libertà di chi la voglia, anche se è ormai chiaro che non sarà l'imposizione di un parametro di produzione originale a consentire ai più deboli di resistere all'azione di risucchio messa in essere dai gruppi più solidi economicamente.
Non si può imporre ad un imprenditore che intenda dar vita ad una fabbrica di automobili che le sue auto siano a tre ruote o di cilindrata non superiore ai 300 cc.
Ma se questa diatriba sulla regolamentazione si palesa in contrasto con il principio costituzionale e con le leggi empiriche del mercato, essa si qualifica come anacronistica e miope fino a rasentare la cecità, se si rapporta alla previsioni immediate dello sviluppo tecnologico della telematica e dell'elettronica, che hanno fatto timidamente parlare, qualche tempo fa, di "legge pronta" in attesa degli eventi.

7) IL FUTURO PROSSIMO

Sappiamo tutti quel che sta avvenendo negli USA. Dal satelliti "di comunicazione", chiamati "da punto a punto", che hanno consentito e consentono le "dirette" degli spettacoli sportivi, attraverso stazioni riceventi e ripetitori, che si sono accoppiati con il "cavo" per trasmettere le immagini senza le distorsioni e i disturbi della "via etere", si è passati ai satelliti "a diffusione diretta" che, con un'antenna individuale, diametro non più grande di un metro, la cosiddetta "antenna da giardino", consentono di raggiungere, senza stazioni e ripetitori, il cento per cento degli abitanti di una determinata area.
Non ho specifica preparazione tecnica per illustrare i traguardi di sofisticati congegni raggiunti dalla tecnologia giapponese, ma siamo informati che la perfezione delle immagini trasmesse è dovuta al raddoppio delle linee dei video (da 5251625 a l. 125), pari a quelle delle pellicole cinematografiche a 35 mm. Tra qualche anno, sarà solo questione di acquisto di antenne ancora più perfezionate di quelle paraboliche che, attualmente, consentono agli sceicchi arabi e agli abitanti di regioni desertiche dell'Alaska, privi di strutture ed impianti riceventi, di vedere immagini da tutto il mondo, al costo corrente tra i tre e i diecimila dollari (dai 4,5 ai 10 milioni circa).
L'Europa è in sensibile ritardo nel settore hardware (produzione di macchinari) che negli Anni Ottanta ha una previsione di movimento finanziario di circa 25 mila miliardi, passibile di Incremento per la richiesta dei Paesi in via di sviluppo. La preminenza delle industrie elettroniche americane e giapponesi sono senza competitori, vista la crisi dell'accordo franco-tedesco, un sintomo del quale sono le difficoltà della AEG-Telefunken. Accordo che nel 1979 fece fallire il progetto di satellite televisivo Haevysat da realizzarsi con la creazione di una Agenzia Spaziale Europea. La cooperazione continentale venne sopraffatta da ragioni di carattere economico e industriale interne e di egoismo nazionalistico che fecero pensare a Francia e Germania di appropriarsi del mercato dei satelliti televisivi, degli strumenti per orbitarli, con lo sviluppo delle proprie industrie elettroniche e spaziali.
Ma l'Europa comunitaria è in difficoltà e in ritardo anche nel settore software (confezione dei programmi), per incapacità di utilizzazione delle attrezzature di cui dispone. Chi sta approfittando della situazione, sono Lussemburgo e Svizzera, che hanno approntato progetti di programmi rivolti ad una area di circa 100 milioni di potenziali utenti, mentre ambiziose programmazioni sono in cantiere a Montecarlo, in Liechtenstein e Andorra. Tutto questo, si dice da parte degli esperti, perché Gran Bretagna, Germania Federale e Francia si basano su Enti pubblici nazionali. L'Italia non è neppure in condizione di competere con le tre nazioni "imputate", tuttavia si estenua nel cercare di "legare" con lacci giuridici un fenomeno di esplosione industriale e commerciale che sfugge ad ogni tentativo di imbrigliamento.
Il lancio del satellite TDRS della missione Challenger del 5 marzo, capace, come hanno scritto i giornali, "di digerire l'equivalente di 140 volumi di un'enciclopedia nel breve sussulto di un secondo", non solo mi fa pensare che noi ci troviamo nella preistoria a combattere con clave ed asce amigdalari per la primazia in un campo che ci è stato espropriato, e che abusiamo del potere poliziesco per impedire a radio radicale di trasmettere in diretta, per chi voglia ascoltare e giudicare in perfetta rispondenza dei metodi democratici che non vengono praticati dalla RAI-TV, le sedute parlamentari.

8) LE EMITTENTI "LOCALI", DOMANI.

