§ ECONOMIA E COMUNICAZIONI

PORTI DEL SALENTO




Nello Wrona



"Finalmente tutto quello che giova ad accrescere la circolazione interna, le strade pubbliche, i canali di comunicazione, i porti ( .. ) giova ad equilibrare lo stato delle province a quello della capitale".
(G. Filangieri, "La scienza della legislazione, 1784)

Alla fine, due secoli dopo, l'esperienza storica dimostrerà che l'equilibrio non è stato raggiunto (e mai, forse, sfiorato) e che la tesi dei Filangieri apriva, già sul finire dei '700, la strada ad una serie di inquietanti ipotesi da vagliare e verificare.
In primo luogo, che l'accentramento spasmodico di ogni attività amministrativa e politica nella Napoli borbonica avrebbe irrimediabilmente compromesso, a lungo andare, gli interventi finanziari a favore delle "province" più meridionali. In secondo luogo, che lo sviluppo economico e sociale di aree ad alta densità demografica era strettamente condizionato dal parallelo potenziamento dei sistema di comunicazioni terrestri e marittime. In terzo luogo, e questa è la verifica, che i ritardi e le lacune operative avrebbero definitivamente spostato il baricentro degli affari e dei commercio verso il Nord, chiudendo gli sbocchi finanziari offerti dall'incipiente era industriale.
Le avvertenze ed i suggerimenti di coloro che, come il riformatore napoletano, consideravano la concentrazione della ricchezza (e, quindi, della spesa pubblica) in un solo punto della nazione ("La capitale, che dovrebbe essere una porzione dello Stato, è divenuta il tutto, e lo Stato non è più niente") come elemento frenante dello sviluppo meridionale, caddero nel vuoto. Napoli, città guida dei Regno delle Due Sicilie, accumulò capitali e relativi investimenti, cristallizzandoli, però, nel suo immediato entroterra. Centro di consumo piuttosto che di produzione, in essa confluirono per decenni, con alterne fortune, le direttrici dei mercato nazionale ed internazionale, mentre il resto dei Meridione rimase tagliato fuori, per decentramento geografico e per la ferrea logica dei "privato", da ogni attività che non avesse necessariamente il carattere della provvisorietà e della immediatezza. Molte leggi speciali, ieri come oggi, pochi interventi finalizzati a costituire le basi di un possibile decollo industriale o, almeno, precapitalistico. "I lavori pubblici adoperarono per un momento alcune braccia, ma non crearono un'industria nè una borghesia nuova", secondo il Villari (1) e secondo l'intera corrente dei liberalismo risorgimentale che, per primo, declinò l'immobilismo e l'arretratezza meridionali con le desinenze di una questione sociale che non poteva più essere ignorata.
La storia, come la natura, non contempla salti, e forse non se li può permettere. E non è un caso che l'argomento dei quale ci occupiamo (quattro porti salentini) debba prendere l'avvio da una situazione, o da un modo di gestire la cosa pubblica, che affonda le sue radici nelle plastiche aderenze dei secolo scorso, quando la geografia dei Sud, e non solo dei Sud, avrebbe avuto la sua prima, e definitiva, configurazione fisica, economica e sociale.
L'Italia ha uno sviluppo costiero di settemila chilometri. Oltre ai limoni, dovevano fiorire anche i porti. Seicento chilometri di mare in Puglia, con un profondo e sensibile inserimento nel Mediterraneo, ai margini di Paesi e realtà emergenti. Quarantun porti in tutta la regione: nove in provincia di Foggia (Manfredonia, Tremiti, Vieste, Rodi, Mattinata, Peschici, Margherita di Savoia, Foce Varano, Foce Capoiale), dodici in provincia di Bari (Bari, Barletta, Trani, Molfetta, Monopoli, Mola di Bari, Bisceglie, Giovinazzo, S. Spirito, Palese, Torre a Mare, Polignano) quattro in provincia di Brindisi (Brindisi, Savelletri, Villanova di Ostuni, Torre Canne), due in provincia di Taranto (Taranto e Maruggio), bel quattordici nella provincia più orientale della penisola, Lecce (Otranto, Gallipoli, Tricase, S. Maria di Leuca, S. Cataldo di Lecce, S. Foca, Morciano di Leuca, Torre S. Giovanni, Castro Marina, S. Maria al Bagno, S. Caterina di Nardò, S. Cesarea Terme, Porto Cesareo, Salve).
