§ RIVISITAZIONI

VIVA LI TURCHI?




Ada Provenzano



Sono tempi di rivisitazione e di riscoperta, o riconsiderazione, di luoghi e di vicende storiche, di fatti e di personaggi. Così, il grigiore della vita nelle repubbliche dell'Europa centro-orientale sta alimentando strepitosi revivals austro-ungarici (mai sopiti, del resto, nell'Italia nord-orientale). La riabilitazione dell'impero zarista non è una novità, tant'è che - anche prima di Solgenitzin -alcuni storici sovietici avevano già ribattezzato le conquiste coloniali in Russia con una parola più rispettabile: "prisoedinenie", che può tradursi con "unione", o forse più agevolmente con "annessione". E in questi ultimi tempi si va profilando una diversa analisi storica e politica dell'Impero Ottomano, resa inevitabile, con ogni probabilità, dagli errori endemici (guerre, colpi di stato, stragi fratricide) che tormentano le antiche province del Medio Oriente e dintorni. In realtà, non è mancato chi si è cimentato di rendere finalmente giustizia al Gran Turco. Ma lo ha fatto in modo quasi clandestino, all'interno di conventicole e quasi esclusivamente tra addetti ai lavori. E basti pensare al cospicuo numero speciale, di circa cinquecento pagine, che la rivista "Il Veltro" dedicò nel 1979 ai rapporti fra Italia e Turchia, dalla caduta di Troia ai nostri giorni. In quel numero, fra tanti eruditissimi articoli e saggi, uno in particolare, firmato da Lucia Rostagno, nello stesso tempo stupiva e suscitava ammirazione per la coraggiosa difesa dei "rinnegati", vale a dire di quei cristiani che "si facevano turchi", un po' per ingraziarsi i nuovi padroni dopo la cattura in mare da parte dei corsari "barbareschi", e un po' per scelta più o meno spontanea, allo scopo di "cercare scampo a intollerabili condizioni di vita" in Europa, ma soprattutto nelle terre d'Italia e di Dalmazia.
Il fatto che nell'Impero Ottomano non esistesse un'autentica aristocrazia "di sangue", (e cioè, per dirla con Machiavelli, che i Turchi fossero "tutti servi" di un solo principe), scandalizzava i nobili veneti, ma incendiava la fantasia e i sogni dei plebei. Non stupisce, perciò, che migliaia di "marinai, bottari, calzolari e ortolani.. tutti da fino" fuggissero dall'Occidente cristiano verso l'Oriente musulmano per mettersi al servizio del "Gran Signor" di Costantinopoli.
"Sono numerosi - scrive la Rostagno - gli esempi tratti dal folclore e dalla letteratura popolare sui "rinnegati" e tutti ribadiscono li carattere di liberazione, di speranza che l'andata nelle terre musulmane sembra promettere e di fuga da una condizione insostenibile". E cita i versi che furono scritti contro il Duca di Ossuna:

Che ci habbia in tanti modi assassinati
E lasciati di fame anche morire
Che ci habbia fatto a' Turchi fuggire
Da' tuoi capestri e da' ferri infocati...

E un canto (d'amore) veneziano:

Si fusse un pesce, me trarìa in lo mare
Andrìa dai Turchi a renegar la fede...

E infine un "modo di dire", anche questo veneziano: "Volto i quadri (sottinteso: dei Santi) e me fazzo turco".
Sono passati più di quattro anni da quella breve fiammata di passione turchesca, ed ecco un'altra iniziativa editoriale, che viene a riproporci il tema inquietante. Per il Saggiatore è venuto fuori un libro enigmatico, di incerto autore e di ambigua ispirazione, oltre che di travagliato destino: "Avventure di uno schiavo dei Turchi", attribuito al medico spagnolo Andrés Laguna. Nella splendida introduzione, il curatore (che è anche attento traduttore) Cesare Acutis ci spiega che il testo fu scritto fra il 1556, anno dell'abdicazione di Carlo quinto, e il 1557, in un'epoca, cioè, nella quale la reazione assolutista e clericale non aveva ancora spento nella Penisola lberica le prospettive di un'evoluzione borghese, moderna, "europea", della società spagnola, di una fuoriuscita "laica" (diremmo oggi) dal Medio Evo, e di una vittoria dei princìpi erasmiani di tolleranza sul fanatismo e sul l'oscurantismo.