In tale situazione, dovere ed interesse di ogni iniziativa televisiva, pubblica o privata che sia, è di tener l'occhio puntato sullo sviluppo tecnologico, fare attentamente i conti aziendali per sapere i limiti dell'impegno e della capacità finanziaria, cercare di distinguersi in modo originale dalla produzione che verrà diffusa dai satelliti.
Su questo piano, l'azienda pubblica e quella privata hanno un percorso obbligato e parallelo: devono imporsi un obiettivo di programmazione "locale" a livelli differenziati.
La RAI-TV, e il network che con lei vorrà misurarsi, dovranno mirare a connotare In senso nazionale la programmazione da diffondere nel circuito italiano, per distinguerla da quella che perverrà dal "sistema televisivo planetario" e, se vorranno conquistare spazi extranazionali, dovranno curare ogni particolare di fattura tematica, artistica, estetica.
Le imprese private minori, le piccole emittenti - ecco trovata un'altra tipologia -quelle che non saranno o non vorranno essere assorbite dai network, tanto più potranno acquisire spazi di ascolto e solidarietà di interessi quanto più si caratterizzeranno come "locali".
La cancellazione della propria immagine locale ha già molti esempi qui, nella nostra regione; molte emittenti hanno rinunciato a trasmettere il proprio "videogiornale" o "telegiornale" o "notiziario" - come si voglia chiamare - bollato spesso, dalla stampa preconcettualmente ostile, come "festival della verbosità"; hanno smesso di produrre cortometraggi incentrati sui nostri costumi, sulle tradizioni regionali e provinciali, hanno rinunciato a riprendere e trasmettere sagre, rappresentazioni teatrali, concerti di gruppi folkloristici o spontanei, che magari si servono dei dialetti locali. Hanno ambito conformarsi ad un modello allotrio, come fanno i quotidiani provinciali che vogliono scimmiottare il "Corriere della Sera" o la "Repubblica" o, per risolvere i problemi della sopravvivenza e seguire la logica del profitto, hanno rinunziato alla propria identità "locale", e questa volta il significato del termine è pregnante ed esclusivo.
Ma sono convinto che, in tal modo, esse hanno perduto le ragioni e la possibilità di esistere nella "storia" televisiva, quella delle trasmittenti planetarie irradianti, ingenuamente o pretestuosamente regolate per legge in ambiti numerici di abitanti o di Kmq!
E' vero che l'utente medio corre verso il programma di evasione, al film porno, al telequiz, alla telenovela, ai telefilm ciclici tipo Dallas, Dinasty, Flamingo Road, ma è rivelato dalle statistiche delle rilevazioni di audience, oltre che dall'esperienza della sazietà del "nuovo", che c'è un lento, irrefrenabile calo, via via più sensibile, dell'attrazione che aveva calamitato milioni di spettatori, palesemente o nascostamente, verso i films dell'ora zero.
Il telespettatore diventerà, col tempo, un lettore di immagini più maturo, smaliziato ed esigente, più interessato a conoscere e ad essere informato, pur non disdegnando l'evasione e il fantastico: ma non più come ora, in attesa solo di questo.
La riprova viene sempre dagli USA, dove cominciano a prosperare le emittenti "specializzate". In tal modo, scrive Carlo Sartori si è creata "la fortuna della 'tv a pagamento' (guidata dalla Home Box Office, con ormai otto milioni di case collegate: paghi un canone mensile e ricevi programmi speciali) e delle sempre più numerose stazioni 'specializzate', come quelle religiose, o come il Cable News Network, che trasmette solo notizie per 24 ore (quasi dieci milioni di utenti) o il più recente Spanish International Network (tre milioni di utenti) che trasmette solo programmi in spagnolo per le comunità 'chicane'".
Anche con queste tendenze di orientamento selettivo da parte del teleutente, che matureranno sincronicamente all'espansione dei satelliti, dovranno confrontarsi i responsabili delle imprese di trasmissione; e i coraggiosi inventori di stazioni veramente "locali" avranno un compito più impegnativo, ma alla fine più appagante e remunerativo anche in rapporto al peso che avrà la pubblicità, la quale non potrà non avere un'area sempre più presente in sede locale. Si veda l'enorme crescita delle inserzioni locali negli ultimi due anni e si rammenti la difficoltà di procurarsi gli spots in tempi precedenti.
Ci sarà indubbiamente una crisi di Incertezza e un periodo di assestamento, ma chi saprà fare scelte insistite e terrà conto che il primo arbitro della vita e della morte di queste iniziative è l'utente armato dell'infernale mannaia del telecomando, deve guardare all'audience locale come ad un serbatoio sicuro di utenza e di clientela.
Quel che Françoise Giraud preconizzava per il futuro dei giornali, che cioè quelli veramente regionali hanno un certezza di esistenza (e da noi l'esperienza negativa de "L'Occhio" e de "Il Globo" conferma la previsione), così si può prevedere un futuro per le televisioni che, col rispetto di una pulizia tecnica e professionale, sapranno essere veramente "locali".


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