Abbiamo parlato di porti, ma sarebbe meglio parlare di approdi, o scali, perchè i porti veri e propri, in tutta la Puglia, sono appena tre: Bari, Brindisi e Taranto. I primi due, commerciali; il terzo, militare. Il resto della regione è costellato da una miriade di scali, di minima entità e scarsa importanza, destinati a non esperimentare nuovi impulsi e nuove spinte in avanti.
Perchè questo stallo e questo strangolamento economico, anche nell'involuzione dei sistema portuale? E' solo un riflesso dei disorganico programma politico post-unitario, o il frutto di una scelta governativa intesa a trasformare il Mezzogiorno in un territorio dipendente, anche a livello di comunicazioni, in quel "Nebenländer" politico e umano prodottosi, dopo l'Irlanda, in quasi tutti i Paesi europei?
Le due ipotesi hanno seri fondamenti storici: il sistema portuale, nel Meridione, ha risentito dei generale vuoto legislativo che accompagnò, nel primi anni dell'Ottocento, la creazione dei mercato nazionale. Ma ha subìto, parimenti, l'imposizione di un'economia di ristagno che offriva poche possibilità di incrementarsi attraverso i traffici marittimi interni ed esterni. I pochi porti esistenti non vennero sfruttati perchè la logica amministrativa impediva lo smistamento di capitali in aree geografiche decentrate e perchè le infrastrutture dell'entroterra furono realizzate con ritardi notevoli rispetto al resto d'Italia.
Le ferrovie, per esempio. Nel 1859 la rete ferroviaria in esercizio nel Nord era di circa 1500 Km, mentre quella dei Sud non raggiungeva i 350 Km. Bisogna attendere la fine dei secolo perchè l'estremo lembo meridionale sia collegato stabilmente da una ferrovia con le regioni settentrionali.
Indicativo di una tendenza di fondo il fatto che in ben quattro proposte governative per l'unificazione ferroviaria (Petitti e Cavour, 1845; Deboni, 1846; Rossi, 1861; Commissione LL.PP., 1861; Il Politecnico, 1861), il Salento non abbia voce in capitolo. Lo squilibrio è ancor più evidente se si valuta l'entità degli investimenti effettivamente operati nelle diverse circoscrizioni territoriali per le costruzioni ferroviarie: su un totale di 5.600 milioni spesi dallo Stato, il 33,1% è andato al Nord, il 18,1% al Centro e il 27,0% nel Mezzogiorno (il restante 21,8% non può essere ripartito perchè riguarda opere di carattere nazionale, o non territoriale). "Ora, poichè è noto che a causa di condizioni tecniche oggettivamente peggiori (montuosità, natura dei terreno, frequenza di manufatti speciali) i costi unitari per la costruzione di ferrovie sono stati molto superiori al Sud che non al Nord - e lo dimostrano le continue richieste di sovvenzioni, contributi, revisioni di convenzioni che le imprese operanti nel Mezzogiorno facevano allo Stato perchè le sostenesse, ben diversamente da quanto avveniva nel Settentrione, dove le concessioni venivano sollecitate e contese tra i vari gruppi privati - è evidente che a una minor spesa in assoluto non poteva che corrispondere una peggiore qualità dei prodotto, sia in termini di infrastrutture che in termini di servizio" (2).
Qualitativamente e quantitativamente inferiori a quelle dell'Italia Settentrionale, le ferrovie dei Sud agirono, in prospettiva, come fattore di ulteriore squilibrio nel processo di sottosviluppo di un Meridione sempre più riserva finanziaria e "mercato coloniale" utili alla formazione dei moderno apparato industriale dei Nord.
Falliti i tentativi degli speculatori privati (Bayard-de-la-Vyngtrie, Adami e Lemmi, che aveva legami finanziari con il Partito d'Azione, Talabot, Rotschild, Bastogi), il Salento dovrà attendere il 1905, anno della nazionalizzazione e istituzione delle Ferrovie dello Stato, perchè il suo territorio fosse compreso nei piani di intervento ferroviario predisposti dalla "Sud-Est". I lavori inizieranno dopo il 1910.