I critici si sono accapigliati a lungo pro e contro l'autenticità delle "Avventure".Alcuni la ritennero un'autobiografia veritiera, altri un testimonianza attendibile, ma arricchita da brani rubati altrove. Il più perentorio di tutti gli studiosi, Marcel Bataillon, "constatò" che si trattava di una brillante supercherie littèraire, che è come dire che ci si trovava di fronte a un falso ben manipolato, "di un ammirevole montaggio di materiali preesistenti". Donde la conclusione: che a prescindere dall'autore e dalle fonti, il valore documentario dell'opera resta valido, come pure l'ammiccante, malizioso, subdolo messaggio, tanto più efficace e persuasivo, in quanto non viene dalla bocca o dalla penna di un "rinnegato", ma anzi da quella di un cristiano convinto e (sedicente) devoto, che per non farsi circoncidere ha sfidato la morte, e che agli onori e agli agi della metropoli islamica ha preferito i rischi mortali dell'evasione".
Politico, ideologico e culturale (in uno), il messaggio di Pedro Urdimalas, il plebeissimo eroe del dottor Laguna (è "figlio di una mamma, cugino di un barbiere e nipote di uno speziale"), si nutre di fatti e si fa forte del più solido, popolaresco buon senso. I Turchi non sono certamente stinchi di santo. Impalano, cruciffiggono, decapitano: ma non più di quanto non impicchino i sovrani europei. Sono tutti, o quasi, sessualmente pervertiti, (canta Baki, che nella vita esordì sellaio e finì Gran Giudice: "Il mio cuore è uno schiavo incatenato alla capigliatura del mio amato; - la mia anima è un ammalato... l'oceano del desiderio, o mio Bey, non ha rive), ma in altri campi non mancano di virtù. Non bevono vino (però, con saggia indulgenza, lo lasciano bere ai cristiani), mangiano con sobrietà, sono molto puliti (almeno una volta alla settimana frequentano il bagno pubblico), apprezzano e ricompensano con monete d'oro e con vesti di broccato la professionalità degli artigiani, dei medici, dei cerusici, anche se schiavi, e soprattutto pregano senza troppe cerimonie, dove capita, senza doversi recare sempre in moschea, realizzando così con Dio un rapporto libero e personale, di sapore quasi "protestante". Sulle navi turche si vive malissimo. Ma: "Credete che le galere dei cristiani siano meglio? Sono anche peggio". Ai loro prigionieri, i Turchi tagliano a zero barba, baffi e capelli, per ragioni igieniche e per poteri! riconoscere se fuggono. Ma non li marchiano a fuoco "in volto, come facciamo noi". Perchè questo "Io ritengo una cosa cattiva, un grande peccato". E quando "il vento è prospero e non debbono remare, oppure quando la galera è in porto", i galeotti hanno il permesso di lavorare per conto proprio, di fare "calze, chiodi di legno, ottimi stuzzicadenti, ornamenti per i capelli", e di venderli. "Con questo, (i poveri schiavi) si rimpannucciano e certe volte mangiano meglio dei capitani". In questo modo, grazie a Dio e ai Turchi, "sono più grassi, lustri, belli e forti dei cortigiani che passeggiano per queste strade a dorso di mulo". (E si capisce: nella Spagna vagabondavano 150 mila mendicanti, storpi, ciechi, banditi, picaros; l'economia era in uno stato disastroso, l'oro del Perù finiva ad Amsterdam e a Londra, la siccità rovinava i raccolti, tutti gli spagnoli praticamente soffrivano la fame).
Cosmopolita, eterodosso, anticlericale, ultraecumenico (ma in senso laico), aperto a tutte le influenze e a tutte le esperienze, il manoscritto delle "Avventure" non poteva avere, e infatti non ebbe, fortuna. Per tre secoli e mezzo giacque ignorato sotto la polvere di illustri, ma gelose biblioteche. Fu pubblicato soltanto nel 1905. 1 motivi sono ovvi!. Con l'ascesa al trono di Filippo secondo, la Spagna diventò il baluardo del più rigoroso dogmatismo contro ogni sfumatura di dissidenza. Le tenaglie degli aguzzini e i roghi dell'inquisizione misero ordine nei cervelli. Due anni dopo, e non per puro caso, fu proibito e poi "purgato" il celeberrimo "Lazzarino di Tormes", che con le "Avventure" di Pedro Urdimalas ha tanti punti di contatto e persino un padre putativo in comune: Cristòbal de Villalòn.