Seconda voce, viabilità e strade. Nel 1860 la densità stradale complessiva nel Regno delle Due Sicilie era di 0,1 Km per Kmq. di territorio, mentre nel Nord essa era di 0,3 Km. per Kmq. Due soli erano i collegamenti "rotabili" tra Nord e Sud, entrambi difficili e malsicuri: il primo attraversava le Paludi Pontine (l'antica Via Appia) e il secondo l'Appennino abruzzese, da Sulmona a Isernia; entrambi, per di più, convergevano su Napoli, lasciando dei tutto scoperto il resto dei Mezzogiorno continentale. Traffico difficile, spesso pericoloso, quasi sempre discontinuo. Se i riferimenti letterari possono fare testo, basti pensare al viaggio dei Gattopardo da Palermo a Donnafugata.
Quando, nel 1863, il ministro dei LL.PP., De Vincenti, affermava che "niuna cosa ha maggiore influenza sulla produzione di un Paese che la viabilità... le strade vivificano l'agricoltura, creano le industrie, dànno origine ai commerci... la statistica delle strade è la statistica della ricchezza di un Paese", ritenendo che una nazione civile non potesse contare meno di 1 Km di strade per Kmq di territorio, nel Mezzogiorno il 70% dei comuni (1313 su 1792) era praticamente privo di un effettivo collegamento stradale.
Il ritardo, però, coinvolge l'intero apparato nazionale. Nel 1870, la viabilità pubblica si avvaleva di 86.000 chilometri di strade (nazionali, provinciali, comunali), contro i 641.000 chilometri della Francia, e i 200.000 chilometri dell'Inghilterra. Il raffronto èancor marcato se consideriamo che le strade comunali (che ci interessano più da vicino) rappresentavano, tanto per la Francia quanto per l'Inghilterra, la voce maggiormente ricorrente nel capitolo degli investimenti governativi. L'esperienza d'oltr'Alpe che aveva dimostrato, tra l'altro, come il potenziamento dell'agricoltura, in chiave capitalistica esterna, e l'eliminazione dei brigantaggio (Scozia e Galles), in rapporto alla sicurezza interna, dipendessero, in maniera rilevante, dal grado di penetrazione economica dei "chemins vicinaux" e delle "strade parlamentari", non venne recepita, invece, in Italia. Al contrario.
Con la classificazione di cui all'Allegato "F" delle legge n. 2248 dei 1865 che ripartiva, per la prima volta, le strade in quattro categorie in base alle competenze dell'operatore pubblico (strade nazionali, di competenza statale; strade di seconda categoria, di competenza delle province; strade di terza categoria, di competenza dei comuni; e le strade di quarta categoria, demandate ai consorzi formati dagli utenti privati), lo Stato si limitava ad un ruolo di promozione e coordinamento, decentrando la formazione delle reti secondarie ad organi amministrativi minori. Non solo. Tre anni dopo, la legge n.4613, escludendo tassativamente ogni finanziamento governativo, stabiliva che la costruzione delle strade comunali era un obbligo giuridico al quale i comuni non potevano sottrarsi, e al quale avrebbero dovuto provvedere, tempo due anni, anche con l'imposizione di pedaggi, di tasse sui principali utenti, e di prestazioni d'opera gratuite da parte dei cittadini.
Il carattere volutamente discriminatorio della legge è evidente, in quanto privilegiava i comuni più ricchi (disposti interamente nelle province settentrionali), penalizzando i centri meridionali concretamente impossibilitati, per mancanza di fondi di gestione, ad inaugurare un programma organico di costruzioni, e di edilizia, stradali.
I risultati si rivelarono catastrofici. Ai comuni inadempienti si sostituirono le prefetture, con procedure d'ufficio e d'urgenza. Ed anche in questo caso, le sovrapposizioni e gli innesti, gonfiando l'iter burocratico, bruciarono appalti, capitali ed iniziative, finchè il completo fallimento dei disegno governativo non indusse lo Stato ad intervenire di persona, finanziando direttamente i piani di sviluppo e i relativi lavori. Il che avvenne solo nel 1919, con la creazione dell'Istituto Nazionale per le Opere Pubbliche dei Comuni, collegato alla Cassa Depositi e Prestiti e al Genio Civile, e controllato dal Ministero dei LL.PP.
L'isolamento si compie in cinquant'anni. Praticamente, dal 1850 al 1900, dall'abolizione delle barriere doganali interne all'apertura di mercati commerciali esterni, dal l'accentramento amministrativo cavouriano alle leggi speciali dei liberalismo giolittiano. Mai terra di "frontiera", e mai destinato ad avere una sua, peculiare, epopea pionieristica, il Salento perde, proprio in quegli anni, la possibilità di esperimentare gli attributi di un "self government" amministrativo, maturando, invece, in clima autarchico e protezionista, un'economia asfittica, basata su strutture ed infrastrutture inadeguate ed antiquate.


Paradossalmente, il primo treno ad arrivare nel Salento significò, anche, l'ultima corsa, verso il Meridione, di realtà economiche ed industriali ormai orientate verso i mercati internazionali. Al Sud rimase un biglietto di sola andata, un'industria fondamentalmente casalinga, un'agricoltura seminaturale.
In questo contesto, e con queste premesse, il piano delle localizzazioni portuali non poteva non fallire. Fino ad oggi, la storia non ha smentito.
Valgano da esempio quattro porti salentini. Dall'Adriatico allo Ionio: Tricase, Santa Maria di Leuca, Torre Vado, Gallipoli. Su presunzioni storiche, un dato in comune: anticamente costituirono la testa di ponte dei traffico marittimo verso l'Oriente, e dalla Grecia verso le colonie calabresi. Lo attestano i relitti di navi greche e romane, con relativo carico, scoperti sui fondali che cinturano le coste da S. Cataldo a Santa Caterina. Un mercato fiorente, la punta avanzata per la penetrazione economica ad Est e l'interscambio commerciale. Con il passar dei secoli, invece, il declassamento. Porti difensivi (meglio, di "avvistamento") contro le incursioni turche prima, scali di secondo ordine nell'Italia preunitaria poi. Il momento critico, sul finire dell'Ottocento. La mancata realizzazione di strade e errovie e di un organico quanto conveniente collegamento con l'entroterra impedirà ai quattro porti di agganciarsi (trainando il mercato agricolo interno) al decollo capitalistico settentrionale. Penalizzati da secche e scogli che impedivano l'attracco a bastimenti di grosso tonnellaggio, continueranno a sopravvivere ad economie locali sempre più strangolate dall'isolamento geografico. Indicativo, in questo senso, l'esempio dei porto di Tricase che gestì, in esclusiva, fino al 1700, il traffico di pelli conciate, finchè la concorrenza di Francia ed Inghilterra (che si servivano delle infrastrutture tecniche del Nord) e la sopravvenuta impossibilità di piazzare tempestivamente il prodotto sul mercato interno non determinarono, in pochi anni, la caduta verticale di una attività che, in sei secoli, non aveva mai dato segni di cedimento.
A metà Novecento, infine, il collasso. Coincide, almeno per i porti di Tricase, Torre Vado e Leuca, con le scelte economiche della ricostruzione (e un nuovo spostamento di capitali a Settentrione, per la ripresa industriale), con la crisi di rigetto dei l'agricoltura, arcigna nelle sue specializzazioni, con la mancata industrializzazione delle regioni meridionali, con il criterio di rimescolare le carte, inventando la combinazione vincente dei Turismo.
Eccetto quello di Gallipoli, gli altri tre, oggi, sono considerati e classificati esclusivamente come porti turistici, anche se, nell'ottica dei "marketing oriented", gran parte della flotta diportistica si va concentrando sempre più nelle coste liguri e toscane, con una progressiva sottoutilizzazione dei litorali nel resto della Penisola e nelle Isole.
Quale futuro, dunque, per questi porti? E vero quanto sostiene il ministro Signorello, e cioè che "il turismo non è alternativo alla industrializzazione ed allo sviluppo dell'agricoltura" (4), ma è anche vero che il turismo rappresenta, per questi scali e per tutto il Salento, l'ultima spiaggia e l'ultima occasione.
Molte analogie e poche differenze, tra i porti considerati.