Non per questo sarebbe morta la letteratura spagnola. Tutt'altro. Miguel de Cervantes aveva solo dodici anni e forse già sognava Don Chisciotte e Sancio. Lope de Vega, Tirso de Molina, Calderòn de la Barca dovevano ancora nascere. Si avvicinava il "Secolo d'oro". Ma di libertà di coscienza non si sarebbe parlato ancora per alcune generazioni. E nessuno si sarebbe più azzardato a proclamare che il Turco e il Moro e il Greco e l'Eretico fossero tutti figli di Dio, come il "vecchio" cristiano, e altrettanto (se non più) capaci sì di bassezze, ma anche di generosità, di bontà e di amore.
Delle vicende musulmane in Puglia si è sempre parlato e scritto, con questa caratteristica: che esse sono più note dalle fonti italiane che da quelle "turchesche"; per queste ultime, infatti, si trattò di avvenimenti periferici, mentre, per le nostre, Otranto assurse a emblema di fulminee invasioni e conquiste, che coinvolsero battaglie, crociate e rapine e saccheggi e schiavitù. La vicenda più nota, come afferma il Gabrieli, è ovviamente quella più recente, quando nemici furono "Ii Turchi": l'ultimo grande Impero musulmano, nato nel 1300 in Anatolia, distruttore a metà del XV secolo dell'agonizzante Impero bizantino, e lanciatosi dall'espugnata Costantinopoli a minacciare per terra e per mare l'intera Europa cristiana. Cinquecento anni fa, infatti, ci fu il "martirio" di Otranto: episodio fuggevole, ripetiamo, ai fasti dell'impero ottomano, doloroso frutto - per i pugliesi -delle discordie italiane, alla vigilia degli interventi e delle dominazioni straniere nel nostro Paese.
Ma questa fase ottomana e barbaresca di cui furono protagonisti I Sultani del Bosforo con i loro eserciti e flotte, e le altre flotte, quelle praticamente autonome degli Stati corsari mediterranei, nominalmente vassalli della Porta (Tripoli, Tunisi, Algeri), è preceduta da un'altra, prettamente medioevale, nella quale i musulmani scorridori furono soprattutto Arabi e Berberi: i Turchi allora erano solo i turbolenti pretoriani dei Califfi di Baghdàd. Fu la prima, grande offensiva dell'Islàm contro l'Occidente cristiano.
Ma quale itinerario portò alla presenza in Puglia? Nel IX secolo, conquistata già la costa meridionale del Mediterraneo, gli Arabi musulmani d'Africa invasero lentamente e assoggettarono la Sicilia, risalendo la Calabria e la Basilicata, giungendo in Puglia, infestando la Campania, portando offesa alle porte di Roma, dove nell'846 saccheggiarono le basiliche di Pietro e di Paolo. In quel secolo, la Puglia fu sede di emirati arabi, a Bari e a Taranto, anche se l'intero Sud venne corso dalle micidiali masnade saracene, ora alleate, ora rivali dei Principati cristiani meridionali, dei Longobardi di Capua, di Salerno e di Benevento, delle Repubbliche marinare di Gaeta, di Napoli e di Amalfi. Queste terribili vicende sono state scrutate accuratamente da molti storici, dall'Amari al Cilento, al Musca.
L'Emirato di Bari durò dall'847 all'871: registrò il succedersi di tre dinasti arabi, fiancheggiati anche da elementi berberi, insieme con i quali avevano strappato di sorpresa la città ai Bizantini. E fu proprio una coalizione di Bizantini, di Longobardi e di Imperiali a ritogliere Bari agli emiri, il terzo dei quali, il saraceno Saudan, fu ritenuto flagello di Dio in Puglia, scorridore ferocissimo in Molise, distruttore delle Abbazie di Montecassino e di San Vincenzo del Volturno. Ma altre fonti lo rivelano non barbaro predatore, bensì ottimo stratega, uomo di ingegno, con tratti di civiltà e di saggezza originali, al punto che si è pensato che possa essere il prototipo storico reale della figura un poco leggendaria dello "Schiavo di Bari", filosofo e sentenziante, di cui parlano il Novellino e Boccaccio. Per Taranto, invece, nessun nome è giunto fino a noi, anche se l'insediamento musulmano fu pressoché coevo a quello barese, e se dalla città bimare partirono incursioni verso Oria e verso Gravina: effimere ma devastatrici.
Appartengono alla seconda fase la presa di Otranto da parte dei Turchi e la rovina di tanti borghi costieri pugliesi, assaliti dal mare. Di quelle vicende sopravvivono numerose testimonianze, ancora oggi, nella selva di torri costiere: qualcuna delle quali risale agli Aragonesi, ma che in grandissima parte sono d'età spagnola, e anche borbonica; erette contro il pericolo barbaresco dai Viceré di Napoli e dai loro ingegneri e architetti. Nel 1748 il numero complessivo di questi fortini di avvistamento era di 379, e secondo la testimonianza del Coco ottanta erano sulle coste di Terra d'Otranto. Ovunque, in Puglia, sono vivo ricordo di quel periodo di insicurezza: da un momento all'altro poteva spuntare dal mare la minaccia corsara, con le conseguenze del saccheggio e della cattività, che per le donne poteva anche significare il Serraglio del Gran Signore del Bosforo, ma che fu più spesso schiavitù, violenza al corpo e all'anima, catene in oscura prigionia.
I Padri Trinitari e altri religiosi si affannavano a promuovere e ad agevolare riscatti e scambi, giacché è verità che guerra da corsa e cattura piratesca erano, nel Cinque, nel Sei e nel Settecento, praticate da entrambe le parti. L'Ottocento spazzò via questo tipo di rapporti, sostituendovi l'offensiva a direzione unica del colonialismo europeo. E il Novecento ha disfatto a sua volta quella tela. Oggi, la parola è allo scambio: tecnologia contro petrolio.
Città-simbolo del Salento, Otranto Continua a interessare storici e filologi e saggisti. Ultimo, in ordine di tempo, Aldo Vallone, con una serie di interventi che approfondiscono e aggiornano i rapporti tra narrativa e saggistica e la città della strage, allargando il discorso alla cultura e varia umanità che si è interessata dell'argomento dal secolo XVII ad oggi. "Via via che ci si allontana dall'evento storico di Otranto - scrive Vallone - caduta in mano dei Turchi, si perdono insieme la lucidità e le ragioni delle circostanze e dei condizionamenti politico-militari ed anche le dimensioni del reale dramma umano e quotidiano della città e dei suoi abitanti. La fonte più genuina ( ... ) è negli accenni di Antonio De Ferrariis. Non molto dopo, verità storica e realtà drammatica non solo si vanno diluendo nel tempo, ma anche, rimescolandosi, si tramutano prima in scolastiche esercitazioni e poi, frammiste a queste, in fantasiose leggende".
Vallone nota che né gli storici, né i letterati del tempo seppero cogliere "l'occasione così come il fatto stesso, eccezionale sotto ogni aspetto, avrebbe forse richiesto". Perchè? Per motivazioni storiche: Venezia aveva sempre privilegiato la costa dalmata, a discapito di quella italiana dal Po in giù; lotte intestine tra gli Stati italiani avevano logorato equilibri instabili e precari. Motivazioni filosofico-letterarie: la cultura classica e medioevale "si disarticola e, pur non trascurando i problemi della fede e dello spirito, tende criticamente alla ricerca della ragione". L'eccidio di Otranto non ha echi rilevanti nell'epica, né nella tragedia, né nella lirica. La eccentricità storico-geografica è una inesorabile condanna. E i "locali" agiscono come possono, pagando i loro tributi agli impianti virgiliani e agli schemi scolastici del Tasso. Ne fa fede il De bello Hydruntino, in cinque libri inediti, di Giovanni Pietro D'Alessandro, "genuina espressione del livello medio a cui ( ... ) è giunta la letteratura di provincia".