TRICASE PORTO: lat. 39° 56' N - long. 18° 24' E. Incassato tra alte scogliere, fondali fangosi e bassi, può ospitare solo imbarcazioni da diporto medio-piccole e pescherecci di tonnellaggio limitato. Classificato, nel primo Novecento, porto di prima categoria, "nei riguardi della difesa dello Stato", agevolò l'esportazione dei tabacco verso i mercati dei Nord Europa, e costituì una tappa obbligatoria per le navi a vapore della società di navigazione "Puglia" che collegava Bari a Messina.


Oggi, il traffico commerciale è praticamente azzerato. Sopravvive la pesca, anche se il numero delle imbarcazioni mediamente presenti nelle sue acque è sensibilmente diminuito dal 1980. Con delibera consigliare dei 1982, è stato approvato il progetto di ampliamento delle strutture portuali, con la creazione di un secondo bacino da collegare con quello esistente: Finanziamenti regionali per circa due miliardi, e lavori che procedono a ritmo ridotto, per difficoltà tecniche, ma soprattutto per gli ostacoli frapposi dalle procedure burocratiche. In prospettiva, la possibilità, e il rischio, che l'inflazione e il costo dei denaro brucino le somme erogate, e che il piano di intervento abbia solo una parziale realizzazione.
Il nuovo porto potrà ospitare fino a trecento imbarcazioni, da pesca e da diporto, ma i ritardi potrebbero invertire anche la tendenza turistica, vanificando gli spiccioli di speranza che ancora restano.
SANTA MARIA Di LEUCA: lat. 39° 48' N -long. 18° 22' E. Quasi venti miliardi di finanziamento (sette regionali, tredici statali); in conto capitale una prima "tranche" di cinque miliardi.
Classificato, nel 1935, nella prima categoria dei porti marittimi nazionali, quale porto di rifugio, e nella seconda categoria, quarta classe, come porto commerciale, non e mai decollato per carenza di strutture e per la posizione geografica che lo decentra al massimo dal capoluogo provinciale. In più, non è un porto sicuro, perchè il libeccio e lo scirocco creano periodiche ondazioni, con notevole risacca nello specchio d'acqua interno.
L'elaborato tecnico, approvato dal Consiglio Comunale di Castrignano dei Capo nel 1980, prevede un prolungamento dell'attuale molo foraneo, di circa 130 metri, e la costruzione, ex novo, di un braccio di chiusura, o "testata", di 40 metri. Le opere, se realizzate, dovrebbero portare ad un incremento e a uno sviluppo lineare delle banchine d'attracco, con l'adeguamento delle dimensioni e delle caratteristiche dello scalo d'alaggio esistente all'attuale flottiglia peschereccia operante in zona. Inchieste giudiziarie e ritardi amministrativi hanno intanto bloccato i lavori che riprenderanno, si presume, dopo l'estate. Per il momento, quindi, solo scalo turistico. Troppo poco, per tentare anche il decollo commerciale nel Mediterraneo.
TORRE VADO, porto di Morciano di Leuca. Una storia recente, da coniugare solo al futuro. Scalo di modestissime dimensioni, è praticamente chiuso anche al discorso turistico. I ritardi, qui, sono stati decisivi. Assegnato nel 1979, il progetto ha preso il via solo quest'anno. Dai 275 milioni iniziali si è arrivati al miliardo e mezzo attuale, ma la cifra non sembra idonea a coprire l'intera realizzazione dei piani di costruzione. Previsti due bracci di contenimento: molo foraneo di 200 metri, e testata di 70 metri, per ospitare 100 imbarcazioni di piccole dimensioni. Penalizzato da una posizione infelice ai margini dei Salento, il porto di Torre Vado potrebbe tentare l'alternativa della specializzazione. Potenziare, cioè, le infrastrutture portuali per lo sfruttamento economico del banchi di corallo (rosso e bianco) che esistono al largo delle sue coste. L'affare è conveniente, se tre pescherecci ciprioti, di media stazza, da due anni conducono ricerche in tal senso. Non solo corallo in ogni caso. La pesca d'alto mare (pesce-spada, triglie ed aragoste) potrebbe risultare oltremodo decisiva per incrementare un'economia locale, fondamentalmente asfittica, ed ancorata tutt'ora ai canoni tradizionali dei l'investimento fine a se stesso.
Ma, queste, sono ipotesi di lavoro, e, come tali, da vagliare, in relazione, sopratutto, alle capacità che il porto avrà di attirare investimenti e capitali.
PORTO DI GALLIPOLI: lat. 40° 03', 5 N - long. 17° 58', 5 E.
E' l'unico scalo salentino che possa, in prospettiva, rompere l'egemonia dei porti settentrionali. L'investimento (30 miliardi) della Regione e dello Stato, per ampliamento delle infrastrutture, sembra destinato in tale direzione. In più, Gallipoli è il solo porto commerciale dei Salento, molto vicino a Taranto, ma molto distante anche da Brindisi e da Bari. Può diventare, pertanto, un polo alternativo nel commercio tra Italia e Paesi emergenti dei Mediterraneo. Le cifre, e il volume degli scambi con Paesi terzi, illustrano ampiamente questa tendenza. Aumento delle esportazioni (vino per i Paesi dei Nord Europa, mattonelle per l'Arabia, vermouth delle aziende esistenti tra Brindisi e Lecce, farina di buccia d'uva che, inutilizzata in Italia, viene convertita in fertilizzante agricolo in Inghilterra), con un incremento dei traffico totale del 47% rispetto agli anni precedenti: 300 navi arrivate e partite, contro le 150 del 1980.

 

Ma Gallipoli è già una realtà diversa. Porto di seconda categoria commerciale e di seconda classe, dispone di approdi differenziati per la flottiglia peschereccia, per quella diportistica e, infine, per quella mercantile. Non sfugge, tra l'altro, l'importanza strategica (come base di ripiegamento, nell'ipotesi di un attacco alle strutture militari tarantine), visto il sensibile inserimento nel bacino dei Mediterraneo che lo rende trait d'union con i paesi africani e con quelli medio-orientali.
Molte analogie, abbiamo detto. In sintesi: i quattro porti non dispongono di un collegamento, ferroviario e stradale, adatto allo smistamento delle merci verso l'interno, e dall'interno. In secondo luogo, gli investimenti finanziari per il potenziamento delle capacità portuali sono stati deliberati, e ancora spesso sulla carta, con notevole ritardo rispetto ad altri approdi italiani. In terzo luogo, eccetto Gallipoli, gli altri porti non dispongono di un mercato ittico di sostegno, all'interno delle stesse strutture portuali. Il pescato deve subire i cosiddetti "tempi di percorrenza", prima di arrivare nei paesi e nella stessa città di Lecce. Aumentano, così, tempi e spese. Quarto rilievo, l'insufficienza delle infrastrutture costringe l'economia della pesca a un circolo vizioso che si consuma, nell'immediato entroterra, senza possibilità di piazzarsi su mercati diversi e decentrati. Quinto, le stesse carenze tecniche impediscono ai quattro porti di arginare la concorrenza, ormai spietata, di altri Paesi meridionali, come Mazara dei Vallo, ed internazionali come il Giappone e la Francia.
Nella polverizzazione degli interventi, delle responsabilità e delle competenze in materia portuale, Tricase, Leuca e Torre Vado danno l'impressione di non poter reggere il passo, perdendo anche l'ultima corsa. Solo Gallipoli potrebbero ancora tentare, in extremis, la carta dei commercio con i Paesi dei Terzo mondo.
In caso contrario, non solo il Salento si ripiegherà, contemplativo, sullo stallo economico che, in definitiva, gli appartiene, ma si assisterà anche al solito e collaudato fenomeno degli interventi straordinari che non portano a nulla di concreto e di definitivo. Anche perchè se è vero che, parafrasando Lamartine, "noi dobbiamo tutto al mare", è anche vero che il coccodrillo dello sviluppo meridionale non si ottiene soffiando dentro la lucertola dei vuoti politici.


NOTE
1) P. Villari, "Le lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in ltalia", Firenze, 1878, p. 41.
2) Alberto Mioni, "Le trasformazioni territoriali in Italia della prima età industriale", Marsilio ed., Venezia, 1976.
3) R. Tremelloni, "Fasi della recente storia delle strade in Italia", in Economia e Storia, IX, 1962, n. 4.
4) Gazzetta del Mezzogiorno, 27 marzo 1983, p.4.


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