Ancora Virgilio e Tasso dominano in La Hidrunte espugnata da' turchi nell'anno 1480, di Girolamo Pipini, e dal poema scritto da un altro galateo, Francesco Antonio Megha, Idriade. Del 1677 è una inedita Relatione dell'apparitione de S.ti Martiri d'Otranto in quest'anno 1677, conservata nel Fondo Gesuitico della Biblioteca Nazionale di Roma. Scrive Vallone: "Sotto l'aspetto letterario il fiabesco sacro s'insinua negli spazi lasciati vuoti dal profano: il miracoloso, a sua volta, tende a sostituire, proprio in un secolo travagliato tra strenue resistenze della magia e l'orgogliosa ascesa della scienza, il meraviglioso e il fantastico: le suggestioni dei viaggi oltre oceano, la straordinarietà delle invenzioni scientifiche, i contatti stabiliti attraverso le missioni dei religiosi nei paesi più lontani autorizzano nuove strutture metaforiche e rovesciano il vecchio armamentario e i frusti canoni della retorica. Cede l'epica e nasce il romanzo. Il Seicento è un gran secolo di commistioni e di stimoli, di errori balordi e di conquiste magnanime, tutto teso ad una perenne e fiduciosa sperimentazione".
La vicenda otrantina, tuttavia, continua a impoverirsi, con una ulteriore caduta nel passaggio tra i due secoli, quando ai letterati subentrano canonici e monsignori. Il sacerdote Francesco D'Ambrosio scrive nel 1751 un Saggio istorico della presa di Otranto e stragge de' Santi Martiri. E Giuseppe Naymo, arciprete di Ruggiano del Capo, presenta in esametri virgiliani una Historica narratio belli Hydruntini.
"Quel che cade nell'Ottocento - afferma Vallone - e scompare del tutto, è la tentazione del compiuto o del classicheggiante, nell'astratta ricerca dell'armonia e dei ritmi formali ( ... ). Il romanticismo eredita la situazione che gli si confà perfettamente. Inventa poco o nulla: tutto trova già bell'è fatto. Tutt'al più, nel riprendere quegli elementi, li rimedita, li sorregge Ai aggiunte, dà più libero corso al famigliare e al sentimentale".
E' del 1839 il romanzo del salentino Giuseppe Castiglione, Il Rinnegato Salentino ossia i Martiri d'Otranto, racconto storico del secolo XV, ("e come storico ne sa quanto uno storico: come romanziere conosce Scott e Manzoni, non d'altro v'è traccia evidente"). Del 1867 è, di Domenico Pelisier, Patria e religione o I Martiri d'Otranto, che nel titolo si qualifica e nell'epoca trova giustificata ragione. Dopo di che, "si fanno innanzi nuovi e diversi problemi": per esempio, quello del porto, che Ciampi, nel suo Carme su Otranto, ricorda ben riparato e capace di accogliere un vasto naviglio; e il De Dominicis (Capitano Black) assume le nuove istanze, sociali, culturali e linguistiche, con Li martiri d'Otrantu, che poi legittimerà le operazioni teatrali di oggi, da I martiri di Otranto di Trecca a Nostra Signora dei Turchi di Bene, a Il sacco di Otranto di Rina Durante, e dal cospicuo L'ora di tutti di Maria Corti, ai sonetti de Li martiri di Utràntu di Nicola G. DE Donno. "Può dirsi, in conclusione, - nota infine Vallone - che la vicenda di Otranto, dal XVII al XX secolo, attraverso cronache in versi, esercitazioni teatrali ed epiche rime varie di edificazione morale di monsignori e accademici, trova solo nell'età nostra interpreti isolati ma degni, come De Dominicis e Corti, che pur fermi nel rispetto della fede e della pietà, rigenerano l'episodio nella luce della poesia. Amaramente si può concludere col dire che chi poteva scrivere la vera e genuina storia di Otranto, nel dramma della fede e della morte, non la scrisse e la tenne in seno, nascosta come patrimonio spirituale e umano da trasmettere a voce. Di fatto la storia, lasciata in mano ai conservatori, cioè ai maestri di scuola, ne uscì irrimediabilmente contraffatta e sclerotizzata. Di questa sola, purtroppo, abbiamo le testimonianze e con queste noi abbiamo dovuto fare i conti".


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